L’indirizzo e coordinamento nella “Bassanini”: ritorno alla legalità

 

Roberto Bin

 

 

 

         1. Delle molte questioni che le Regioni ricorrenti hanno sollevato a proposito della legge 59/1997 (e del collegato d.lgs. 281/1997), una sola ha avuto successo pieno, quella riguardante la nuova disciplina dell’indirizzo e coordinamento.

Non è un caso, perché le due questioni principali, quella che investiva i meccanismi della delega legislativa e quella che riguardava l’unificazione delle Conferenze Stato-Regioni e Stato-città, presentavano una connotazione di contestazione ideologica che le collocava irrimediabilmente sul crinale tra l’inammissibilità e il rigetto. Non perché la costruzione di questa particolare delega legislativa, e soprattutto l’originale meccanismo di sostituzione legislativa delle Regioni in caso di loro inerzia legislativa, non prestino il fianco a critiche e a rilievi di illegittimità: il fatto è che i difetti di questi meccanismi possono essere prospettati alla Corte, con qualche speranza di successo, quando vengano isolati e singolarmente esaminati, magari nel momento della concreta applicazione (e quindi con l’impugnazione dei decreti delegati), piuttosto che con un attacco di petto la cui carica simbolica di opposizione politica è destinata ad esaurirsi contro argomentazioni difensive che possono restare sul piano delle considerazioni generali e dei princìpi costituzionali che governano le relazioni tra lo Stato e le autonomie. Così anche il sistema delle Conferenze non è certo privo di mende, ma è difficilmente contestabile con ragionamenti che procedono più in termini di opportunità legislativa che di legittimità in senso stretto.

 

2. Diverso esito ha avuto l’impugnazione delle norme relative alla funzione di indirizzo e coordinamento perché qui il tema si prestava ad essere affrontato con argomentazione giuridiche precise e suffragate dalla costante giurisprudenza costituzionale. In effetti, dalla legge 59 e dai decreti delegati 281/1997 (che si occupa della Conferenza Stato-Regioni) e 112/1998 (che dedica l’art. 4 all’indirizzo e coordinamento, nulla in realtà aggiungendo alla disciplina dettata dai due atti precedenti) emergeva (come ho già avuto modo di sottolineare in questa Rivista, 1998, pp. 29 ss., in sede di commento all’art. 4 del d.lgs. 112/1997)) un quadro normativo tanto innovativo quanto oscuro, che non poteva non suscitare allarme nelle Regioni.

La nuova disciplina prevede che “gli atti di indirizzo e coordinamento delle funzioni amministrative regionali, gli atti di coordinamento tecnico, nonché le direttive relative all'esercizio delle funzioni delegate” siano adottati “ previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, o con la singola Regione interessata” (art. 8, comma 1). Le intese, aggiunge il decreto 281/1997, “si perfezionano con l'espressione dell'assenso del Governo e dei presidenti delle Regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano” (art. 3, comma 2); se l’intesa non è raggiunta entro quarantacinque giorni dalla prima consultazione, gli atti possono essere “adottati con deliberazione del Consiglio dei ministri, previo parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali da esprimere entro trenta giorni dalla richiesta” (art. 8, comma 2 della legge 59); in “caso d’urgenza”, il Consiglio dei Ministri può adottare l’atto senza la procedura d’intesa, ma resta l’obbligo di presentare l’atto alla Conferenza e alla Commissione parlamentare, e di “riesaminare i provvedimenti in ordine ai quali siano stati espressi pareri negativi” (art. 8, comma 3).

Sin qui la disciplina procedimentale, che appare favorevole alle Regioni in quanto il principio di leale cooperazione vi riceve un’interpretazione forte. È vero che l’intesa è un presupposto solo “normale” dell’emanazione dell’atto di indirizzo e coordinamento, in quanto si può procedere senza sia in caso di mancato raggiungimento di essa, sia in caso d’urgenza: ma è anche vero che, come più volte ha detto la stessa Corte costituzionale, l’intesa non può tradursi in un meccanismo che offre alle parti un potere di veto reciproco, così da paralizzare la decisione, per cui alla fine, anche in mancanza di un accordo, qualcuno deve poter decidere. Starà poi alla Corte valutare di volta in volta, in sede di conflitto di attribuzione promosso dalle Regioni, se il Governo ha compiuto tutti gli sforzi possibili per raggiungere l’intesa o se ha mancato agli obblighi di leale cooperazione puntando a raggiungere unilateralmente la decisione; così come ad essa spetterà eventualmente di valutare la sussistenza dei presupposti d’urgenza che hanno spinto a derogare al procedimento normale e la correttezza dei conseguenti comportamenti governativi (questo è, del resto, il senso delle argomentazioni impiegate dalla Corte nel punto 16 della motivazione “in diritto”, per respingere le obiezioni alla norma che consente al Governo di procedere anche se l’intesa non è raggiunta).

 

3. Altro è invece il punto davvero preoccupante della nuova disciplina. L’art. 8 della legge 59 abroga espressamente le precedenti norme generali sull’indirizzo e coordinamento; sia le norme che attribuivano allo Stato l’astratta titolarità della funzione (dall’art. 17 lett. a, della c.d. “legge finanziaria” 281/1970, all’art. 3 della legge 382/1975 e all’art. 4 del d.P.R. 616/1977); sia le norme di procedura, quale in particolare l’art. 2, comma 3, lett. d) della legge 400/1988; sia, infine, le norme sulla “forma” con cui gli atti di indirizzo e coordinamento vengono adottati (art. 1, comma 1, lett. hh, della legge 13/1991).

Ora, non è affatto chiaro il rapporto che si instaura tra la nuova disciplina e le condizioni poste dalla giurisprudenza costituzionale perché possa considerarsi legittimo l’esercizio in via amministrativa della funzione di indirizzo e coordinamento. Come si sa, la Corte aveva posto due condizioni “formali”, cioè facilmente riscontrabili dalla Corte costituzionale stessa senza entrare nel merito delle scelte compiute dal Governo: a) che sia rispettato il principio di legalità sostanziale, poiché spetta al legislatore “discernere le esigenze unitarie” che l’atto di indirizzo e coordinamento deve perseguire (sent. 150/1982); b) che l’atto sia deliberato dal massimo organo politico dell’esecutivo, cioè dal Consiglio dei Ministri. Queste due condizioni si erano tradotte in altrettanti test molto affidabili, che consentivano alle Regioni di opporsi con estrema efficacia agli atti governativi che non li rispettassero.

Valgono ancora questi criteri a seguito della riforma? In sede di commento all’art. 4 del d.lgs. 112 a me era sembrato di dover giungere ad una risposta negativa. L’abrogazione delle citate norme della legge 400, del d.P.R. 616 e della legge 13/1991 sembrano portare a questa conclusione per ciò che concerne la competenza del Consiglio dei Ministri; allo stesso esito per altro si perviene anche ragionando a contrario dalla previsione, contenuta nei commi 2 e 3 dell’art. 8 della legge 59, laddove si prevede espressamente la deliberazione del Consiglio dei Ministri per i soli atti che non siano preceduti da intesa. È vero però che l’intesa si “perfeziona” solo con l’assenso del “Governo”, termine che di regola indica il Consiglio dei Ministri: ciò avrebbe potuto significare, alla luce di un’interpretazione adeguatrice delle disposizioni della legge 59, che il Presidente del Consiglio dei ministri sia tenuto a sentire il Consiglio prima di promuovere l’intesa in sede di Conferenza, con la conseguenza che l’atto di indirizzo e coordinamento, preceduto da intesa, non sarebbe poi stato emanato da un singolo ministro, ma dallo stesso Presidente del Consiglio; l’abrogazione espressa della norma della legge 13/1991, che prevedeva l’emanazione degli atti di indirizzo e coordinamento con la forma del decreto del Presidente della Repubblica, avrebbe perciò riesumato la precedente prassi di adottare tali atti, anche se non preceduti da intesa, con d.P.C.M.

Più difficile è il secondo quesito, se cioè sia sempre richiesta la previa legge di individuazione dell’interesse nazionale “non frazionabile”, presupposto – come si è detto – cui la Corte ha sempre legato la legittimità dell’emanazione di atti amministrativi capaci di vincolare la stessa legislazione regionale. La sottoposizione dell’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento al principio di legalità sostanziale è stata un punto fermo della giurisprudenza costituzionale. Ma il principio di legalità non vive una stagione di grande successo: anzi spesso lo si indica come uno schema organizzativo antiquato e condizionante in senso negativo l’azione dei pubblici poteri. Il successo dei moduli convenzionali nella legislazione ordinaria più recente ne è una chiara testimonianza. Ma possono moduli convenzionali – quali sono le intese – portare a derogare ad un principio costituzionale qual è la generale prevalenza gerarchica della legge – della legge regionale, s’intende – sugli atti amministrativi? La risposta dovrebbe essere negativa, anche in ragione del fatto che l’atto di indirizzo e coordinamento può essere emanato anche in assenza di previa intesa: e certo non si può immaginare che solo quando il Governo agisca senza l’intesa si riespande l’applicazione del principio di legalità sostanziale fissato dalla Corte, soprattutto se si considera che questa ipotesi può ricorrere anche quando il Governo agisce “in caso di urgenza”.

 

4. La conclusione del ragionamento allora non può che essere una: se la nuova disciplina non è compatibile con le regole individuate dalla giurisprudenza costituzionale, e se queste regole – come ha sempre detto e ridetto la Corte – non sono che l’espressione di princìpi costituzionali inderogabili, allora si deve concludere che la nuova disciplina è illegittima. Ed alla stessa conclusione giunge anche la Corte.

Correttamente però essa non demolisce l’intero complesso del sistema procedurale costruito dalla legge 59. Esso, infatti, regolamentando le procedure d’intesa tra Stato e Regioni, altro non fa che rendere operativo il principio costituzionale di leale cooperazione. Tale procedura potrebbe diventare illegittima solo se venisse interpretata come sostitutiva, anziché aggiuntiva, rispetto alle regole già fissate dalla giurisprudenza costituzionale. La censura della Corte si proietta perciò su quelle sole disposizioni che portano l’interprete a ritenere superati i “vecchi” princìpi, soppiantati dalla nuova disciplina. La dichiarazione di illegittimità finisce con il colpire la sola disposizione di abrogazione espressa della norma della legge 400/1988 che prevedeva la competenza del Consiglio dei Ministri per l’adozione degli atti di indirizzo e coordinamento, “con l’effetto di ripristinare l’efficacia della disposizione abrogata” (punto 14 della parte “in diritto”).

In ombra resta invece l’altro problema, quello del principio di legalità, ossia dell’illegittimità dell’atto di indirizzo e coordinamento emanato senza una specifica previa autorizzazione legislativa. Sotto questo aspetto, non vi sono nella legge 59 disposizioni tali da impedire un’interpretazione adeguatrice della nuova disciplina procedurale che mantenga fermo il presupposto della previa autorizzazione legislativa. Personalmente dubito che tale fosse la mens legis, ma la Corte offre chiare indicazioni di ritenere che le nuove procedure d’intesa non possano sostituire la previa legge di autorizzazione all’esercizio della funzione. L’indirizzo e coordinamento, dice la Corte (punto 14) “è espressione del potere, demandato in concreto dalla legge al Governo nazionale, di assicurare la salvaguardia di interessi unitari non frazionabili”, potere – aggiunge poco più in là – che non può essere esercitato “al di fuori dei  presupposti sostanziali e procedurali costituzionalmente necessari”.

 

5. Sebbene solo su questo punto le censure regionali abbiano conseguito un successo pieno, per altri profili la sentenza in esame appare utile alle Regioni, risolvendo preventivamente alcune delicate questioni interpretative. Nel complesso dispositivo della sentenza vi sono tre questioni risolte con pronunce interpretative di rigetto (“nei sensi di cui in motivazione”):

a)     la prima riguarda le definizione dell’àmbito di competenza della Conferenza Stato-Regioni che, dice l’art. 9.1 lett. a) della legge 59 (e ripete l’art. 2.1 del d.lgs, 281/1997, partecipa “a tutti i processi decisionali di interesse regionale, interregionale ed infraregionale”. Questa disposizione – afferma la Corte – è legittima solo se viene interpretata nel senso che l’intervento della Conferenza è ammesso esclusivamente quando l’oggetto portato alla sua attenzione coinvolge gli indirizzi di politica generale di pertinenza degli organi statali. Può trattarsi di questioni che riguardano singole Regioni o parti del loro territorio, ma sono la loro rilevanza per l’indirizzo generale del Governo e il coinvolgimento di attribuzioni statali a costituite il presupposto dell’intervento della Conferenza, che “è sede di raccordo per consentire alle Regioni di partecipare a processi decisionali che resterebbero altrimenti nella esclusiva competenza dello Stato” (punto 21);

b)    la seconda questione riguarda il grosso nodo dei motivi d’urgenza per i quali il Governo può prescindere dalla consultazione preventiva (art. 2.5 del d.lgs. 281/1997) o dalle intese raggiunte in Conferenza (art. 3.4 del d.lgs. 281/1997). La Corte ragiona in questi termini: l’obbligo di consultazione o di intesa è sancito dal decreto legislativo con una norma assai ampia e in parte indefinita, anche perché fa riferimento alle previsioni della legislazione previgente; sono modalità di cooperazione previste dalla legge ordinaria che la legge ordinaria può discrezionalmente regolare; quando però il parere o l’intesa derivi, per la particolarità dell’oggetto, da un obbligo costituzionale, non derogabile dal legislatore, la norma che consente al Governo di operare in via d’urgenza non si può applicare, e bisogna necessariamente procedere con le procedure ordinarie. Ma quali sono le ipotesi in cui le procedure di cooperazione sono coperte da una garanzia costituzionale? La Corte risponde con un’esemplificazione tratta dai casi affrontati in alcuni suoi precedenti: ma si tratta sempre di casi in cui sono coinvolte Regioni ad autonomia speciale, il cui statuto offre specifiche garanzie. Solo nell’ultimo precedente citato (sent. 242/1997) è coinvolta una Regione ordinaria, la Liguria: la Corte ha risolto in senso favorevole alla Regione un conflitto di attribuzioni relativo alla adozione di un decreto di individuazione delle aree demaniali escluse dalla delega ex art. 59 del d.P.R. 616/1977 senza il parere della Regione interessata. In questo caso la “particolarità dell’oggetto” renderebbe inaggirabile l’obbligo di consultazione, perché “la partecipazione procedimentale rappresenta la modalità concreta con cui si realizza, nel caso, il contemperamento dei diversi interessi.. La partecipazione regionale al procedimento… è perciò costituzionalmente indefettibile, deve essere resa effettivamente e non solo formalmente possibile” (sent. 242/1977, punto 4 del “diritto”). In conclusione, a seconda che l’obbligo di collaborazione sia previsto dalla sola legge o sia imposto dalla stessa costituzione, in considerazione del caso di specie, la procedura d’urgenza è ammessa o è esclusa: facile prevedere un ampio contenzioso sull’applicazione concreta di questo canone;

c)     non dà luogo ad una pronuncia formalmente “interpretativa”, ma lo è di fatto, la questione sorta sull’art. 20.7 della legge 59, laddove prevede che le “disposizioni” relative alla c.d. delegificazione “operino direttamente nei riguardi delle Regioni fino a quando esse non avranno legiferato in materia”. La Corte rinuncia a chiarire “in positivo” il significato di una disposizione che essa stessa definisce “invero non perspicua”, limitandosi ad affermare, “in negativo”, che comunque essa non può significare che le future norme dei regolamenti governativi di delegificazione possano disciplinare materie di competenza regionale. È già qualcosa, anche se non basta certo a fare chiarezza nell’ormai insostenibile confusione dei rapporti tra fonti statali e regionali.