L'IMPORTANZA DI PERDERE LA CAUSA

(Nota a Corte cost. 462/1994)

 

 

1. Da tempo, nel contenzioso con lo Stato, le Regioni stanno sviluppando una strategia difensiva nuova e lungimirante[1]. La difesa è giocata su due tempi e, in genere, in due sedi diverse: in un primo tempo, e in sede di giudizio di legittimità, si attaccano le leggi statali che, anche solo potenzialmente, minaccino le attribuzioni regionali, al fine di provocare una sentenza che di queste leggi circoscriva la portata normativa o precisi le condizioni di applicazione; in un secondo tempo, forti del precedente, si attaccano, in sede di conflitto, gli atti applicativi di quella legge che fuoriescano dai limiti o dalle condizioni fissati nella decisione precedente della Corte. Come è ovvio, gli stessi conflitti di attribuzione possono talvolta costituire una prima tappa di questa difesa in due tempi, quando vertono su atti normativi generali, atti di indirizzo e coordinamento, regolamenti ecc.: poiché la interpretazione restrittiva della loro portata può servire altrettanto bene ad una successiva difesa contro atti di applicazione puntuale.

            Sembra talvolta che questo sdoppiamento dei giu­dizi sia deliberatamente perseguito dalla Corte, che si mostra a tal punto intenzionata a conferire alla sua pronuncia la forza di precedente, da suggerire alla ricorrente come utilizzarlo in futuro. Un esempio lo si può trovare nella sentenza 482/1991, laddove essa indica alla ricorrente, cui nega la le­gittimazione ad agire in astratto contro la legge, la possibilità con il conflitto di difendere le pro­prie attribu­zioni qua­lora fossero violate in concreto dal sin­golo atto di esercizio del potere contestato. "Ed è inutile dire - è ricordato ancora nella sentenza 294/1986 - che è riservato a que­sta Corte, in sede di conflitto di attribuzione, il sindacato sul rispetto dei limiti così dise­gnati". Questo aspetto non è affatto privo di con­seguenze, perché è chiaro che più forte sarà la rica­duta prescrittiva delle regole che la Corte ha elabo­rato in sede di giudizio sulla norma generale, se sarà la Corte stessa a doverle appli­care al caso con­creto[2].

            Nella giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni, numerosi sono i casi in cui questo schema si è rivelato funzionale e proficuo per la difesa regionale. Si possono ricordare le sentenze 85/1990 e 126/1990 (implicita inclusione "interpretativa" versus concreta esclusione della Provincia autonoma dagli organi delle autorità di ba­cino); 139/1990 e 359/1991 (esclusione "interpretativa" che la legge impugnata conferisca un potere di indirizzo e coordinamento in materia di organiz­zazione degli uffici statistici vs. concreto esercizio di tale po­tere); 85/1990 e 30/1992 (stessa ipotesi, in materia di at­tività conoscitive connesse alla difesa del suolo); 483/1991 e 244/92 (esercizio di potere previsto da norma già par­zialmente dichiarata illegittima); 386/1991 e 43/1992 (stessa ipotesi); 188/1992 e 370/1992 (sentenza formal­mente interpretativa, che restringe il significato dell'obbligo di comunicare i prezzi degli alberghi vs. regolamento ministe­riale che lo espande); 132/1993 (che dà ragione alle Regioni, ricorrenti contro il Ministro del tesoro, in forza della precedente ricostruzione della ratio della tesoreria unica, già affermata e confermata in numerosi precedenti); 21/1991 e 6/1993 (dichiarazione di illegittimità della legge 223/1990 sulle radiofrequenze, nella parte in cui prevedeva, come meccanismo di cooperazione, il parere anziché l'intesa vs. atto assunto senza rispetto del principio di leale cooperazione).

 

2. Con le spalle coperte da un "precedente" della Corte che stabilisce, ragionando in riferimento alla astratta previsione della norma (di legge o di regolamento), una "regola" favorevole[3], la Regione avrà dunque ottime prospettive di successo, quando dovrà giocare "in seconda battuta". Ma la forza futura di questo precedente non dipende affatto dal dispositivo della sentenza che lo contiene: in fondo, l'esito del primo ricorso, quello contro la norma generale, ha un'importanza relativa per la Regione che lo promuove. Il risultato che essa vuole ottenere in quella fase è soltanto un'affermazione della Corte che delimiti la portata normativa delle disposizioni impugnate e che fissi le condizioni a cui esse potranno essere applicate alle Regioni.

            Tale affermazione sarà contenuta nella motivazione della sentenza, non nel dispositivo. Il tenore di quest'ultimo passa in secondo piano, di fronte all'importanza che può assumere la motivazione. Benché ciò vada contro a tutto quello che usualmente si dice a proposito della (non) efficacia della motivazione delle sentenze nell'ordinamento italiano, in questo caso la motivazione vale di più del dispositivo.

            Proprio l'obiettivo di ottenere dalla Corte una pronuncia di principio, come difesa preventiva della Regione, spiega alcuni ricorsi solo apparentemente avventati, se non disperati, delle Regioni: come, selezionando pochi esempi nelle ultimissime annate di giurisprudenza, quello mosso dall'Emilia-Romagna contro una nota della Presidenza del Consiglio, rivolta ai Commissari di Governo, che sembra invitare a ritardare l'applicazione di una decisione della Corte cost. sull'indennità di rischio radiologico (sent. 169/1993); il ricorso dell'Umbria contro una circolare ministeriale che precisa le funzioni di controllo dell'AIMA in materia di interventi comunitari a favore dei coltivatori di seminativi (sent. 425/1993); il ricorso delle Province autonome contro il decreto interministeriale che regole le attività omologative dell'ISPESL (sent. 307/1994); od ancora, il ricorso della Lombardia contro il decreto ministeriale sulle funzioni degli uffici veterinari del Ministero stesso (sent. 458/1993).

            In tutti questi casi la Corte pronuncia il rigetto o, non meno frequentemente, l'inammissibilità del ricorso, a seguito di un'interpretazione delle disposizioni impugnate volta a fugare ogni pericolo di invasione per le attribuzioni regionali.

            La motivazione del rigetto pone una "regola" che delimita la portata della astratta previsione normativa. Solo in un numero ristretto di casi si tratta di una vera e propria sentenza "interpretativa", di quelle cioè che richiamano la motivazione nello stesso dispositivo (con la formula "nei sensi di cui in motivazione")[4]; ma non è certo questo dato, tutto sommato formale anche se significativo[5], a modificare l'utilizzabilità del precedente in un successivo giudizio.

            Analoghe considerazioni possono valere allora anche per molte pronunce di inammissibilità del ricorso. E' questa la formula del dispositivo per cui la Corte opta, in particolare, nei casi in cui la Regione reagisca ad un fenomeno che negli ultimi anni ha preso piede, cioè l'emanazione da parte degli organi del Governo di atti "informali" o comunque privi della necessaria tipicità, tutti però riportabili, sotto il profilo dei contenuti, all'attività di indirizzo e coordinamento. Le Regioni li impugnano in via, per così dire, di tutela preventiva, per evitare di vederseli applicare un giorno; la Corte dichiara il ricorso inammissibile per mancanza del presupposto della lesività[6]. Ovviamente tanto dichiara, ma altrettanto prescrive: verrebbe perciò da dire che si tratta, in questi casi, di sentenze "interpretative" di inammissibilità.

 

3. La sentenza in commento appartiene a questa categoria di sentenze di inammissibilità. L'Umbria ha impugnato[7] il decreto del Ministro dei beni culturali e ambientali che ha disciplinato la gestione dei c.d. "servizi aggiuntivi" che i musei e le biblioteche possono servire al pubblico. La stessa ricorrente riconosce che la nuova disciplina non può riguardare i musei e le biblioteche locali, né che potrebbe  configurarsi come un atto di indirizzo e coordinamento; si mostra preoccupata, invece, della possibile applicazione di un meccanismo specifico previsto dal regolamento. Si tratta di questo: la possibilità che il Ministro, per una più proficua gestione dei servizi nei vari musei presenti nel territorio, autorizzi il ricorso ad un'unica gara per l'affidamento dei servizi aggiuntivi, gara che può essere svolta "anche per la gestione integrata di servizi aggiuntivi di musei ed istituti di enti locali territoriali che lo richiedano, sentite le amministrazioni regionali interessate"; in questo caso la commissione aggiudicatrice è integrata da un componente designato dalla Regione interessata. La preoccupazione della ricorrente è che questa norma possa essere interpretata nel senso che i musei locali possano scavalcare la Regione offrendo all'autorità statale la decisione se procedere o meno all'applicazione del meccanismo previsto dal decreto, con il risultato di vanificare le attribuzioni regionali. E', come appare evidente, un'interpretazione estrema del regolamento, la più pessimistica, dal punto di vista della Regione. Ed è per questo che il ricorso la adotta, proprio per esorcizzarla.

            La Corte non ha dubbi sull'infondatezza dell'interpretazione proposta: lo stesso decreto, in fondo, prevede che, prima di decidere, il Ministro debba sentire la Regione. Ma aggiunge qualcosa di molto importante per gli interessi della ricorrente: che quel "sentite" le Regioni interessate allude non al modulo più basso della "leale cooperazione", il parere, ma a quello più alto, il consenso. Ciò posto, avrebbe potuto seguire tre strade, apparentemente per nulla equivalenti. Avrebbe potuto accogliere il ricorso, con un dispositivo di annullamento parziale del regolamento, "nella parte in cui..."; avrebbe potuto rigettare il ricorso, con una sentenza sostanzialmente, ma non formalmente interpretativa (siamo in sede di conflitto, infatti); avrebbe potuto - come ha fatto - dichiararlo inammissibile, per mancanza della lesività.

            Quale di questi tre dispositivi sarebbe stato più conveniente per la Regione? Non fa quasi differenza. Anzi, trattandosi di "esorcizzare" il pericolo che si affermi un'interpretazione sfavorevole, forse, paradossalmente, l'esorcismo più efficace è proprio quello che nega in radice l'attendibilità stessa dell'interpretazione temuta. Può sembrare che la Regione abbia perso questo scontro, ma in realtà ha conquistato una posizione sicura da cui garantirsi da sorprese future.



[1] Cfr. ROMBOLI, Impugnativa regionale di legge statale. Conflitto di attribuzioni (aspetti procedurali), in CONSIGLIO REGIONALE DELLA TOSCANA, La giurisprudenza della Corte costituzionale di interesse regionale (1987-1990), Firenze 1992, 103 ss., 114; ID., Conflitto di attribuzioni tra enti e impugnativa regionale di legge statale (aspetti procedurali), in CONSIGLIO REGIONALE DELLA TOSCANA, La giurisprudenza della Corte costituzionale di interesse regionale (1991-1992), Rimini 1993, 129 ss., 144; BIN, Impugnativa regionale di legge statale. Conflitto di attribuzioni (aspetti sostanziali), ivi, 149 ss., 159-163; ID., "Coordinamento tecnico" e poteri regolamentari del Governo; spunti per un'impostazione 'posteuclidea' della difesa giudiziale delle Regioni, in  questa Rivista 1992, 1449 ss.; ID., Conflitti di attribuzione (aspetti sostanziali), in Foro it. 1995 (in corso di stampa).

 

[2] Cfr. DIMORA, Le sentenze inter­pretative di rigetto nei giudizi in via d'azione: qualche conside­razione, in Le Regioni 1987, 749 ss., 758 s.

 

[3] Altrove ho cercato di mettere in luce come questa pagina della giurisprudenza costituzionale in tema di regioni presenti forti isomorfismi con le tecniche di bilanciamento degli interessi che la Corte applica nella giurisprudenza in tema di diritti (cfr. "Coordinamento tecnico" cit., 1455 ss.).

 

[4] Esempi recenti di sentenze interpretative di rigetto in senso proprio possono trovarsi nelle seguenti decisioni: sent. 214/1988 (le direttive ministeriali per il coordinamento degli uffici sanitari di frontiera non possono produrre, neppure indirettamente, effetti vincolanti per gli uffici regionali o provinciali); sent. 85/1990 (procedure di "leale cooperazione" in materia di difesa del suolo; la clausola di rispetto delle minoranze etniche è implicita nelle leggi statali; specificazione dei bacini di rilievo nazionale nei cui organi sono rappresentate le Province autonome); sent. 224/1990 (la clausola di rispetto delle minoranze etniche è implicita nelle leggi statali); sent. 382/1990 (l'albo nazionale dei fornitori sanitari non sostituisce quello regionale; le direttive ministeriali in materia di acquisti e approvvigionamenti non riguardano le regioni); sent. 539/1990 (ineleggibilità dei "collocatori" in Sicilia: delimitazione dell'ambito territoriale); sent. 349/1991 (funzione suppletiva della legge statale nei confronti delle autonomie speciali per l'attuazione degli obblighi comunitari); sent. 169/1994 (la sanatoria dell'abusivismo edilizio in Sicilia non può essere automatica); sent. 224/1994 (la liberalizzazione del settore bancario comporta perdita del potere consultivo in materia).

 

[5] Nel biennio 1991-92, per esempio, il 30% delle sentenze di rigetto pro­nunciate su ricorso delle regioni presentano un dispositivo inter­pretativo. Sul fenomeno, in generale, cfr. ONIDA, I giu­dizi sulle leggi nei rapporti fra Stato e Regione: profili pro­cessuali, in Le Regioni 1986, 986 ss., 1002 s.; DIMORA, Le sentenze cit.

 

[6] Alcuni esempi: sent. 157/1991 (regolamento per l'organizzazione del Dipartimento per le politiche comunitarie); sent. 408/1992 (elenco di alte specialità e requisiti minimi delle relative strutture sanitarie); sent. 307/1994 (regolamento attività omologative dell'ISPESL).

 

[7] Il ricorso è pubblicato nel n. 22/1944 della G.U. (serie speciale).