"COORDINAMENTO TECNICO" E POTERI REGOLAMENTARI DEL GO­VERNO: SPUNTI PER UN'IMPOSTAZIONE "POST-EUCLIDEA" DELLA DIFESA GIUDIZIALE DELLE REGIONI.

 

 

1. Questo fa­scicolo de "Le Regioni" riporta alcune sen­tenze che sono collegate da un filo comune: il potere regola­mentare dello Stato in materie di competenza re­gionale.      

        Nella sent. 482/1991, la Corte schiva, con argomen­tazioni non prive di un certo formalismo[1], l'impugnazione della norma della legge 9/1991 che pre­vede l'emanazione di un rego­lamento "delegato" per il riordino delle procedure di concessione e autorizza­zione per la lavorazione o il deposito di oli mi­nerali e le opere minori: in questo caso la contestazione era mossa contro l'autorizzazione a fissare con il regola­mento anche i "termini perentori en­tro i quali ciascuna autorità, compresa la Regione interessata, dovrà adot­tare gli atti procedimentali di propria competenza, trascorsi i quali gli atti stessi si inten­dono adottati in senso favorevole".

        Nella sent. 483/1991, invece, sempre in materia di energia, ma con riferimento alla legge 10/1991, la Corte fa salva la previsione (art. 4) di un potere re­golamentare del go­verno e dei singoli ministri relativo alla definizione di prescrizioni tecniche tese al ri­sparmio energetico.

        Nella sentenza 507/1991, con una motivazione la cui evasività potrebbe sconcertare se non rientrasse perfettamente nello "stile" consueto di quel giudice redattore, viene risolto a favore del ricorrente un conflitto di attribuzioni promosso dalla Provincia di Bolzano, con l'annullamento parziale del decreto 26 marzo 1992, emanato dal Ministro della sa­nità in attua­zione della direttiva 80/778/CEE sulle ac­que destinate all'uso umano, perché non si limita alla disciplina dei soli "profili tecnici della materia di competenza esclusiva", ma si prevedono anche attività ispet­tive, di vigilanza e di controllo.

        Infine, nella sent. 517/1991, che riguarda il DPCM 1 marzo 1991, con cui vengono fissati i limiti massimi di esposizione al ru­more negli ambienti abitativi e nell'ambiente esterno, pur facendo salvo l'impianto ge­nerale del decreto, perché esercizio legittimo (e con­forme al principio di "legalità sostanziale" che da tempo la Corte ha in­dividuato come condizione necessa­ria di legittimità di atti amministrativi di indirizzo e coordinamento[2]) del potere dello Stato di stabilire condizioni uniformi di salute sul territorio nazionale, la Corte però lo an­nulla nella parte in cui si dettano "principi organiz­zativi e indirizzi nei confronti delle funzioni legi­slative e amministrative delle regioni e province auto­nome, nonché oneri alle imprese, i quali sono posti nell'esercizio di poteri statali incidenti su potestà regionali o provinciali in totale mancanza del richie­sto fondamento legislativo".

 

2. Le radici di queste problematiche affondano nella stessa giurisprudenza della Corte: in primo luogo nella distinzione che essa ha elaborato tra l'indirizzo-coor­dinamento "politico-amministrativo" e l'indirizzo-coor­dinamento c.d. "tecnico"[3]. Questa seconda categoria è servita a giustificare una serie alquanto eterogenea di rela­zioni tra le amministrazioni di settore dello Stato (centrali e periferiche) e delle Regioni. Eterogenea sia per contenuti che per intensità del vincolo deri­vante dagli atti espressione di questi poteri di dire­zione e di coordinamento.

        In certi casi si è trattato di esigenze di coordi­namento delle strutture periferiche dell' amministra­zione statale, con riflessi solo debolmente obbligatori nei confronti delle amministrazioni locali interes­sate[4]. In altri, invece, la forza obbligatoria del vin­colo è stata imputata alla stessa legge che legittimava l'atto di coordinamento, questo essendo ricollegabile a quella attraverso l'esercizio di una discrezionalità definibile come "meramente tecnica"[5]. Talvolta, infine, il "coordinamento tecnico" si è ridotto ad esprimere poco più che un obbligo di collaborazione delle regioni nella formazione dei piani statali di settore[6].

        Non risulta affatto chiaro in cosa consista l'aspetto "tecnico" che segnerebbe il discri­mine tra questa forma di coordinamento e quella espri­mibile con l'altro strumento, l'indirizzo e coordina­mento in senso proprio: viceversa, i due strumenti sono soggetti a re­gimi completamente diversi per ciò che attiene alle garan­zie di tipo proce­dimentale[7]. La Corte ci fornisce un criterio distintivo molto ge­nerale: il coordinamento tecnico mirerebbe ad ottenere una omogeneità delle me­todologie ("tecniche", appunto) con cui operano ammini­strazioni diverse, e non potrebbe perciò incidere sul merito delle scelte po­litico-amministrative delle re­gioni, né sulle soluzioni organizzative o procedurali attraverso cui quelle scelte si esprimono o si produ­cono. Tant'è vero che anche di recente ha dichiarato che "non è ammissibile che norme dirette a limitare l'esercizio delle competenze regionali o provinciali ... siano poste attraverso una fonte qualificabile come regolamento ministeriale"[8].

        E' del tutto evi­dente la vaghezza del criterio di­stintivo e la diffi­coltà di una netta separazione tra aspetti tecnici e aspetti politico-amministrativi di qualsiasi azione dell'amministrazione[9]. Ma va poi ag­giunto che il coordinamento si qualifica come "tecnico" per ragioni che mutano notevolmente da caso a caso. In riferimento al ruolo dell'ISTAT, per esempio, ove si ammette accanto al coordinamento anche l'indirizzo tec­nico, la Corte ha in mente il tipo di organizzazione del lavoro statistico[10]; in riferimento alle direttive CIP, il cui coordinamento si è tradotto in un vero e proprio blocco delle tariffe, "tecnica" è invece la qualifica della discrezionalità impiegata nell'attuare le previ­sioni legislative; in riferimento all'ENIT, "tecnica" è solo l'esigenza che giustifica l'obbligo delle regioni di trasmettere i propri programmi promo­zionali; in riferi­mento al Consiglio dei direttori dei servizi tecnici nazionali per la difesa del suolo, "tecnico" è l'organo cui compete il coordinamento dei servizi provinciali; in riferimento all'Istituto supe­riore di sanità, "tecnica" è la normativa ministeriale sulla base della quale l'Istituto deve svolgere i com­piti di coordinamento; ecc. Invece, per fermarsi ad un solo esempio, la Corte non invoca il coordinamento "tecnico" per giustificare le attribuzioni del Mini­stero della sanità di definire le modalità per il con­venzionamento degli enti ed il personale autorizzati a svolgere il servizio di trattamento domiciliare dei ma­lati di AIDS, nonostante ritenga che questa attività si risolva nel dettare "requisiti d'idoneità e standards tecnici, peraltro strettamente commisurati alle fina­lità e caratteristiche del servizio" indicate dalla stessa legge impugnata[11].

 

3. L'unica conclusione che sembrerebbe lecito trarre è che il "coordinamento tecnico" sia solo un'etichetta molto malleabile (grazie proprio all'impalpabilità dei suoi margini), a cui la Corte ricorre per riservarsi un giudizio "caso per caso" sull'assetto specifico dei rapporti tra Stato e regioni. Una volta di più, perché alla medesima conclusione si perviene immancabilmente quando si esamini qualsiasi altro dei grandi pilastri  elaborati dalla Corte in questa materia, come i test di legittimità degli atti di indirizzo e coordinamento, la leale collaborazione, l'interesse nazionale o il potere sostitutivo dello Stato.

        Come ha detto molto bene Caretti, parlando in gene­rale della funzione di indirizzo e coordinamento (e del suo "doppio", il potere sostitutivo), sono tutte espressioni di un' unica funzione, "una funzione che potremmo definire di scopo o di risultato, diretta a colmare una lacuna del disegno costituzionale nei rap­porti Stato-Regioni. Tale risultato è rappresentato dalla garanzia che il sistema costituzionale, comples­sivamente considerato, funzioni secondo standards mi­nimi di coerenza e di efficienza"[12]. Sullo sfondo vi sono sempre esigenze ed istanze che vanno ad ascriversi all'"interesse nazionale", e questo incide fortemente sulle tecniche di giudizio della Corte: "l'esistenza e la consistenza dell'interesse nazionale in gioco non può non richiedere verifiche puntuali, caso per caso, da parte della Corte. Il metro di giudizio allora di­venta sempre più il criterio della ragionevolezza"[13].

        Il coordinamento "tecnico" non è dunque che un aspetto minore di un fenomeno assai complesso: ciò  consente di avanzare alcune considerazioni sull' at-teggiamento generale della giurisprudenza costi­tuzionale in materia regionale, che però trovano con­ferma - e forse in modo più evidente che altrove, mi sembra - proprio nelle pronuncie in tema di coordina­mento tecnico.

         Da quest'ultime si può trarre il dato da cui prendere le mosse e di cui vorrei approfondire il si­gnificato. Parte delle sentenze in materia riguardano la legitti­mità della previsione legislativa dei poteri di coordi­namento (e sono in larghissima maggioranza de­cisioni di rigetto), parte invece risolvono conflitti di attribu­zione relativi al concreto esercizio di quei poteri (e qui si registra un buon numero di ricorsi fa­vorevoli alle regioni ricorrenti). Questo sdoppiamento dei giu­dizi, che possono riguardare (e, nel caso dell'ISTAT, per esempio, hanno riguardato[14]), in suc­cessione, la previsione astratta e l'esercizio concreto dello stesso potere, è deliberatamente perseguito dalla Corte: lo si può vedere nella stessa sentenza 482/1991, qui in com­mento, laddove indica alla ricorrente, cui nega la le­gittimazione ad agire in astratto contro la legge, la possibilità di difendere le proprie attribu­zioni qua­lora fossero violate in concreto dal singolo atto di esercizio del potere contestato.

        Questo sdoppiamento dei giudizi caratterizza anche altri settori della giurisprudenza costituzionale, ap­parentemente molto lontani dal contenzioso Stato-Re­gio-ni, e vi svolge  esattamente la stessa funzione. Tipico è l'atteggiamento in materia di diritti costituzionali: la Corte assai spesso non riesce a compiere un bilan­ciamento degli in­teressi in gioco ragionando in astratto sulla fattispe­cie normativa definita dalla legge, e perciò "delega" al giu­dice di merito (o ai soggetti dell'applicazione ammini­strativa della legge) il compito di bilanciarli "in concreto", in considera­zione della situazione specifica del caso. Ma non è che così sia denegata giustizia: vi è una effettiva diffi­coltà a colpire, attraverso la dichiarazione di ille­gittimità della disposizione legislativa "astratta", i soli casi concreti possibili di cattiva applica­zione della norma conte­stata. Quello che la Corte può fare invece, e assai spesso fa, è di garantire che la formu­lazione astratta della norma in questione non sia tale da pre­giudicare, già di per sé, la possibilità di una corretta concor­renza de­gli interessi rilevanti; se tale pregiudi­zio fosse accertato, la Corte potrebbe porvi rimedio impiegando i suoi strumenti più raffinati, come le pro­nuncie interpretative di rigetto (laddove per questa via si possa incidere sull' interpretazione che verrà data alla disposizione nella sua applicazione) e le pronuncie "manipolative" di accoglimento (laddove si vogli garantire l'inclusione di interessi che, in base al te­nore letterale della disposizione o del "diritto vi­vente", risulterebbero invece illegittimamente esclusi)[15].

        Anche in tema di "coordinamento tecnico" - e più in generale, a proposito della funzione di indirizzo e coordinamento[16] - la Corte segue questo schema di giu­dizio. Lo sta a dimostrare la frequenza con cui ricorre a pronuncie interpretative di rigetto[17]: servono anche qui a restringere l'estensione dei poteri assegnati all'autorità statale, in modo da evitare che nel loro esercizio si superi la linea di un corretto bilancia­mento degli interessi unitari con quelli della regione. Ecco che allora lo sdoppiamento dei giudizi acquista una sua funzione precisa. In materia di diritti costi­tuzionali lo sdoppiamento comporta che il giudizio "in concreto" sia delegato al giudice di merito, mentre nei rapporti Stato-Regioni il conflitto di attribuzioni può far sì che "delegata" sia la stessa Corte costituzio­nale[18]. Questa particolarità non è affatto priva di con­seguenze, perché è chiaro che più forte sarà la rica­duta prescrittiva delle regole che la Corte ha elabo­rato in sede di giudizio di legittimità (attraverso pronuncie interpretative di rigetto o di accoglimento), se sarà la Corte stessa a doverle appli­care al caso concreto[19] (anche se può valere il contra­rio, perché la Corte potrebbe non sentirsi troppo inti­morita dall'autorità del suo stesso precedente, di cui, tra l'altro, è l'unica interprete autentica).

 

 

4. Il bilanciamento degli interessi - disse Felix Frankfurter, in una sua famosa "opinione concorrente"[20] - è fatto per risolvere "problemi non-euclidei". E certo in nessun altro settore del diritto pubblico si è visto con altrettanta chiarezza il crollo dell' impal­catura euclidea del sistema come nell' inquadramento dei rapporti Stato-Regione[21], trac­ciato originariamente dalla dottrina e in buona parte condizionato anche, per una volta, dalla Carta costitu­zionale. Già diec'anni fa Robert Putnam indicava l'evoluzione del sistema - che stava accadendo "con una certa costernazione dei giuri­sti" - verso il modello complesso e confuso della "torta marmorizzata"[22]. La crisi del modello della "torta  a strati" (che altro non è che l'ortogonalità euclidea applicata alla pa­sticceria) è il cedimento di un sistema fatto di "sfere" di competenza separate, di linee di demarca­zione verticali (materie, territorio) e orizzontali (princìpi - dettaglio, legittimità - me­rito), di con­vinta applicazione del principio del terzo escluso (negazione di ambiti di competenza "misti" o indi­stinti). Non è dunque un caso che il bilanciamento de­gli interessi, con le tecniche di controllo di ragione­volezza che si porta dietro, abbia occupato la scena della giurisprudenza costituzionale.  

        Naturalmente sarebbe importante cogliere le cause storiche e strutturali di questo crollo, e ancora più importante sarebbe progettare la sostituzione del vec­chio edificio con un'architettura più adeguata alla complessità attuale dei rapporti (il che sembra richie­dere qualcosa di assai diverso, innanzitutto quanto a filosofia, dalla modifica del diametro delle sfere di attribuzione o dal riposizionamento delle linee ortogo­nali di divisione delle competenze, che è invece quanto circola nelle bozze di revisione costituzionale).

        Con tutta evidenza, questo è un compito che nes­suno può aspettarsi venga svolto dalla giurisprudenza costituzionale. Ma ciò non toglie che il ricorso alla Corte sia ancora l'unico strumento che le Regioni hanno per evitare di restare stritolate nel crollo del si­stema originario di ripartizione delle competenze. Il problema è allora come adeguare la difesa giudiziale delle Regioni alla situazione che si è creata, e che non pare rever­sibile né rimediabile a colpi di sen­tenza. Ma dove tro­vare i punti fermi a cui agganciare la difesa delle Re­gioni, se non tengono più i criteri tradizionali di ri­partizione delle competenze?

        Se la Corte impiega tecniche di giudizio tipiche del controllo di ragionevolezza e del bilanciamento de­gli interessi, è proprio nelle regole di questi modelli di giu­dizio che vanno ricercati gli appigli. L'ovvio presup­posto è che si compia un passo convinto nella "tendenza all'omologazione dei due tipi di giudizio, incidentale e principale"[23], cercando gli schemi di comportamento nelle tecniche di giudizio che la Corte ha elaborato al di fuori delle controversie Stato-Re­gioni.

        Un esempio. Se dal giudizio sul bilanciamento de­gli inte­ressi la Corte importa - come sembra se­riamente intenzionata - la tecnica dello sdoppiamento dei giu­dizi che si è descritta in precedenza, ne possono con­seguire alcune impli­cazioni "tecnologiche" di notevole portata per i modi di costruire la difesa giudiziale delle Regioni: la quale dovrà anch'essa essere conce­pita come qualcosa che si svolge in due fasi fortemente correlate. Ciò significa che il ricorso contro la legge "invasiva", invece di essere concepito come l'unica oc­casione in cui è possibile ottenere la dichiarazione dell'astratta competenza della Regione - i cui inte­ressi, invece, la Corte ritiene così spesso di poter bilanciare con le esigenze che si richiamano all' inte­resse nazionale, secondo una varietà flessibile di so­luzioni di compro­messo - potrebbe essere più util­mente congegnato come strumento per stimolare pronuncie interpreta­tive della Corte che integrino la norma impu­gnata e fissino i punti fermi di de­limitazione dello spazio consen­tito ai poteri d'intervento delle autorità statali, e le forme garantite di "leale cooperazione". La questione di legittimità della legge servirebbe dun­que a provocare l'elaborazione, da parte della Corte costituzionale, della "regola" specifica delle rela­zioni Stato-Regione, da difendere poi, contro il sin­golo atto di applicazione, in sede di conflitto di at­tribuzione.

        Esattamente come avviene nei giudizi principali quando si invoca il controllo di ragionevo­lezza e si adopera il principio di eguaglianza per con­sentire alla Corte di dichiarare l'illegittimità della legge in re­lazione alle sole ristrette fattispecie, ac­curatamente ritagliate e delimitate, anche nel giudizio in via principale può essere assai vantaggioso per la Regione che il ricorso sia impostato in modo da provocare la pronuncia della Corte su singoli aspetti e sugli speci­fici meccanismi, così da ottenere una "regola" del bi­lanciamento degli interessi che sia il più possibile precisa e circostanziata. Il che si può ottenere addu­cendo tutti gli elementi di fatto che con­sentano alla Corte di ragionare, non sulla base dell'astratta di­stribuzione delle competenze, ma sul concreto atteg­giarsi dei rapporti (organizzativi, pro­cedurali, finan­ziari ecc.) nel settore specifico.

        Ottenere nel giudizio preliminare sulla legitti­mità della previsione legislativa elementi utili di de­limitazione della "regola", che fissa per la materia in questione il punto di bilanciamento degli interessi in concorso, facilita ovviamente la difesa degli interessi della Regione nella seconda fase del giudizio "sdoppiato", cioè nell'eventuale conflitto insorto sull'atto amministrativo che applica la disposizione legislativa "interpretata" dalla Corte. In fondo si tratta soltanto di far valere il rispetto della "regola" di fronte a chi l'ha elaborata.

        E' chiaro che in questo modo si finisce con rinun­ciare alla difesa dei confini che segnano la sfera delle attribuzioni re­gionali in senso proprio, perché quello che per lo più si difende è, in fondo, non la competenza legislativa o amministrativa, ma il ruolo delle Regioni in procedi­menti decisionali complessi. Ma è sicuramente una tat­tica più produttiva della caparbia e puntuale difesa di confini che sono ormai poco più che un segno sulla carta.

 

 

 



N O T E

 

[1] La Corte si è liberata dalla questione dichiarando la carenza d'interesse della ricorrente, dato che la di­zione "Regione interessata" (il testo della disposi­zione contestata è riprodotto nella nota successiva) escluderebbe le province autonome dall'ambito di appli­cazione della disposizione (salva ovviamente la facoltà della provincia di agire contro il regolamento d'attuazione, nell'eventualità che questo pretenda di essere applicato anche nel suo territorio). Come è noto la Corte ha sempre sostenuto che "la semplice locuzione 'Regioni'" non consente di "inferire che il legislatore non abbia inteso alludere anche alle Province autonome o alle Regioni a Statuto speciale, dovendosi piuttosto analizzare quell' espressione senza ulteriori qualifi­cazioni nell'ambito dell' intero contesto legislativo e nel significato che ad essa si può dare sulla base delle comuni regole di interpretazione della 'volontà' del legislatore" (sent. 49/1991, in questa Rivista 1992, 231 ss., 243). Nella sent. 482/1991, però, la scelta del significato da attribuire alla locuzione im­piegata dal legislatore sembra guidata, più che da un'analisi attenta del contesto legislativo, dalla sem­plice circostanza che ad impugnare la disposizione fosse solo la Provincia autonoma, e non anche una Re­gione ad autonomia differenziata.

 

[2] V. già la ben nota sent. 150/1982 e, più di recente, con funzione riassuntiva degli orientamenti espressi dalla Corte, la sent. 242/1989 (in questa Rivista 1990, 1237 ss., 1265).

 

[3] Nelle osservazioni che seguono farò riferimento ad un catalogo, certamente incompleto, di pronuncie della Corte che ruotano attorno al problema del coordinamento tecnico: sent. 214/1988 (in questa Rivista 1988, 787 ss.), in materia di coordi­namento degli uffici sanitari nelle zone di confine; sent. 474/1988 (in questa Rivi­sta 1988, 1658 ss.), sulle "direttive" del CIP che bloccano le tariffe dei servizi pubblici di trasporto; sent. 924/1988 (in questa Rivista 1989, 1705 ss.), in merito al "coordinamento" dei programmi promozionali regionali da parte dell'Enit; sent. 242/1989 (in questa Rivista 1990, 1237 ss.), in riferimento alle norme della legge 400 sull'esercizio della funzione di indi­rizzo e coordinamento e, in particolare, ai poteri di  dell'ISTAT; sent. 452/1989 (in questa Rivista 1990, 1749 ss.), a proposito delle misure ministeriali volte a razionalizzare l'utilizzazione delle strutture pub­bliche di diagnostica; sent. 85/1990 (in questa Rivi­sta, 1991, 290 ss.) in riferi­mento ai compiti di coor­dinamento dell'attività dei servizi tecnici provinciali affidata, dalla legge sulla difesa del suolo, al Consi­glio dei direttori; sent. 139/1990 (in questa Rivista, 1991, 543 ss.), ancora sul "coordinamento tecnico" dell'Istat; sent. 49/1991 (in questa Rivista 1992, 231 ss.), a pro­posito del coordinamento dei centri provin­ciali di coordinamento e compensazione in materia di raccolta del sangue, svolto dall'Istituto superiore di sanità.

 

    

[4] E' questo il caso, per esempio, delle direttive per il coordinamento degli uffici sanitari periferiche dello Stato con le strutture regionali nel "microsistema" di frontiera (motivate dall'efficienza e buon andamento dei primi, rispetto ai quali sono piena­mente obbligatorie, e dalla mancanza di effetti obbli­gatori per le seconde, nei cui confronti "non possono produrre, neppure indirettamente, effetti del medesimo tipo"): sent. 214/1988. Si noti che in questa sentenza la Corte opera una distinzione radicale e "ontologica" tra la funzione di indirizzo e coordinamento e il coor­dinamento "debole" e paritario che discende dagli atti di questo tipo, i quali in realtà non incidono neppure su materie regionali (tutto all'opposto degli atti di indirizzo e coordinamento): cfr. L.TORCHIA, Regionali­smo cooperativo e direttive ministeriali: un caso di specie, in questa Rivista 1988, 788 ss.

     Anche nel caso del coordinamento degli uffici sta­tistici, in cui più compiutamente viene elaborata la figura del "coordinamento tecnico" (sent. 242/1989), la Corte mantiene ferma la distinzione tra questo fenomeno e la funzione di indirizzo e coordinamento in senso proprio, ma qui non ci si basa più sulla mancanza di forza obbligatoria dell'atto statale nei confronti delle regioni, ma su un argomento assai diverso, e cioè che il coordinamento dell'Istat avrebbe solo "lo scopo di rendere omogenee le metodologie statistiche utiliz­zate dai vari centri pubblici di informazione stati­stica" e, come tale, non inciderebbe sul potere "di programmare, dirigere e gestire l'attività dei propri uffici statistici secondo i propri bisogni" (punto 11 "in diritto").

 

[5] In questi termini si è espressa la Corte, per esem­pio, nella sent. 474/1988, a proposito delle "direttive" del CIP che disponevano il blocco delle ta­riffe dei trasporti urbani: "un atto amministrativo che, sulla base dell'esercizio di una discrezionalità meramente tecnica, appare rivolto all'applicazione pun­tuale di una direttiva già presente, in tutti i   suoi elementi prescrittivi" nella legge, per la cui im­plementazione applica "esclusivamente criteri tecnici di determinazione" (punto 2.2. "in diritto") 

 

[6] Come nel caso del rapporto tra Regione ed Enit ai fini delle attività promozionali all'estero, in cui la Corte riduce il "coordinamento" operato dall'ente sta­tale al mero obbligo di informazione a carico delle re­gioni in merito ai propri programmi: sent. 924/1988

 

[7] L'attività di coordinamento tecnico, infatti, "non è disciplinata dalle regole proprie della funzione di in­dirizzo e coordinamento politico-amministrativo e, in particolare, non esige il rispetto delle norme procedu­rali attinenti allo svolgimento della predetta fun­zione": sent. 85/1990 (punto 11 "in diritto")

 

[8] Sent. 204/1991 (in questa Rivista 1992, 584 ss., 592), sulla quale cfr. F.TRIMARCHI, Osservazioni sull'uso dei regolamenti nel raccordo tra ordinamento statale e ordinamento regionale, ivi.

 

[9] Cfr., con riferimento al coordinamento dei servizi statistici, G.ENDRICI, La riorganizzazione della stati­stica pubblica: il governo del sistema, in Riv.trim.dir.pubbl. 1990, 1092 ss., 1112.

 

 

[10] Si veda in particolare la sent. 139/1990 (punto 7 "in diritto").

 

[11] Sent. 37/1991, in questa Rivista 1992, 159 ss. (punto 6 "in diritto").

 

 

[12] Indirizzo e coordinamento e potere sostitutivo nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale, in questa Rivista 1992, 337 ss., spec. 340 s.

 

 

[13] Ibidem, 341.

 

 

[14] Vedi le sent. 242/1989 e 139/1990, citate alla nota 3.

 

[15] Per questi temi, sia consentito rinviare a R.BIN, Diritti e argomenti, Milano 1992, 90-93, 127-131, e, per qualche applicazione più specifica, Giudizio "in astratto" e delega di bilanciamento "in concreto", in Giur.cost. 1991, 3574 ss.

 

 

[16] Si vedano le osservazioni, assai perspicaci, di F.DIMORA, Le sentenze interpretative di rigetto nei giudizi in via d'azione: qualche considerazione, in questa Rivista 1987, 749 ss.     

 

 

[17] Sul fenomeno, in generale, cfr. V.ONIDA, I giudizi sulle leggi nei rapporti fra Stato e Regione: profili processuali, in questa Rivista 1986, 986 ss., 1002 s.; F.DIMORA, op.cit. Quanto al coordinamento tecnico, dei giudizi di legittimità qui considerati (sei in tutto: vedi la nota 3) ben tre si chiudono con pronuncie che sono formalmente interpretative di rigetto, e una quarta (la sent. 924/1988) lo è almeno informalmente (v. la nota di G.Conetti, in questa Rivista 1989, 1705 ss.

 

[18] "Ed è inutile dire - è ricordato nella sentenza 294/1986 (in questa Rivista 1987, 463 ss., 490 s.) - che è riservato a que­sta Corte, in sede di conflitto di attribuzione, il sindacato sul rispetto dei limiti così disegnati".

 

[19] Cfr. ancora F.DIMORA, op.cit., 758 s.

 

[20] Dennis v. U.S., 1951

 

[21] Una riprova si può avere, se pare necessario, dalle difficoltà di ritessere la trama dei princìpi generali in materia di fonti, sottolineata da F.TRIMARCHI BANFI, Questioni formali in tema di indirizzo e coordinamento, in questa Rivista 1990, 1711 ss.

 

[22] R.PUTNAM, R.LEONARDI, R.NANETTI, L' istituzionaliz­zazione delle regioni in Italia, in questa Rivista 1982, 1078 ss., 1094.

 

 

[23] L.CARLASSARE, "Astrattezza" e "concretezza" in un giudizio principale su indirizzo e coordinamento, in Giur.cost. 1989, I, 1109 ss., 1112.