Conviene alle regioni difendere le attribuzioni lese da un programma cofinanziato dalla Comunità europea?

 

 

         L’Umbria e le Marche hanno impugnato alcune circolari ministeriali attinenti all’attuazione degli interventi in materia di formazione professionale, cofinanziati dal Fondo sociale europeo.

         Un primo risultato l’hanno ottenuto subito. Il ministero ha, immediatamente dopo il ricorso, modificato le premesse di una delle circolari impugnate, rimuovendo le ragioni delle lamentele regionali: cioè l’affermazione del carattere vincolante che le norme della circolare avrebbero avuto in forza di intese formali raggiunte con le regioni interessate. Questo inciso rischiava di attribuire alla circolare una funzione di strumento improprio di indirizzo e coordinamento nei confronti delle Regioni stesse, anziché quella di mera enunciazione di criteri uniformi aventi valore indicativo. Da notare è che troppo spesso gli atti ministeriali fanno riferimento a consultazioni o intese mai avvenute, oppure, come in questo caso, a contatti realmente esistiti, ma a cui si attribuiscono caratteristiche diverse da quelle effettive. Come dire: l’obbligo di rispettare le procedure di “leale cooperazione” è spesso assolto solo a parole, e da ciò discende un motivo assai frequente di impugnazione per conflitto di attribuzioni da parte delle Regioni.

         Tolta di mezzo questa prima censura (è stata la stessa Regione ricorrente a proporre la cessazione della materia del contendere), sono rimasti sul tavolo i quesiti relativi ai poteri dello Stato nell’attuazione del piano operativo. Le circolari riservano infatti all’amministrazione centrale un complesso di inziative che incidono sull’esercizio delle funzioni regionali. Sotto questo profilo, e a parte la complessa ricostruzione dei meccanismi che hanno portato all’approvazione in sede comunitaria dei piani operativi, il contributo di questa sentenza, anche se non particolarmente innovativo, è interessante perché ripercorre con ordine lo schema di ragionamento della Corte sulle questioni attinenti ai rapporti tra Regioni e Comunità europea. Appartiene cioè a quelle sentenze che contribuiscono a “fare il punto”[1] su tali questioni.

         Innanzitutto - afferma la Corte - bisogna distinguere se la sottrazione di competenze derivi dall’atto comunitario o da un atto dello Stato privo di “copertura comunitaria”, sia cioè imputabile alle scelte dell’amministrazione centrale. In questo secondo caso si rientra nelle regole generali, e le attribuzioni regionali sono pienamente difendibili (salvo le precisazioni che si faranno in conclusione).

         Nel primo caso invece - ribadisce la Corte - la particolarità del regime giuridico degli atti comunitari consente che essi ripartiscano le competenze tra Stato e Regioni secondo linee diverse da quelle vigenti nell’ordinamento italiano. E’ un’affermazione che si ripete ormai da un decennio (cioè dalla sent. 399/1987), nonostante le molte critiche che la dottrina le ha rivolto. Essa come sempre si accompagna alla controaffermazione del limite che incontra la deroga alle norme costituzionali sulla competenza, cioè i “princìpi supremi della Costituzione”. Ma, come si sa, è un limite che, in generale, non è predefinibile, ma, in particolare relazione alle attribuzioni regionali, è anche difficilmente immaginabile: forse potrebbe scattare nel solo caso, un po’ paradossale, in cui la Comunità imponesse espressamente agli Stati membri un assetto organizzativo del tutto centralizzato, negando così deliberatamente i princìpi di autonomia e di sussidiarietà. E non è neppure da escludere che, in questa fantasiosa ipotesi, non sia necessario ricorrere al complicato meccanismo suggerito dalla Corte costituzionale sin dalla “storica” sentenza 170/1984 (cioè l’impugnazione dell’ordine di esecuzione del Trattato istituivo “nella parte in cui” consente l’ingresso nel nostro ordinamento della norma contraria ai “princìpi supremi”), ma si possa impugnare direttamente l’atto comunitario difronte alla Corte di giustizia, lamentando la violazione degli stessi princìpi del Trattato.

         Di fatto, però, le incisioni sul riparto delle competenze discendono usualmente, non da atti generali della Comunità (queste sono perlopiù “indirette”, sono cioè la conseguenza di norme di liberalizzazione che tolgono funzioni alle Regioni, non per attribuirle ad altri apparati pubblici, ma per allentare la pressione del “pubblico” sul “privato”[2]), ma da decisioni che approvano strumenti di programmazione alla cui formazione le stesse Regioni hanno concorso. In questo caso - dice ancora la Corte - “le Regioni hanno l’onere di attivarsi prima che i programmi dello Stato vengano trasfusi in atti della comunità assumendo il valore giuridico proprio di questi”. Si sa, e l’esperienza di tutti gli ordinamento a struttura regionale o federale sta a testimoniarlo, che dove si agisca per accordi di programma, le linee di demarcazione delle competenze tendono a vanificarsi: la collaborazione tra i livelli di governo supera e offusca la divisione delle rispettive competenze. E’ la lealtà della collaborazione - dice dunque la Corte - che deve essere garantita, ed è forse questa applicazione particolare di uno dei principi tradizionali della giurisprudenza costituzionale a costituire il punto più rilevante della sentenza in commento: la tenuta del suo ragionamento “postula l’osservanza piena, da parte dello Stato, del dovere di informazione preventiva quale immediata puntualizzazione del principio di leale cooperazione, circa l’esatto contenuto dei piani e dei programmi dei quali esso intende ottenere l’approvazione e il sostegno comunitario”. Non è che un obiter dictum, ma può costituire per le Regioni lo strumento per reagire a sottrazioni di competenze causate da atti comunitari concertati dalla sola amministrazione statale.

         Dunque, si può concludere che difronte a atti comunitari concertati con le autorità italiane, lesivi della proprie competenze, le Regioni possano agire, o in via preventiva, nel procedimento formativo, oppure in via successiva, impugnando gli atti attuativi dello Stato, in due sole ipotesi però: perché lo Stato non ha adempiuto agli obblighi di informazione insiti nella regola della “leale cooperazione”; oppure perché lo Stato ha compiuto scelte lesive delle competenze regionali senza esservi costretto dalle norme comunitarie. Ma attenzione, avverte la Corte a conclusione del suo ragionamento, perché l’eventuale dichiarazione di illegittimità dell’atto statale potrebbe avere effetti molto negativi per la Regione. Per esempio, per quanto riguarda il caso di specie, l’annullamento della circolare ministeriale ripristinerebbe sì l’astratta competenza regionale, ma non sostituirebbe l’amministrazione statale con quella regionale nella gestione del programma cofinanziato dalla comunità, con possibile riduzione del contributo comunitario per irregolarità. Allora, conviene alla Regione difendere le proprie attribuzioni?

 

 

                                                                                     Roberto Bin



[1] Così ANZON, Le Regioni in balia del diritto comunitario?, in Giur.cost. 1996, 1062 (a proposito della sent. 126/1996, qui richiamata).

[2] Un buon esempio è l’eliminazione delle attribuzioni delle Regioni speciali in materia bancaria a seguito delle direttive di liberalizzazione del settore: si vedano le sent. 224/1994 e 102/1995.