Sullo “statuto costituzionale” delle deleghe

 

Roberto Bin

 

1. I due conflitti decisi dalla Corte costituzionale hanno diversi aspetti in comune. Sono promossi dalla stessa Regione, l’Emilia-Romagna, riguardano la stessa materia, la tutela dei beni culturali e ambientali e, soprattutto, vertono sulla stessa questione, cioè sullo “statuto costituzionale” delle delega.

La Regione non ricorre, infatti, lamentando una violazione delle attribuzioni delegate: quindi, non si pone per questi ricorsi il consueto e impervio compito preliminare di qualificare le funzioni in questione come “devolutive” o “traslative”, piuttosto che come “libere”, secondo la nota distinzione avvalorata dalla Corte costituzionale a partire dalla sent. 559/1988[1]. È il “rapporto di delega” l’oggetto (principale) del giudizio, ossia l’insieme delle relazioni che si creano tra delegante e delegato – relazioni che il ricorrente ricostruisce nei termini di uno “statuto” comune delle regole sull’esercizio delle funzioni deleghe, quale sia la qualificazione di quest’ultime in relazione alle attribuzioni regionali. Evidente è l’obiettivo strategico di questa prospettazione: estendere la legittimazione attiva delle Regioni - sia pure per i soli aspetti attinenti, appunto, allo “statuto” - anche nei casi in cui si tratti di deleghe “libere”, le quali altrimenti, per costante giurisprudenza della Corte, non sarebbero difendibili in sede di conflitto.

 

2. I fatti. Con il primo ricorso, la Regione impugna il decreto del Direttore generale dell’ufficio ministeriale con cui si delega ai soprintendenti competenti per territorio l’esercizio dei poteri ministeriali di autorizzazione in via surrogatoria e di annullamento delle autorizzazioni rilasciate dalle Regioni per le modifiche dei beni soggetti a tutela. La ricorrente non contesta la titolarità della funzione in capo all’amministrazione statale, ma la regola sull’esercizio della stessa. La contestazione muove da un presupposto preciso: che la delega sia un rapporto tra organi “di governo”; che perciò i poteri statali relativi alla vigilanza sulle funzioni delegate devono necessariamente essere esercitati dall’autorità governativa centrale.

Questa ricostruzione avrebbe il conforto dell’art. 121, ultimo comma, Cost., che attribuisce al Presidente della Giunta regionale la direzione delle funzioni amministrative delegate, così come attribuisce al Governo il potere di dettare ”istruzioni” in merito all’esercizio della delega. Tutta la legislazione ordinaria si pone poi come sviluppo di questo schema. È ammesso semmai, in certi casi, che sia il Ministro, anziché il Governo nella sua collegialità, a disporre nei confronti delle Regioni delegate: è quanto prevede l’art. 82, nono comma, del d.P.R. 616/1977, proprio in riferimento dei provvedimenti qui in questione. Ma è un’eccezione che conferma la regola, poiché il Ministro è pur sempre organo del Governo centrale. La regola sarebbe invece platealmente infranta quando i poteri in questione siano conferiti ad organi tecnico-burocratici dell’amministrazione periferica dello Stato, quali i sovrintendenti.

A questa argomentazione principale, il ricorso ne aggiunge altre due: che il provvedimento di delega ai sovrintendenti non sarebbe disposto dal Ministro, ma addirittura dal Direttore generale del Ministero; e che la “frantumazione” del potere di annullamento, suddiviso tra i diversi sovrintendenti, farebbe venire meno quella funzione di coordinamento e di unificazione dell’attività degli enti delegati, che è la ragione giustificativa del mantenimento del potere di annullamento in capo allo Stato, potere che non si risolverebbe in una competenza meramente tecnica, esercitabile da organi periferici di livello infraregionale, ma comporterebbe valutazioni sintetiche e comparative necessariamente spettanti all’autorità centrale, cioè al Ministro. Sono due argomentazioni  probabilmente giocate dalla ricorrente “in difesa”, per prevenire quelle obiezioni che invece la Corte, come poi si dirà, svilupperà proprio per giustificare la pronuncia negativa.

Con il secondo ricorso la Regione s’oppone al decreto del Sottosegretario, delegato dal Ministro, con cui si appone il vincolo paesaggistico ad alcuni centri storici minori. Anche in questo caso la contestazione è mossa contro il modo in cui il potere viene esercitato, e non per rivendicarne la titolarità. Il decreto impugnato chiude una tormentata vicenda quasi ventennale in cui la sovrintendenza, isolata nel valutare l’opportunità e l’estensione del vincolo, riesce alla fine a sovvertire e vanificare tutte le precedenti valutazioni degli organi locali invocando e ottenendo l’intervento del ministro. Anche qui è chiamato in gioco lo “statuto costituzionale” della delega, ossia, citando dal ricorso, “il diritto di esercitare qualunque funzione delegata nel regime costituzionale previsto dalla carta fondamentale”. Qui altri due elementi vanno ad arricchire lo “statuto”: che la delega sia conferita con legge, e che con legge sia revocata (ma questo è un obiter dictum che non fonda un motivo del ricorso); che anche nel rapporto di delega le relazioni tra lo Stato e la Regione, soggetto pur sempre dotato di rilievo e di garanzie costituzionali, siano caratterizzate dal principio di leale collaborazione (la cui lesione, denuncia il ricorso, sarebbe stata causata dall’avere il ministero assunto il provvedimento senza prendere in considerazione le contrarie valutazioni degli organi locali).

 

3. Per entrambi i ricorsi le conclusioni della Corte sono negative. Quanto al primo ricorso, la Corte impernia la sua motivazione sulla natura del potere di annullamento, cioè sul tema che il ricorso della Regione ha sfiorato ma non affrontato. L’annullamento delle autorizzazioni regionali (e il simmetrico potere di concedere l’autorizzazione in surroga) ha natura tecnica o politica? Questo nodo non è sciolto nella memoria della ricorrente, che, prudentemente, si ferma alla negazione della natura meramente tecnica del potere. La prudenza è inevitabile: infatti la delega delle funzioni di annullamento ai sovrintendenti è disposta dal Direttore generale dell’Ufficio centrale per i beni ambientali e paesaggistici del Ministero, a cui tali funzioni erano state demandate in precedenza con decreto del Ministro. Con quest’ultimo atto, dunque, si era compiuta già una scelta decisiva, quella di qualificare la funzione in questione come appartenente all’universo delle attività tecnico-amministrative, ricadenti nelle competenze della dirigenza, e non come attività politico-amministrativa da riservare agli organi di governo.

Le Regioni non avevano impugnato questa precedente decisione, per cui ora la ricorrente non avrebbe potuto far leva sulla natura politico-amministrativa e non meramente tecnica della funzione, per contestare la legittimità di un atto che è conseguente rispetto a decisioni già assunte. E ciò consente alla Corte di liberarsi facilmente della questione, senza porsi il problema della natura politica o tecnica del potere di annullamento: problema, a mio avviso, assai delicato e perciò per nulla scontato in partenza. Ma in partenza, appunto, non siamo più. Dato per scontato – perché è stato l’atto precedente, non contestato, a fissare questo punto - che il potere di annullamento si esaurisca in un’attività tecnico-amministrativa, libera è l’amministrazione statale di organizzarla come crede, le sue scelte non potendo produrre menomazione delle attribuzioni regionali. Da qui la pronuncia di inammissibilità per carenza d’interesse al ricorso.

Il secondo ricorso è invece risolto negativamente nel merito. La Corte ritiene che il potere concorrente di integrare gli elenchi delle bellezze naturali approvate dalle Regioni sia un rimedio ulteriore rispetto alle procedure delegate che si svolgono in sede locale. Esso consiste nella facoltà di modificare gli elenchi regionali, ma solo attraverso “aggiunte di completamento”, rispetto ai vincoli imposti dalla Regione, con esclusione di soppressione anche parziali di essi. Ora, il potere statale può essere esercitato, non solo in assenza, ma anche contro le valutazioni degli organi locali: in questo caso gli organi statali hanno il “potere-dovere di acquisire tutti gli atti pregressi, che devono essere valutati e presi in considerazione nei diversi profili emersi”, senza però che sia necessario provocare una nuova valutazione da parte degli organi regionali o di coinvolgerli altrimenti nel procedimento. Qui, in sostanza, gli obblighi che derivano dal principio di leale collaborazione – che, come ben si sa, sono valutati dalla Corte costituzionale secondo una scala di diverse intensità[2] - si confondono con gli oneri tipici del procedimento amministrativo, a partire dall’applicazione della regola di motivazione degli atti amministrativi[3].

 

4. Un unico aspetto positivo per le Regioni emerge dalle due sentenze in commento: la Corte avvalora la “dottrina” che esista uno “statuto costituzionale” delle deleghe di funzioni amministrative dello Stato alle Regioni, un “rapporto di delega” strutturato da regole e princìpi costituzionali che possono essere fatti valere con lo strumento del conflitto di attribuzioni anche dove la delega non abbia le caratteristiche forti della “traslatività”.

Nella sent. 333/1998 questo profilo viene sfiorato appena in un obiter dictum. A conclusione della motivazione, la Corte accenna al problema in negativo: “con ciò non si nega, in radice ed in via generale, che la Regione possa avvalersi del conflitto di attribuzione in materia oggetto di delega anche al di fuori delle ipotesi di delega propriamente traslativa, quando si possa ravvisare una sorta di statuto della delega costituzionalmente rilevante ai fini della sfera garantita alla Regione”. L’Avvocatura aveva sollevato l’eccezione di inammissibilità, motivandola appunto in base al carattere “libero” della delega: ma la Corte giunge a dichiarare l’inammissibilità del ricorso, come si è visto, per un motivo diverso da quello indicato dal resistente, che la Corte trascura di prendere in considerazione, benché logicamente precedente.

Invece nella sentenza successiva la Corte rigetta l’eccezione dell’Avvocatura (punto 2 del “in diritto”) usando lo “statuto costituzionale” della delega come ratio decidendi. Il ricorso è ammissibile perché tocca i “rapporti tra Regione e Stato in ordine alla ripartizione delle sfere di competenze e ai limiti degli effetti che un atto statale può produrre su funzioni delegate già esercitate dalla Regione, ciò indipendentemente dalla qualificazione della natura della delega nella concreta materia”. Nulla di più la Corte ci dice, nulla che possa indicarci quali regole e quali princìpi appartengano allo “statuto”. Ma tuttavia il passo è importante, aprendo nuove prospettive alla difesa giudiziale delle Regioni.



[1] In questa Rivista, 1989, 162 ss. (con note di M. Cammelli e L. Violini).

[2] Cfr, ad esempio, le sentt. 517/1987, 514/1988, 1031/1988, 337/1989, 544/1989, 21/1991, 351/1991, 482/1991, 483/1991, 6/1993, 204/1993, 377/1993, 116/1994, 444/1994, 389/1995, 207/1996 …

[3] Che infatti la Corte ritiene implicita nel principio di leale cooperazione: cfr. sent. 338/1994, in questa Rivista 1995, 764 ss.