Regolamenti statali in materie delegate: una chiave interpretativa del “nuovo” art. 117, 6° c., Cost.?

(nota alla sent. 206/2001 della Corte costituzionale)

 

Roberto Bin

 

 

1. In questa sentenza, che risponde ad una serie alluvionale di eccezioni, spesso avventate, che la Regione Veneto ha mosso ai decreti di attuazione della legge 59/1997, uno dei pochi punti su cui la Corte ha accolto le argomentazioni della ricorrente tocca la questione dei regolamenti statali in materie delegate alla Regione. Il “decreto correttivo” 443/1999 aveva aggiunto all’elenco della funzioni trattenute dallo Stato nella materia “commercio” - elenco contenuto nel decreto legislativo 112/1998 - “l’attività regolamentare in materia di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e di commercio dei pubblici esercizi, d’intesa con le regioni”. La Corte dichiara illegittima questa integrazione sulla base di argomentazioni che meritano attenzione.

a)    Non trattandosi di materia di competenza propria delle Regioni, non sarebbe di per sé costituzionalmente illegittima la previsione di un esercizio da parte dello Stato della potestà di emanare regolamenti di esecuzione della legge statale”. L’affermazione è importante anzitutto per ciò che sottintende: cioè che in materie di competenza propria della Regione resta fermo il divieto di emanare regolamenti statali di esecuzione. Principio che, per altro, può dirsi consolidato nella giurisprudenza costituzionale precedente (rinvio alla ricostruzione tracciata in Regolamenti statali e attribuzioni legislative delle Regioni, in "Le Regioni" 2001, 387 ss.).

b)    La legge di delega “riprendendo una clausola generale già presente nell’art. 7, primo comma, del d.P.R. n. 616 del 1977 – stabilisce in via generale che nelle materie diverse da quelle di competenza propria delle Regioni, ma oggetto di conferimenti di funzioni amministrative alle stesse, «spetta alle Regioni il potere di emanare norme attuative ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, della Costituzione» (comma 1, seconda parte); e che «in ogni caso, la disciplina della organizzazione e dello svolgimento delle funzioni e dei compiti amministrativi conferiti (…) è disposta, secondo le rispettive competenze e nell’ambito della rispettiva potestà normativa, dalle Regioni e dagli enti locali» (comma 2)”. Da notare che la specifica norma della legge di delega assume in questo ragionamento una funzione non “innovativa”, ma di conferma della “regola generale” stabilita nel d.P.R. 616/1977. Il che consente di trasporre su un piano generale anche la conclusione cui il ragionamento della Corte conduce.

c)     Con tale previsione generale di attribuzione alle Regioni di una potestà normativa di attuazione della legislazione statale contrasta la riserva allo Stato, non già di singoli compiti esclusi dal conferimento, bensì, genericamente, della «potestà regolamentare»… in una singola materia o submaterie…compresa fra quelle in cui vi è conferimento di funzioni amministrative alle Regioni…ancorché non rientrante fra quelle elencate nell’art. 117 Cost.”. Se la conclusione proviene da un ragionamento condotto su un piano generale (e non condizionato dalle contingenti espressioni testuali impiegate dal legislatore delegante), assume il valore di una massima generale di un certo interesse: il principio del parallelismo delle funzioni non significa soltanto che la Regione può emanare norme per l’esercizio delle funzioni delegate, ma che questa disciplina le è riservata. Con il conseguente divieto per lo Stato di attribuirsi “una generale potestà normativa diretta a integrare e specificare la disciplina della legislazione statale – cioè a darvi attuazione – proprio nella materia oggetto di conferimento alle Regioni: dunque di una funzione normativa di attuazione coincidente con quella che… è attribuita a queste ultime”. Allo Stato si potrebbe riconoscere semmai il potere di emanare regolamenti muniti esclusivamente “di carattere suppletivo, riguardi cioè l’emanazione di norme regolamentari destinate ad avere efficacia solo fino a quando la Regione non adotti, nella stessa materia, proprie norme di attuazione”, come da sempre riconosciuto dalla stessa giurisprudenza costituzionale.

 

 2. Dopo la riforma del Titolo V° della Costituzione, le massime di questa sentenza sembrano mantenere ormai solo un valore storico, visto che il potere regolamentare dello Stato è esplicitamente riconosciuto nelle e circoscritto alle sole materie di “competenza esclusiva” dello Stato (art. 117.6 Cost.). Tuttavia esse possono stimolare alcune considerazioni utili all’interpretazione da dare alla disposizione della riforma.

 La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia”. Questa disposizione sembra modificare radicalmente il quadro cui fa riferimento  la giurisprudenza costituzionale passata, anzitutto perché sembra togliere spazio alla delega di funzioni amministrative statali alle Regioni. Per cui è piuttosto diffusa l’idea che essa vada interpretata in questo senso: che la “funzione” che lo Stato può delegare alle Regioni sia proprio quella regolamentare. Ma ha senso un’ipotesi di questo tipo? Per quale motivo lo Stato dovrebbe rinviare alle Regioni la disciplina secondaria di una materia di sua competenza esclusiva? Che senso avrebbe prevedere una disciplina applicativa differenziata di una legge statale, specie se si tiene presente che le funzioni amministrative oggetto della disciplina regolamentare dovrebbero essere conferite (probabilmente già dalla legge statale) agli enti locali, in nome del principio di sussidiarietà? Molto più produttivo mi sembrerebbe ritenere che quel “salva delega” sia riferito proprio alle vecchie “deleghe” di funzioni amministrative  di cui all’art. 118.2 nel testo riformato.

Così le cose ritornerebbero un po’ più in ordine. Lo Stato può delegare alle Regioni determinate “sue” funzioni amministrative: in questo caso perde il monopolio normativo sulla materia “esclusiva”, perché le Regioni “delegate” possono e (molte volte) devono dettare una propria disciplina per l’esercizio di quelle funzioni. Non va infatti dimenticato che il fondamento del principio di parallelismo delle funzioni è lo stesso principio di legalità, che impone agli organi amministrativi (regionali) di agire, anche quando esercitino funzioni delegate, sulla base di una disciplina legislativa. Il collegamento tra principio di parallelismo e principio di legalità è esplicito nella giurisprudenza della Corte costituzionale: “la Corte ha più volte riaffermato (da ultimo, nella sentenza n. 70 del 1981) la regola del parallelismo tra funzioni amministrative e legislative regionali,  senza  di  che rimarrebbe  insoddisfatta  la  stessa  esigenza  di  legalità dell'amministrazione” (sent. 65/1982).

La disposizione dell’art. 117.6 del nuovo testo costituzionale non rappresenta dunque alcuna novità: non fa che ribadire le massime proprio di questa sentenza. O meglio, la novità è che lo Stato può fare regolamenti soltanto dove ha competenza legislativa esclusiva. Ma se lo Stato decide di delegare le funzioni amministrative alle Regioni, il suo potere regolamentare subisce una compressione, perché in questo caso spetta alle Regioni dettare la disciplina necessaria a dare fondamento di legalità all’azione amministrativa.Qui sorge però un problema ulteriore: è davvero necessario che la Regione provveda a tale disciplina con “regolamento”, o lo può fare anche con “legge”. Non è un profilo trascurabile, perché sia il principio di legalità, sia lo stesso Statuto regionale, possono opporsi ad una disciplina regolamentare della funzione delegata, e richiedere invece una disciplina di rango legislativo. Se accettassimo questa prospettiva, avremmo di fatto restaurato il principio di parallelismo delle funzioni che, non a caso, proprio dall’esigenza della legalità ha tratto nutrimento. La disposizione dell’art. 117.6 andrebbe letta allora in questi termini: lo Stato può emanare regolamenti soltanto laddove abbia potestà legislativa esclusiva e soltanto se non decida di delegare le funzioni amministrative alle Regioni; in quest’ultima ipotesi, perde il potere regolamentare (o lo mantiene con funzione soltanto suppletiva) e si espande conseguentemente il potere normativo della Regione (se in forma di legge o di regolamento sarà lo Statuto regionale, oltre alle circostanze, a determinarlo).

 

3. Se, come sembra corretto, si ancora l’interpretazione dell’art. 117.6 al principio di legalità, forse si può fare un passo avanti nella lettura anche della seconda parte della disposizione dell’articolo stesso: gli enti locali “hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”. Sembra quasi trattarsi, ancora, di un’estensione del principio del parallelismo: l’ente che è titolare di una funzione amministrativa è titolare anche del potere normativo relativo alla disciplina organizzativa e di esercizio della stessa; ossia, corollario necessario, l’ente che delega l’esercizio di una funzione amministrativa si spoglia anche del potere di disciplinarne in via esclusiva l’organizzazione e l’esercizio (l’eccezione al monopolio regolamentare dello Stato nelle materie di sua competenza legislativa esclusiva, di cui si ho appena discusso, è quindi applicazione di questo principio). “In via esclusiva” è un doveroso complemento di limitazione: è fuori discussione, mi pare, che la delega o l’attribuzione di funzioni amministrative ad altri enti non comporti la perdita di ogni potestà di disciplina organizzativa o di esercizio da parte dell’ente che se ne spoglia: cosa debba o possa essere regolato dal livello più alto e che cosa debba o possa essere regolato dal livello più basso è uno degli aspetti che vanno determinati ragionando in termini di sussidiarietà, e non attraverso categorie precostituite.

Quindi, in conclusione:

a)     se lo Stato decide di delegare funzioni amministrative “esclusive” alle Regioni, a queste spetta il compito di disciplinarne l’esercizio (con legge o con regolamento, saranno lo Statuto e i princìpi generali a stabilirlo), mentre lo Stato “perde” tale potere (salva la possibilità di emanare eventuali norme regolamentari suppletive);

b)    se lo Stato decide di delegare funzioni amministrative “esclusive” agli enti locali, ad essi spetta il compito di disciplinarne l’esercizio, necessariamente con regolamento e con i limiti propri di questa fonte;

c)     se la Regione decide di conferire funzioni proprie (o delegate dallo Stato) agli enti locali, la funzione regolamentare si trasferisce ad essi per tutti gli oggetti che non siano direttamente disciplinati dalla legge regionale, restando alla Regione preclusa la possibilità di emanare disposizioni regolamentari ulteriori (rispetto alla legge regionale), se non quelle che abbiano carattere suppletivo.

Una postilla, forse non necessaria. Queste regole, che a me sembra di poter trarre dall’interpretazione dell’art. 117.6 Cost., non valgono solo per le funzioni che verranno delegate in futuro, ma sono la disciplina che si applica già da ora alle funzioni conferite dalla legislazione precedente alla riforma costituzionale. Nulla, al fondo, in questo caso cambia: ma la precisa eccezione alla riserva regolamentare statale nelle materie “esclusive”; la cancellazione della potestà regolamentare statale nelle altre materie; la chiara attribuzione di potestà regolamentare agli enti locali, con corrispondente arretramento della potestà regolamentare sia dello Stato che delle Regioni, nelle materie loro conferite: tutto ciò deve servire ad introdurre qualche elemento di maggior chiarezza nel concorso delle fonti normative legislative e regolamentari, statali regionali e locali nella stessa materia. Questo mi sembra debba essere l’obiettivo della riforma costituzionale e il canone per l’interpretazione di essa.