Quando la Corte prende la motivazione “sportivamente”(nota alla sent. 424/2004)

 

Roberto Bin

 

1. La decisione in commento non presenta particolari profili di novità, ma rientra piuttosto nelle sentenze di “ordinaria amministrazione” relative all’applicazione del “nuovo” Titolo V. Per altro, alcune delle questioni più delicate che avrebbero dovuto essere affrontate sono cadute perché, nelle more del giudizio, sono state abrogate le norme impugnate dalle Regioni (si trattava di norme che attribuivano allo Stato un potere regolamentare in una materia che le Regioni ritengono ricadere nelle loro attribuzioni residuali). Tuttavia la sentenza mantiene un certo interesse sia per il modo con cui è affrontato il problema dell’individuazione della “materia” in cui collocare le disposizioni impugnate, sia per le conclusioni in merito ai finanziamenti diretti disposti dallo Stato nelle materie “concorrenti”. Va però subito anticipato che, in merito alle tecniche di definizione delle materie di competenza, la decisione non appare affatto istruttiva, ma appartiene piuttosto al novero, ahimé abbondante, delle decisioni in materia regionale che presentano un grave deficit di motivazione. In merito all’autonomia finanziaria delle Regioni, invece, la sentenza sembra accodarsi ad un indirizzo giurisprudenziale ormai stabilizzato.

 

2. Gli “oggetti” a cui si indirizzavano le disposizioni impugnate dalle Regioni erano piuttosto disomogenei: alcune disposizioni – quelle poi abrogate - riguardavano la disciplina delle associazioni sportive; altre l’uso degli impianti sportivi di cui sono titolari gli enti territoriali (compresi gli istituti scolastici), e l’affidamento della loro gestione nel caso in cui l’ente stesso non intenda effettuarla direttamente; altre ancora gli interventi finanziari a favore degli enti di promozione sportiva. Sono “oggetti” che possono esser fatti rientrare nella stessa materia? La Corte ritiene di sì, e fa rientrare nell’“ordinamento sportivo” la disciplina delle associazioni sportive, e su ciò non vi possono essere contestazioni: ma vi fa ricadere anche le norme sull’uso degli impianti sportivi dei Comuni e degli istituti scolastici, benché essi non abbiano necessariamente una destinazione “sportiva”, ben potendo essere riservati ad impieghi educativi o ricreativi. Ma la Corte non va troppo per il sottile.

Seguendo un percorso molto praticato quando si tratta di affrontare il compito di delimitare le “nuove materie” iscritte nell’art. 117, la Corte ripercorre la legislazione e la giurisprudenza precedente alla riforma; scopre così che già l’art. 56 del d.P.R. 616/1977 includeva nella materia “turismo e industria alberghiera” anche la promozione delle attività sportive, e vi aveva aggiunto la competenza a realizzare i relativi impianti, d’intesa con gli organi scolatici laddove gli impianti fossero destinati ai giovani in età scolare. Ciò basta alla Corte per dichiarare che “non è dubitabile che la disciplina degli impianti e delle attrezzature sportive rientri nella materia dell’ordinamento sportivo”: peccato soltanto che così smentisce gli stessi suoi precedenti, pur accuratamente citati.

 

3. Nella sent. 517/1987, infatti, con una attenta e circostanziata argomentazione, la Corte aveva spiegato che le attività sportive devono essere distinte secondo il loro carattere agonistico o non agonistico: le prime ricadono nella materia “ordinamento sportivo”, di competenza statale e degli organi dello sport, le seconde di certa attribuzione regionale, proprio in base al citato articolo del d.P.R. 616. Questo il passo cruciale: “La vera e unica linea di divisione fra le predette competenze è quella fra l'organizzazione delle attività sportive agonistiche, che sono riservate al C.O.N.I., e quella delle attività sportive di base o non agonistiche, che invece spettano alle regioni. La ripartizione delle competenze sugli impianti e sulle attrezzature è del tutto consequenziale alla precedente distinzione, nel senso che, mentre lo Stato è pienamente legittimato a programmare e a decidere gli interventi sugli impianti e sulle attrezzature necessari per l'organizzazione delle attività sportive agonistiche, le regioni vantano invece la corrispondente competenza in relazione all'organizzazione delle attività sportive non agonistiche”.

Ciò che quindi appare “indubitabile” alla Corte del 2004 è diametralmente opposto a ciò che appariva certo alla Corte del 1987, ossia che sono estranee alla materia “ordinamento sportivo” le attribuzioni che riguardano “gli impianti e i servizi «complementari» rispetto alle attività assegnate alle stesse, cioè rispetto alle attività sportive non agonistiche”. Infatti, attrarre la disciplina degli impianti “sportivi” destinati ad uso ricreativo e comunque non agonistico nella materia “ordinamento sportivo” snatura lo stesso “senso comune” dell’etichetta usata dall’art. 117.3 Cost., oltre a smentire una linea di distinzione che la giurisprudenza costituzionale storica aveva faticosamente ma intelligentemente tracciato. Linea non certo intaccata dall’estensione della competenza regionale – operata poi dall’art. 157 del d.lgs. 112/1998 – a funzioni relative alla programmazione di impianti sportivi pur se destinati a manifestazioni sportive.

La Corte del 2004 avrebbe potuto seguire una strategia argomentativa un po’ più raffinata rispetto a quella impiegata, la quale si basa essenzialmente su un criterio di aderenza: siccome la disciplina degli impianti sportivi è preceduta da norme relative alle associazioni sportive dilettantesche, essa viene attratta nella materia che riguarda quest’ultime; anzi viene attratta nello stesso giudizio anche una disposizione contenuta nella legge finanziaria dell’anno successivo, la quale dispone degli aiuti finanziari a favore degli enti di promozione sportiva per sostenerne i compiti istituzionali e i “programmi relativi allo sport sociale”. L’aspetto paradossale di questa argomentazione è che a suffragare la scelta della “materia” varrebbero soltanto le disposizioni che riguardano le società sportive dilettantistiche, cioè proprio quelle disposizioni per le quali si dichiara cessata la materia del contendere! Le altre disposizioni ben poco hanno a che fare con questa materia, poiché ricadrebbero piuttosto, stando ai precedenti giurisprudenziali della Corte, negli aspetti ricreativi del “turismo”.

La Corte avrebbe potuto rendere più persuasiva la sua strategia imperniando l’argomentazione su questo aspetto: le norme sull’uso degli impianti sportivi sono finalizzate ad un obiettivo, ossia facilitare l’attività delle associazione sportive dilettantistiche. Si tratta infatti di regole piuttosto invasive della sfera di autonomia degli enti proprietari di tali impianti: ad essi è imposto di riconoscere un titolo preferenziale a “società e associazioni sportive dilettantistiche, enti di promozione sportiva, discipline sportive associate e Federazioni sportive nazionali” per l’affidamento della gestione dei loro impianti; mentre agli enti scolastici è imposto di mettere i loro impianti “a disposizione di società e associazioni sportive dilettantistiche aventi sede nel medesimo comune in cui ha sede l'istituto scolastico o in comuni confinanti”.

Senza entrare nel merito della giustificabilità di tali vincoli (pur contestata dalle Regioni), non v’è dubbio che la Corte avrebbe potuto collegare il suo ragionamento all’obiettivo che ha mosso l’intervento legislativo. Invece di includere in via generale la disciplina degli impianti sportivi a carattere sociale in una materia che con essi ben poco c’entra, avrebbe potuto includervi esclusivamente queste specifiche disposizioni, data la loro particolare ratio, ossia perché ispirate dall’intento di favorire l’attività dei gruppi e dei club agonistici che operano nell’“ordinamento sportivo”. Non ci ha insegnato la decennale giurisprudenza della Corte che le “materie” non sono individuabili a prescindere dagli “interessi”? Avremmo avuto l’ennesimo esempio di un intervento legislativo, che ha il suo campo base in una determinata materia, ma che, spinto dalla cura di interessi ben collegati ad essa, prosegue in materie limitrofe. È lo schema tipico, per esempio, delle leggi statali nelle c.d. “materie trasversali” o delle leggi regionali che perseguono il soddisfacimento di “valori costituzionali” quali l’ambiente.

Seguendo questa via la Corte avrebbe potuto comunque far salve le disposizioni della legge considerandole “norme di principio”: non invasive della attribuzioni regionali perché rese necessarie dal perseguimento di obiettivi che si collocano in una materia nella quale lo Stato ha titolo di legiferare, seppure solo attraverso principi. Il vantaggio però sarebbe stato di non irrigidire in una sussunzione definitiva l’appartenenza delle attività sportivo-ricreative ad una materia con cui esse non hanno mai avuto rapporti, svuotando ulteriormente la categoria delle “materie residuali” - della quale, con sempre con maggior fatica, la dottrina sta cercando di individuare qualche possibile contenuto concreto.

 

4. Alla fine, però, la Corte non può che dichiarare illegittima la norma della legge finanziaria 2004, unita così forzatamente nel giudizio alle ben diverse norme della finanziaria 2003, di cui ci si è principalmente occupati sinora. Anche le attività degli enti di promozione sportiva – afferma la Corte - ricadono nella materia concorrente “ordinamento sportivo”, benché essi siano definiti “associazioni aventi lo scopo di promuovere e organizzare attività fisico-sportive con finalità ricreative e formative tra i giovani, nonché di organizzare l’attività amatoriale”. L’argomento per sostenere questa tesi è sorprendente: è una sorta di motivazione per relationem, che fa rinvio al decreto ministeriale 23 giugno 2004, recante statuto del Comitato olimpico nazionale italiano, adottato dal Consiglio nazionale del CONI il 23 marzo 2004. Il fatto stesso per cui è il regolamento del CONI a definire gli enti di promozione sportiva - sembra che la Corte ci voglia far intendere - basta a dimostrare a quale materia la loro disciplina debba essere attribuita. Francamente non sembra il migliore insegnamento circa gli strumenti e le tecniche da utilizzare per interpretare le disposizioni costituzionali. Che tuttavia questo sia il risultato a cui la Corte vuole pervenire lo dimostra un particolare: alla definizione di enti di promozione la Corte aggiunge una specificazione ampliativa (“nonché di organizzare l’attività amatoriale”) ignota alla definizione offerta dall’art. 26 dello Statuto del CONI. Con ciò la Corte sembra voler chiarire definitivamente che la riforma dell’art. 117 ha nettamente mutato il disegno delle materie tracciato in precedenza dai decreti di trasferimento: ora lo sport, quale sia il modo o il contesto in cui è praticato, quali le attività in cui si estrinseca o la tipologia degli impianti di cui si serve, non ha più addentellati con altri settori, quali il turismo, ma rientra sempre e comunque nella materia “ordinamento sportivo”.

Trattandosi di materia “concorrente”, lo Stato non può però più disporre interventi finanziari a favore dei soggetti che vi operano, senza “un diretto coinvolgimento delle Regioni”. Ecco la ragione della dichiarazione di illegittimità. Ma non si tratta di una grande vittoria per le Regioni: restando nello specifico, già la citata sent. 517/1987 aveva dichiarato illegittimo il finanziamento diretto da parte dello Stato a favore del potenziamento degli impianti sportivi destinati ad attività non agonistica, giudicandolo lesivo dell’autonomia finanziaria regionale. Più in generale, c’è da osservare che una delle poche norme “direttamente applicabili” che la Corte ha fatto derivare dal “nuovo” art. 119 Cost. è proprio il divieto, in materie riservate alla competenza regionale, di costituire fondi settoriali di finanziamento gestito dallo Stato (sin dalla sent. 370/2003). Ed ancora più preciso (e attinente al caso in esame) è il divieto di promuovere interventi finanziari diretti a favore dei soggetti privati o degli enti locali, senza passare “attraverso il filtro dei programmi regionali, coinvolgendo dunque le Regioni interessate nei processi decisionali concernenti il riparto e la destinazione dei fondi, e rispettando altresì l’autonomia di spesa degli enti locali” (sent. 16/2004: nello stesso senso, per es., sent. 320 e 423 del 2004).