L'atto di indirizzo e coordinamento può trovare nella giurisprudenza costituzionale il fondamento della sua legalità?

 

            Più volte la Corte costituzionale ha confermato che l'autoqualificazione di un atto non è decisiva, non esime cioè dalla verifica dell'effettivo contenuto dell'atto stesso. Lo ha detto in termini generali[1], lo ha ribadito a proposito delle leggi cornice[2] e delle leggi di "grande riforma economico-sociale"[3], lo conferma ora a proposito degli atti di indirizzo e coordinamento. La Corte, infatti, nega che l'atto impugnato, il d.P.R. 31 marzo 1994, sia espressione della funzione di indirizzo e coordinamento, benché si presenti chiaramente sin dal titolo ("Atto di indirizzo e coordinamento in materia di attività all'estero delle regioni e delle province autonome"), e dia conto nel preambolo dell'aver compiuto l'iter tipico di tali atti. Si tratterebbe di un atto che non è rivolto ad indirizzare l'attività amministrativa di soggetti dotati di autonomia, ma "essenzialmente diretto a disciplinare l'esercizio di poteri dello Stato, sia pure riferiti ad attività regionali".

            L'affermazione è sorprendente, perché i "poteri dello Stato" sottoposti a disciplina sono solo quelli "passivamente" connessi agli adempimenti che Regioni e Province autonome devono rispettare per svolgere le attività promozionali, quelle di mero rilievo internazionale e quelle rivolte agli organi della Unione europea. Il decreto si limita a definire queste attività regionali e disciplinare le procedure che le Regioni devono rispettare per poterle legittimamente esercitare: in altre parole, regolamenta la leale cooperazione nel settore, e lo fa prescrivendo alle Regioni le mosse procedurali necessarie a garantire l'efficienza della vigilanza governativa sulle attività regionali. Come ebbe a dire la Corte in altre occasioni, "poiché si tratta di una disciplina che interferisce sull'autonomia regionale..., le relative prescrizioni possono essere validamente disposte soltanto con un atto legislativo statale o, comunque, con un atto amministrativo adottato sulla base di una legge"[4]

            Quello che manca al decreto impugnato è, appunto, un valido fondamento legislativo, perché la sua "base-giuridica" si trova semmai nella stessa giurisprudenza costituzionale. E' stata la Corte, infatti, a sollecitare l'emanazione di una disciplina della "leale cooperazione" per le attività internazionali delle regioni, in cui venisse fissato "un termine per l'inoltro delle domande di assenso da parte delle regioni... da parte del legislatore o del Governo, eventualmente mediante un atto di indirizzo e coordinamento integrativo del d.P.C.M. 11 marzo 1980"[5]; ed in effetti, il decreto impugnato puntualmente si richiama, in premessa, alla "opportunità di adeguare agli sviluppi anche giurisprudenziali dell'ordinamento italiano e di quello comunitario il contenuto del d.P.C.M. 11 marzo 1980".

            Da qui l'imbarazzo della Corte: il decreto impugnato ottempera ad un invito esplicito della Corte e, oltretutto, copre una lacuna di disciplina ormai non più tollerabile perché rende troppo incerti e conflittuali i rapporti tra Stato e Regioni[6]; per di più il decreto recepisce le definizioni poste dalla giurisprudenza costituzionale e trasfonde in norma i criteri di leale cooperazione che essa è venuta progressivamente fissando[7]; l'impugnazione da parte delle Province autonome guarda essenzialmente all'applicazione del decreto nei loro confronti (problema facilmente superabile), e solo a rafforzamento dell'argomentazione è dedotta la carenza di fondamento legislativo dell'atto; ma, d'altra parte, la giurisprudenza della Corte ha sempre ribadito che gli atti di indirizzo e coordinamento non possono mai derogare dalla regola della legalità sostanziale[8], e di questa affermazione ha fatto un test di giudizio davvero inaggirabile[9]. Si tratta, insomma, di un atto opportuno, meritevole di essere mantenuto in vigore, ben accolto dalle regioni che non lo hanno eccepito se non per gli specifici aspetti che toccano la speciale autonomia delle Province di Trento e Bolzano: epperò di un atto che, se si qualifica come espressione della funzione di indirizzo e coordinamento, non potrebbe che essere dichiarato illegittimo.

            Ecco perché la Corte si avventura sul difficile terreno della dimostrazione dell'estraneità di esso dalla funzione di indirizzo e coordinamento. Dimostrazione difficile, perché come la sentenza in commento sottolinea, l'atto non si limita a disciplinare le competenze degli organi dello Stato e a porre direttive per le valutazioni che ad essi spettano, ma, "in sede di disciplina del procedimento di propria competenza", esso indica "gli organi ai quali i programmi delle attività ed ogni altra comunicazione devono essere inviati dalle regioni, precisando il contenuto delle relative informazioni ed i tempi del loro inoltro, perché sia possibile l'effettivo esame delle attività previste". Vincoli per l'esercizio delle attribuzioni regionali, dunque, ne derivano: e quale è il fondamento legislativo?

 

 

  

 

  

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[1] Si vedano per esempio le sentt. 611/1987 e 726/1988 (in questa Rivista, rispettivamente, 1988, 488 ss., con nota di A. Pizzorusso, e 1989, 973 ss., con nota di C. Murgia). In dottrina, cfr. M. PEDETTA, L' "inerzia" delle regioni e l'intervento dello Stato con norme di dettaglio nelle materie di competenza regionale., in Giur. cost. 1988, II, 87 ss., 111; A. MANGIA, Sulle clausole di autoqualificazione ecc., in Il dir. della reg. 1990, 69 ss; M. CARLI, Il limite dei principi fondamentali, Torino 1992, 198 ss.

 

[2] Si vedano per esempio le sentt. 192/1987 e 85/1990 (in questa Rivista, rispettivamente, 1987, 1535 ss., con nota di M. Marpillero, e 1991, 290 ss., con commenti di U. Pototschnig, G. Pastori e S. Bartole).

 

[3] Si vedano per esempio le sentt. 219/1984, 151/1986, 99/1987, 349/1991, 354/1994 (in questa Rivista, rispettivamente, 1984, 1325 ss.. con note di S. Bartole e G. Pastori, 1986, 1283 ss., con nota di S. Bartole, 1987, 1116 ss., con nota di G. Pastori, 1992, 1050 ss., con nota di V. Angiolini, 1995, 901 ss., con nota di P. Giangaspero), nonché 85/1990, cit.

 

[4] Sent. 517/1991, in questa Rivista 1992, 1577 ss., 1584.

 

[5] Sent. 472/1992, in questa Rivista 1993, 1321 (con note di R. Bin e M. Sotgiu)

 

[6] Si vedano infatti i numerosi conflitti insorti sulle procedure d'intesa: sentt. 124/1993, 204/1993, 290/1993, 26/1994, 212/1994

 

[7] Che i criteri della leale cooperazione siano già piuttosto precisamente definiti dalla giurisprudenza costituzionale è dimostrato dall'alto tasso di successo che registrano i conflitti promossi a causa della loro violazione: cfr. R. BIN, I conflitti di attribuzione tra enti nel biennio 1993-1994 (aspetti sostanziali), in Foro it. 1995, I, 1746 ss.

 

[8] La giurisprudenza a proposito è assai abbondante: si vedano le sentt. 150/1982; 338/1988; 560/1988; 139/1990; 346/1990; 24/1991; 359/1991; 517/1991; 486/1992; 30/1992; 384/1992; 355/1993; 45/1993; 26/1994.

 

[9] Cfr. R. BIN, Impugnativa regionale di legge statale. Conflitto di attribuzione (aspetti sostanziali), in La giurisprudenza della Corte costituzionale di interesse regionale (1991-1992), Rimini 1993, 149 ss., 153.