Riforme costituzionali: come si esce dallo Stato costituzionale di diritto

Roberto Bin*

 

1. Non mi soffermerò sulle proposte di modifica della “forma di governo”, non perché non vi siano rilievi critici da muovere, ma anzi perché ritengo inutili, e perciò dannose, le riforme costituzionali che mirano a risolvere i problemi del nostro sistema politico attraverso regole costituzionali. Perché esse siano dannose, cercherò di motivarlo in conclusione; per il momento mi limiterei a spiegare perché esse mi appaiono inutili.

La necessità di una revisione costituzionale della forma di governo è di frequente motivata con l’affermazione per cui la nostra costituzione avrebbe “irrigidito” la forma di governo in modo tale che sarebbe impedito al sistema di evolvere fuori dal tracciato del sistema elettorale proporzionale e di consolidare la posizione dell’esecutivo, rimediando all’atavica instabilità dei governi italiani. È un’affermazione del tutto infondata. Tutto all’opposto, l’evoluzione in corso dimostra proprio l’elasticità delle previsioni costituzionali, che non hanno affatto ostacolato l’evoluzione delle prassi relative alla nomina del Presidente del Consiglio dei ministri ed il loro adattamento agli esiti del nuovo sistema elettorale (consultazioni, incarico, scioglimento della riserva, scelta dei ministri ecc. sono prassi che stanno rapidamente cambiando, seppure con vischiosità in parte incomprensibili, in parte dovute alle esigenze, tutte politiche, dell’instaurando governo di guadagnar tempo nel venire a capo degli accordi tra i gruppi della coalizione che ha vinto le elezioni). Anche le norme vigenti sui poteri del Presidente del Consiglio dei ministri sono assolutamente vaghe e consentono soluzioni diverse, che dipendono dall’autorevolezza del singolo Presidente del Consiglio dei ministri e dall’assetto della coalizione che lo sostiene (semmai è stata una parte della dottrina a sostenere, scambiando le regolarità dei governi di coalizione per regole costituzionali, che il Presidente del Consiglio dei ministri non avrebbe il potere di rimuovere i ministri: ma il “caso Mancuso” ha dimostrato che tale potere c’è già, anche se la Corte costituzionale – a mio avviso sbagliando – ha evitato di riconoscerlo apertamente ed ha preferito – a mio avviso sbagliando – accordare alla sfiducia individuale effetti giuridici “esterni” alla camera che la ha votata); lo stesso “bicameralismo perfetto” non è una soluzione obbligata dalla costituzione, perché è assai probabile che le Camere potrebbero, se lo volessero, differenziare progressivamente le loro funzioni anche solamente in forza di modifiche e ritocchi apportati alle norme dei regolamenti interni e alla prassi (per es., combinando una prassi relativa all’ordine di presentazione dei disegni di legge con una forte semplificazione delle procedure di approvazione in seconda battuta delle leggi già approvate dalla prima Camera).

La riprova di quanto sostenuto la danno gli stessi regolamenti parlamentari, le cui timide modifiche sono stati sufficienti a cambiare profondamente i modi di approvazione delle proposte governative, scavando rapide corsie preferenziali, consentendo pesanti contingentamenti dei tempi ecc. Se l’evoluzione è stata sinora timida, ciò dipende solo dalle resistenze manifestate dalle forze politiche, non certo da ostacoli d’ordine costituzionale.

L’affermazione, anch’essa spesso ripetuta, per cui la costituzione sarebbe permeata da un diffuso e irriducibile spirito proporzionalistico, è anch’essa destituita di fondamento: il “principio proporzionalistico” fa capolino in costituzione solo come regola di formazione della commissione in sede deliberante (ci mancherebbe!) e della commissione d’inchiesta (probabilmente un errore: a proposito, perché non riformare l’art. 82?). Per il resto le camere sarebbero giuridicamente libere di organizzare diversamente le commissioni, la loro formazione, il modo in cui votano ecc. (il Comitato per la legislazione è la dimostrazione empirica della validità di questo assunto). Insomma di vincoli insormontabili per eccesso di dettaglio e di condizionamenti ideologici nella previsione costituzionale ce ne sono davvero pochi: il che significa che non sarebbe affatto male incominciare a riconoscere la saggezza dei costituenti del 1948, piuttosto che biasimarli per le incrostazioni che il sistema ha subito in seguito per ragioni che non sono affatto imputabili al testo che essi hanno scritto. Distinguere le tubature dalle incrostazioni è una buona norma per l’idraulico, perché differenti sono gli strumenti che deve impiegare per riparare le une o rimuovere le altre.

Non dico che nell’àmbito della forma di governo non vi siano specifiche norme da cambiare o da aggiungere: per esempio, il ruolo del parlamento (e delle opposizioni in parlamento) andrebbe tutelato con specifiche regole (forse non necessariamente costituzionali) sul controllo della politica estera, della politica comunitaria, della politica finanziaria e di bilancio: purtroppo però né la proposta di modifica dell’art. 80 né quella dell’art. 81 affrontano il problema. Ma quello che trovo davvero inutile è mirare a risolvere i problemi di funzionalità del nostro sistema politico attraverso regole costituzionali. Inutile, fuorviante e dannoso, come sarebbe cementare le fessure del muro a secco per evitare che passi l’acqua. Se il problema della politica italiana è di avere un sistema partitico frammentato, coalizioni raccogliticce e perennemente costrette al litigio (costrette, perché se un leader non si distingue dal capo della coalizione – non assicura la sua “visibilità”, come si dice in gergo – è condannato a sparire, a perdere la sua dignità di leader), la cura non è rafforzare i poteri “giuridici”, costituzionali, del Presidente del Consiglio dei ministri: questa cura può, semmai, ammazzare la democrazia, rendere inutile il dibattito politico, svuotare il parlamento e le sedi collegiali, peggiorare perciò la qualità delle decisioni, ma non risolve affatto il problema. I cani che non possono mordere, abbaiano di più e, appena possono, si vendicano.

I problemi della politica devono essere risolti dalla politica, con i suoi strumenti (per esempio, con un migliore uso del voto da parte dei cittadini: oh, lo volesse il cielo!): non li può risolvere alcuna norma costituzionale. Le regole costituzionali stanno alla politica esattamente come le norme del codice civile sul matrimonio stanno all’amore. Questo tutti lo sanno. I primi a saperlo sono gli stessi politici: infatti, se non fossero perfettamente consapevoli dell’inutilità delle regole che si apprestano a proporre e a votare, perché lo farebbero? Perché qualcuno di loro dovrebbe sacrificare se stesso in nome della semplificazione del quadro politico generale. O se ne sottovaluta l’intelligenza, o se ne sopravvaluta la generosità!

 

2. Non posso però sottrarmi ad alcuni specifici rilievi critici, mossi sotto un profilo puramente tecnico, alle norme sulla “forma di governo” contenuto nel disegno di legge costituzionale:

 

a) il “nuovo” art. 66[1], mantenendo in capo alla Camere il giudizio sui titoli di ammissione dei propri componenti e sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità, non risolve uno dei principali nodi del nostro sistema democratico. Specie in presenza di un sistema elettorale in cui almeno parte dei deputati viene eletta in collegi uninominali, non è in alcun modo tollerabile che il contenzioso sulle cause di ineleggibilità e di incompatibilità sia deciso da coloro che sono stati eletti a danno di coloro che sono stati esclusi. La stessa dottrina elaborata dalla Corte costituzionale, per cui le cause di ineleggibilità e di incompatibilità andrebbero sempre interpretate in senso restrittivo, perché limitano un diritto politico, oggi non sembra più sostenibile. Il diritto politico dell’eletto è esattamente equivalente al diritto politico dello sconfitto, i loro interessi assolutamente equivalenti anche se visti dall’ottica dell’interesse generale: la teoria, sostenuta in passato dagli stessi deputati di sinistra, quando fece comodo ricorrervi, per cui il voto popolare è un detersivo che “lava” le eventuali cause di ineleggibilità o incompatibilità – teoria oggi ampliamente usata per giustificare ben note situazioni di conflitto d’interessi – è palesemente contraria a costituzione, e oggi il contrasto è particolarmente evidente. La sottrazione dei conflitti elettorali ad un giudizio imparziale (anche nella forma di un ricorso alla Corte costituzionale contro le decisioni adottate in materia elettorale: cfr. in questo senso A. Manzella, Il parlamento3, Bologna 2003, 225) è diventata ormai un vulnus alla legalità costituzionale che andrebbe senz’altro rimediato da una regola costituzionale: esso è reso ancora più evidente dalla circostanza che la coalizione che vince le elezioni dovrebbe ricevere, come lascia intendere il “nuovo” articolo 92.2[2], un premio che assicuri ad essa la maggioranza. I seggi contestati potrebbero essere proprio quelli che assegnano la vittoria: può il giudizio su questo contenzioso essere considerato un “atto interno” della Camera e deciso a maggioranza?

 

b) Le modifiche che verrebbero portate, con l’introduzione dell’art. 89.3[3], al sistema della controfirma degli atti del Presidente della Repubblica appare molto poco convincente. Non ha senso, infatti, porre sullo stesso piano atti che non hanno effetti definitivi - quali il rinvio delle leggi e i messaggi alle Camere – oppure atti che il Capo dello Stato assume come presidente di un organo collegiale – la nomina del vicepresidente del CSM – con atti che invece sono definitivi (la concessione della grazia) e incidono sulla funzionalità di altri organi, anche costituzionali (lo scioglimento della Camera dei deputati, la nomina dei senatori a vita, la nomina dei giudici della Corte costituzionale di sua competenza, ai sensi degli articoli 92 e 94 e le altre nomine). Il Presidente della Repubblica resta, anche nella costituzione riformata, organo politicamente irresponsabile, com’è giusto che sia: ma proprio per questo sarebbe grave che in uno stato costituzionale di diritto vi siano poteri pubblici, per di più di natura monocratica, che assumono decisioni che non sono né giustiziabili né politicamente sindacabili. La controfirma, quando non corrisponde a proposta ministeriale, costituisce controllo e assunzione di responsabilità politica per il modo in cui il controllo è esercitato: è il ministro che controfirma che risponde al parlamento, riportando l’atto all’interno del circuito della responsabilità politica; ed è così che si garantisce la “neutralità” politica del Capo dello Stato.

Non si deve dimenticare che il mandato settennale è lungo e molte cose possono accadere nel suo arco; precedenti esperienze dovrebbero insegnarci a mantenere fermi i controlli sugli atti del Presidente della Repubblica. Che si fa se il Presidente della Repubblica un giorno dovesse decidere di graziare noti criminali mafiosi? e se nominasse l’avv. Cesare Previti giudice della Corte costituzionale?; e se insediasse il dott. Confalonieri alla guida dell’autorità garante delle comunicazioni? L’emozione suscitata dal dibattito sulla grazia non può provocare reazioni inconsulte, che rischiano un giorno di creare problemi istituzionali irrisolvibili. La sovraordinazione dei fini ai mezzi – di cui anche i governi della precedente legislatura si sono resi colpevoli, per esempio con l’uso abnorme della delega legislativa e con una tecnica spesso scriteriata di “delegificazione”, per non dire dell’uso tattico delle riforme costituzionali – è radicalmente incompatibile con la logica dello Stato costituzionale di diritto. Se, restando in questa logica, si vuole rafforzare l’autonomia del Presidente della Repubblica nell’esercizio di alcune sue funzioni, invece che togliere la controfirma meglio sarebbe distinguere tra gli atti per cui ci deve essere proposta ministeriale e atti su cui c’è solo controllo.

 

c) Mi sfugge il senso della riforma dell’art. 94. Che non sia più previsto il voto di fiducia iniziale (comma 1[4]) ha un significato meramente simbolico, dato che l’art. 92.2 garantisce comunque al “premier” la maggioranza nella Camera, sicché il voto di fiducia sarebbe una pura ritualità; la previsione della “questione di fiducia” (comma 2[5]) non aggiunge nulla a ciò che oggi è già stabilito in via di interpretazione, prassi e norma di regolamento parlamentare. La disciplina della mozione di sfiducia (comma 3[6]) resta sostanzialmente quella di prima, salvi il raddoppio delle firme richieste per la presentazione della richiesta (a quale problema concreto si vuole rispondere così? c’è mai stato in Italia un ricorso eccessivo alla mozione di sfiducia?) e l’eliminazione della “pausa di riflessione”, sostituita dalla prescrizione della maggioranza assoluta per l’approvazione. Ma ha senso mantenere in vita un governo che, pur avendo vinto le elezioni e perciò ottenendo in partenza un premio che gli deve assicurare la maggioranza alla Camera (come vuole il già ricordato art. 92.2), tuttavia ha visto sfaldarsi la coalizione che lo sosteneva e sopravvive solo perché un manipolo di astenuti impedisce agli avversari, ormai in maggioranza (relativa), di cacciarlo?

 

d) Il nuovo testo dell’art. 94 sembrerebbe togliere lo spazio per la c.d. “sfiducia individuale” rivolta al singolo ministro. La scelta – se tale è – sembra inopportuna: il rafforzamento del “premier” nei suoi rapporti con i ministri e con la Camera dovrebbe essere compensato proprio con il rafforzamento dei poteri di “ispezione politica” di quest’ultima: la possibilità di chiedere ed ottenere la rimozione del ministro che non opera correttamente (per esempio, perché non vuole controfirmare il decreto di grazia voluto dal Presidente della Repubblica e dalla maggioranza dei membri della Camera), appare uno strumento necessario, che nell’assetto istituzionale che si vuole introdurre, a differenza che in passato, è senz’altro necessario disciplinare in costituzione.

 

e) Tutto il complicato sistema costruito dagli artt. 88 (scioglimento anticipato della Camera per decisione del “premier”, ma con il necessario consenso del Presidente della Repubblica), 92.4 (morte e dimissioni “costruttive”: il “premier” va, la coalizione resta), 94.3 (voto di sfiducia che obbliga il “premier” alle dimissioni, con conseguente scioglimento della Camera) appare piuttosto inutile. Il senso è impedire il rovesciamento della maggioranza uscita vincitrice dalle elezioni, per cui, in caso di rottura del rapporto politico tra il “premier” e la “sua” coalizione, o questa si mette d’accordo ed esprime un nuovo premier, o il Presidente della Repubblica scioglie e indice nuove elezioni. Un risultato piuttosto modesto per cotanta macchina normativa, visto che non mi pare che l’evoluzione della prassi istituzionale sia orientata diversamente. Ancora una volta il problema politico è la instabilità del quadro dei partiti, la frammentazione, la personalizzazione, il trasformismo: basta una regola costituzionale per sanare questa condizione esistenziale della politica italiana? Oltretutto, da come è scritto l’art. 88[7], sembra doversi ricavare che la possibilità della coalizione di “resistere” alle dimissioni del suo “premier” indicando un successore sarebbe limitata al caso in cui sia il premier a voler sciogliere la Camera, mentre per le altre crisi politiche la Camera comunque soccombe. “Il Presidente della Repubblica non emana il decreto di scioglimento richiesto dal Primo ministro” sembra voler escludere infatti che la Camera possa a sua volta votare la “sfiducia costruttiva”, e questo appare confermato dal tenore dell’art. 92.4[8]. Sono sempre stato convinto della perfetta inutilità dell’introduzione della sfiducia costruttiva nel nostro sistema, ma sembra curioso lo sbilanciamento programmatico che si vuole introdurre tra la posizione del primo ministro e quella della Camera (e della coalizione che vi detiene la maggioranza): anche le regole inutili dovrebbero avere una certa simmetria (verrebbe quasi da parafrasare l’antico broccardo: inutile per inutile non vitiatur).

 

3. Maggior attenzione richiedono le norme che incidono sui rapporti tra Stato e Regioni. Il Titolo V è indubbiamente una parte del testo originale della costituzione che andava riscritta, in quanto, per le note ragioni, aveva perso qualsiasi capacità di regolare il diritto regionale. Non indugerò a ricordare le molte lacune e le tante aporie della riforma introdotta nel 2001: già tanto si è scritto e si è detto, ed ormai la giurisprudenza della Corte costituzionale sta ricostruendo pezzo a pezzo il difficile puzzle. Proprio per questo un nuovo intervento mirato a facilitare il compito degli interpreti e della Corte non potrebbe che essere salutato con sollievo e gratitudine. Purtroppo tale non è il testo proposto.

Mi limiterò agli aspetti più rilevanti, incominciando da quelli che toccano il “Senato federale”:

 

a) La riforma in senso federale del Parlamento è da tempo richiesta con una sola voce da tutti coloro che si occupano di questioni regionali. Purtroppo nella legislatura precedente non si è avuta la forza di introdurre, nella riforma costituzionale, una soluzione decente, essenzialmente per la resistenza corporativa della politica (e dei senatori in testa) di fronte al rischio di perdere una così importante sede istituzionale. Oggi il senato viene sottoposto ad un maquillage imbarazzante: rispetto al senato attuale (che – serve ricordarlo? – dovrebbe già essere eletto “a base regionale”, per esplicita prescrizione del vigente art. 57 Cost.), l’unico aspetto che dovrebbe segnare un mutamento che ne sottolinei il legame con le Regioni è la “contestualità” dell’elezione dei senatori e degli organi regionali. Spaventati da tanto ardire, i coraggiosi riformatori hanno però subito posticipato questo evento di almeno 5 anni, prevedendo, nelle disposizioni transitorie, che quando, dopo l’entrata in vigore della riforma, il Senato dovrà essere rieletto, lo si faccia contestualmente alla Camera: solo terminata quella legislatura, il Senato verrà rieletto contestualmente agli organi regionali (che pertanto verranno “conseguentemente sciolti”). Questa poi resterà la regola: l’art. 60, commi 3 e 4[9], infatti, precisa che il Senato è eletto sempre per cinque anni e che la legge regolerà la durata in carica dei consigli regionali in modo che, anche se sciolti anticipatamente, la loro elezione sia sempre contestuale a quella del Senato. Il fatto è molto significativo, perché la “dignità” del Senato è preservata – si ritiene - solo mantenendo la sua elezione fissa (e possibilmente legata a quella della Camera, se questa non subirà scioglimenti anticipati) e, di conseguenza, adattando ai ritmi della politica nazionale i ritmi degli organi regionali, che non possono eguagliare la “dignità” del parlamento: davvero un’ottima dimostrazione di spirito federalistico!

Così tanto è sentita la vocazione federale del Senato che si mantengono fermi sia il divieto del mandato imperativo (per cui anche i senatori “contestuali” in realtà non rappresentano la Regione, ma “la Nazione e la Repubblica”: art. 67), sia le componenti del Senato che non c’entrano nulla con la rappresentanza territoriale, cioè i senatori a vita (art. 59) e soprattutto i senatori eletti nelle circoscrizioni estere (art. 57.2). Così avremo che, accanto al senatore della Valle d’Aosta, ai due del Molise e a quelli via via più numerosi delle altre Regioni, siederanno, per esempio, un paio di senatori in rappresentanza del centro e nord America ed un altro in rappresentanza di Africa, Asia, Oceania e Antartide. Come si concilia l’intrinseca comicità di tutto ciò con l’austera dignità che si addice al Senato?

 

b) Una seconda innovazione che dovrebbe marcare il legame dei senatori con il “territorio” è la sorprendente norma del nuovo art. 58 che limita la possibilità di essere eletti al Senato ai notabili che “hanno ricoperto o ricoprono cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno della Regione, o sono stati eletti senatori o deputati nella Regione o risiedono nella Regione alla data di indizione delle elezioni”. Più che dei problemi della rappresentanza territoriale, questa norma si fa carico del grave problema sociale di come assicurare un’occupazione adeguata al ceto politico, comprensivo di quegli amministratori locali che sono colpiti dal rigido (e un po’ irragionevole) divieto di superare i due mandati. Anche questa norma non è priva di un aspetto umoristico, perché cerca di affrontare il problema ben noto dei senatori eletti in collegi con i quali non avevano avuto in precedenza alcun particolare rapporto (si ricordi il caso del sen. Di Pietro eletto nel Mugello): ma il fatto stesso di esservi stati eletti si è deciso che possa giustificare che essi siano chiamati ad assicurare la “rappresentanza territoriale” della regione.

 

c) Agli autori della riforma non deve essere sfuggito che, in fondo, essa non avvicina di un millimetro le Regioni al Parlamento: infatti, perché altrimenti si sarebbe dovuta sentire la necessità di introdurre una norma che prevede che il regolamento del Senato federale disciplini una procedura – chissà quanto dispendiosa, in termini di tempo - di acquisizione del parere, sui disegni di legge, di ogniConsiglio o Assemblea regionale…, sentito il Consiglio delle autonomie locali”? e perché si sarebbe dovuto prevedere che “i Presidenti delle Giunte regionali ed i Presidenti dei Consigli regionali devono essere sentiti, ogni volta che lo richiedono” dal Senato, e i senatori “devono essere sentiti, ogni volta che lo richiedono, dai Consigli regionali della Regione in cui sono stati eletti” (così l’ultimo comma del “nuovo” art. 57)?

Ma se questo nuovo Senato così poco sembra mutato da quello attuale, appare davvero singolare attribuirgli ruoli quasi arbitrali, come quello, assegnatogli dal “nuovo” art. 127, che ne fa il giudice delle questioni attinenti al conflitto di interessi tra Stato e Regione e di “tutore” dell’interesse nazionale. Se il Senato rappresentasse realmente gli interessi delle Regioni, non sarebbe affatto un giudice “terzo”: ma, siccome rappresenta soltanto se stesso, per quale ragione deve essere chiamato a giudicare di questi conflitti? Quali maggiori garanzie avrebbero le Regioni rispetto, per esempio, ad un analogo giudizio affidato alla Camera? Tutto il disegno di legge si basa su questo equivoco, cioè che il Senato sia “federale” non solo di nome, ma anche per il suo specifico ruolo istituzionale e per la sua composizione. Ma così non è, perché di “federale” il Senato non ha proprio nulla, oltre al nome.

 

d) Meglio sarebbe stato se la riforma, invece di escogitare soluzioni inqualificabili di riforma del Senato, avesse preso atto che essa è impossibile o inopportuna e si fosse preoccupata di rafforzare, tuttavia, le altre possibili sedi istituzionali di cooperazione tra Stato e Regioni. Oltretutto il problema del coordinamento e della cooperazione non si risolve affatto nel momento legislativo. Sicuramente è indispensabile che le leggi dello Stato che interferiscono nelle attribuzioni legislative, amministrative e finanziarie delle Regioni ottengano il consenso di chi rappresenta le regioni: ciò vale per tutte le leggi che incidono sulle materie “trasversali” riservate alla legislazione esclusiva dello Stato (“livelli essenziali”, “funzioni fondamentali”, “ambiente” ecc.), e per tutte le leggi di “principio” nelle materie concorrenti; ma ciò vale anche per la legge finanziaria e i suoi collegati, nonché per la legge “comunitaria”.

Ma accanto alla cooperazione sul piano della legislazione, la maggior parte del coordinamento ha contenuto necessariamente amministrativo. Non è pensabile infatti che il problema della fissazione dei livelli essenziali delle cure termali, la “determinazione delle modalità di assegnazione delle risorse derivanti dal pagamento degli oneri supplementari a carico dei mezzi d'opera agli enti proprietari di strade” o il “riparto tra le Regioni e le Province autonome delle risorse previste per gli interventi di prevenzione e difesa dagli incendi del patrimonio boschivo nazionale” (cito a caso dall’o.d.g. della Conferenza Stato-Regioni) sia affrontato da una Camera legislativa e risolto in forma di legge. Qui sono anzitutto le burocrazie a dover istruire le decisioni e gli esecutivi a trattare ciò che ha rilevanza. In ciò si esaurisce buona parte delle attività, per esempio, del Bundesrat in Germania: ed è questo il compito che viene attualmente espletato dal sistema delle Conferenze in Italia.

Solo una cattiva semplificazione del discorso porta a considerare il Bundesrat tedesco come una seconda Camera. Non è affatto vero: il Bundesrat è un organo che, sin dalle sue origini ottocentesche, sta a sé: nessuna ambizione di essere un ramo del Parlamento, nessuna investitura democratica dei suoi componenti, se non quella che deriva dall’essere membro di un governo regionale; i ministri regionali che lo compongono rappresentano esclusivamente gli interessi del Land cui appartengono e che concorrono a governare. Il Bundesrat partecipa alla formazione delle leggi, di una certa quota di leggi, ma non è affatto un “Senato” nel senso nostro.

Qualcosa del genere in Italia già c’è, e si chiama Conferenza dei Presidenti delle regioni, che a sua volta concorre a comporre un altro organo, previsto dalle leggi dello Stato, di coordinamento dei governi delle regioni e del governo nazionale, la Conferenza Stato-regioni. Allora, se davvero volessimo risolvere quella che, a detta di tutti, è la madre di tutti i problemi del regionalismo in Italia – l’assenza di efficienti sedi istituzionali della “leale cooperazione” - non è indispensabile intraprendere la difficile e sproporzionata strada della riforma del Parlamento. Basterebbe introdurre in costituzione la previsione che sia istituita la Conferenza dei Presidenti delle regioni e che una serie di atti (tra cui anche i disegni di legge governativi che incidono sugli interessi regionali) devono essere sottoposti al suo parere. Poche regole procedurali sulla formazione delle leggi, insomma, e avremmo risolto il problema con una soluzione semplice, a basso costo ed alta efficacia, senza dover incidere sulla complicata mitologia delle istituzioni rappresentative.

 

4. Oltre al c.d. Senato federale, altri aspetti importanti della riforma toccano le Regioni e meritano qualche considerazione:

 

a) Merita plauso la proposta di introdurre nell’art. 116, nel procedimento di approvazione degli Statuti delle regioni speciali, il principio dell’intesa. Oggi che le regioni ordinarie hanno ottenuto una vasta autonomia statutaria, non è ammissibile che le regioni speciali continuino a dipendere dal Parlamento nazionale per le loro scelte statutarie. Per mantenere, da un lato, il necessario status costituzionale degli statuti speciali e preservare, dall’altro, un margine apprezzabile di autonomia decisionale, è bene che il procedimento di formazione degli statuti sia in qualche modo “concordato” e si inserisca l’intesa all’inizio del procedimento di formazione della legge costituzionale di approvazione dello Statuto.

 

b) Del tutto ingiustificata è invece l’attribuzione dell’aggettivo “esclusiva” alla competenza legislativa residuale delle regioni ordinarie, disciplinata dall’art. 117.4. Come è a tutti evidente, tale aggettivazione non cambierebbe di un millimetro i limiti attuali della potestà legislativa regionale, restando essa inevitabilmente (e giustamente) soggetta ad una serie di condizionamenti derivanti dalla legislazione “esclusiva” dello Stato nelle c.d. “materie trasversali” (livelli essenziali, tutela della concorrenza, ambiente ecc.). Bene farebbe il legislatore costituzionale ad intervenire precisando alcune di queste “etichette” e, forse, restringendole un po’ (penso in particolare a “ordinamento civile e penale”), così come bene farebbe a includere una elencazione esemplificativa delle materie “residuali”. Ma non ha senso che a questo si adoperi elencando “materie” che sono già attribuite alla potestà “residuale” del legislatore regionale, quali l’assistenza e l’organizzazione sanitaria, la polizia locale ecc. Per chiarire gli eventuali dubbi, basterebbe che il parlamento emanasse delle leggi che delimitano le attribuzioni dello Stato e che il governo smettesse di impugnare ciecamente ogni legge regionale che, a suo dire, esorbiterebbe da competenze che esso interpretata nel modo più restrittivo possibile. Ben altre sono le zone davvero dubbie: per esempio, l’estensione di molte “materie” concorrenti, quali ‘governo del territorio’, ‘ordinamento della comunicazione’, ‘alimentazione’ ecc. Su questo poco felice elenco di “materie” non sarebbe male intervenire “per sottrazione”, cioè escludendo determinati oggetti o profili, da elencare perciò tra ciò che è attribuito alla competenza residuale. Ma l’elencazione proposta dal testo in commento non serve proprio a nulla.

 

c) Analogamente, è difficile capire che cosa servano altre disposizioni del testo proposto. Così è per la modifica dell’art. 118, che modifica ed estende le materie per cui è previsto che la legge dello Stato disciplini forme di coordinamento con le Regioni. Il testo attualmente vigente si riferisce a materie di competenza esclusiva dello Stato (immigrazione e ordine pubblico, oltre alla tutela dei beni culturali), e la norma serve per “preparare” un certo ruolo delle regioni in tali materie. Nella proposta di riforma si aggiungono alcune materie “concorrenti”, su cui la legge dello Stato ha già il compito di stabilire i “princìpi” (e perciò anche adeguate forme di coordinamento). Che cosa si pensa di cambiare? Soprattutto, perché non si pensa invece ad inserire ciò che nella riforma del 2001 manca del tutto, e ne costituisce perciò il difetto più grave: cioè una disciplina generale, equilibrata, del coordinamento e della leale cooperazione? Questo tema rimanda a quanto già è stato sottolineato nel paragrafo precedente, in relazione al ruolo della Conferenza dei Presidenti.

 

d) Non meno difficile è intendere l’obiettivo che ci si propone con la modifica dell’art. 120, in cui si vorrebbe introdurre un comma che rinvia ad una legge rinforzata la disciplina di “princìpi che assicurino il conseguimento delle finalità di cui al comma successivo”, comma in cui si disciplina il potere sostitutivo. A parte l’uso della lingua (come si faccia ad assicurare il conseguimento di finalità disciplinando dei principi mi è francamente misterioso), quali sono le finalità del controllo sostitutivo? Ci riferisce alle procedure, che devono essere ispirate ai principi di sussidiarietà e di leale collaborazione (ma lo dice già l’ultimo comma, ponendo una riserva di legge “semplice”), oppure all’efficienza del controllo, oppure ancora alle ipotesi che fanno scattare il controllo stesso (per esempio la tutela dell’unità giuridica ed economica, che avrebbe in effetti bisogno di essere precisata)? Non riesco a trovare una risposta al quesito.

 

e) Del tutto chiaro è invece che cosa si intende conseguire con la nuova modifica dell’art. 126: la rottura del principio del simul stabunt, simul cadent, per escludere lo scioglimento automatico del Consiglio regionale in caso di morte o impedimento grave del Presidente della Giunta regionale. La norma trova ampio consenso e, se tenuta in questi rigorosi termini, non provoca grandi conseguenze (i Presidenti delle regioni godono in genere di ottima salute): a parte gli eventi naturali, resta fermo il principio che se il presidente deve essere eletto direttamente dai cittadini, per nessuna (altra) ragione il Consiglio regionale può interporsi e sovrapporre la propria scelta, “scippando” i cittadini di un potere che non si ha il coraggio di negare loro esplicitamente prevedendo in Statuto che il presidente sia eletto dal Consiglio, anziché dagli elettori. L’unico rischio è che i compiacenti consulenti delle forze politiche regionali interessate rincomincino a percorre i sentieri avventurosi dell’interpretazione per allargare a dismisura il concetto di ‘impedimento’ (e se fosse un impedimento “giuridico”, per esempio il maturare di una causa di incompatibilità dovuta, per ipotesi, all’accettazione di una carica ministeriale?).

Grave è invece che il “riformatore costituzionale” pensi di imporre questa scelta anche a quelle Regioni che avessero nel frattempo approvato il loro Statuto applicando fino in fondo la regola del simul… simul…Le norme transitorie della proposta riforma vorrebbero addirittura emendare la norma transitoria della legge cost. 1/1999, quella che disciplina la “forma di governo” a sua volta transitoria, in modo che anche nelle regioni che avessero adottato il proprio Statuto operi da subito l’eccezione che si vuole introdurre, come se ci fossero ragioni così importanti e urgenti di provvedere in tal senso.

 

f) Un’ultima nota critica merita anche la norma transitoria (art. 38, commi 6 e 7) che vorrebbe consentire, nei cinque anni successivi alla data di entrata in vigore della riforma costituzionale, di formare nuove Regioni, con un minimo di un milione di abitanti; lo strumento sono delle leggi costituzionali a cui non si applicano le procedure richieste dal primo comma dell’articolo 132 Cost., fermo però restando l’obbligo di sentire le popolazioni interessate: ma “le popolazioni interessate” sarebbero costituite solo dai cittadini residenti nei comuni o nelle province di cui si propone il distacco dalla regione. Non può sfuggire dunque il favor per le spinte secessioniste. Ma non si è ripetuto per anni che le regioni italiane sono già troppe e troppo piccole? E non si doveva evitare la moltiplicazione delle strutture pubbliche e delle spese conseguenti? Che senso ha oggi in Italia rinfocolare lo spirito campanilistico e ridisegnare una mappa delle regioni che, inventata di sana pianta, ci ha messo tanto a farsi percepire e accettare dalla collettività?

 

5. Qualche osservazione finale meritano le norme che riguardano il Consiglio superiore della magistratura e la Corte costituzionale. È davvero paradossale che il legislatore, che non riesce a risolvere il problema più importante dell’assetto regionale, quello di riformare se stesso in senso federale, e non riesce ad escogitare nulla di più serio di quella deforme creatura che il proposto “Senato federale”, si preoccupi invece di riformare in modo rigorosamente “federale” il Consiglio superiore della magistratura e la Corte costituzionale.

Quanto al primo, dato che l’art. 117.2 continuerebbe ad escludere con nettezza le regioni da ogni interferenza con la giurisdizione, non si capisce per quale arcana ragione invece si vorrebbe, nell’art. 104, che fosse il Senato federale, per di più integrato dai presidenti delle regioni, ad eleggerne i componenti laici. Che interesse possono manifestare le regioni al funzionamento dell’organo che governa la magistratura, visto che con essa non hanno né possono avere rapporti istituzionali?

Anche la Corte dovrebbe vedere modificata la sua composizione, poiché ben sette membri su quindici verrebbero eletti dal Senato federale “integrato”. Qui le ragioni si capiscono bene: in un sistema federale è piuttosto normale che l’organo preposto a dirimere i conflitti tra centro e periferia abbia una composizione simile a quella di un collegio arbitrale. Il problema è però che il Senato, come si è già detto, non rappresenta proprio nulla dell’elemento “federale”, e certo la sua integrazione con un esigua minoranza di presidenti regionali non cambierebbe affatto la sua condizione. Oltretutto, in un sistema che di federale non ha alcun segno distintivo, né alcuna traccia storica, e in cui la Corte costituzionale continua per lo più ad occuparsi dei diritti dei cittadini, forse sarebbe stato più sensato praticare una via più prudente, capace di conciliare ad un tempo il problema di preservare la “neutralità” della Corte con la sua efficienza. La soluzione possibile potrebbe essere quella di istituire, in seno alla Corte, una sezione, o un tribunale di primo grado per le controversie “federali”, formato in modo paritetico da giudici “statali” e giudici “regionali”, salvo la possibilità di appello alla Corte quando siano in questione diritti fondamentali.

Ma quello che si legge con chiarezza in filigrana è che al nostro “riformatore” non interessa granché di assicurare alle regioni un organo più “imparziale” rispetto ai conflitti che sorgono tra esse e lo Stato. La riprova la troviamo ancora nelle norme transitorie: mentre tutte le innovazioni più importanti, a partire da quella della nuova composizione “federale” del Senato, sono rinviate di una o più legislature, la modifica della composizione della Corte costituzionale (e del Consiglio superiore della magistratura) decorrono invece da subito: “in sede di prima applicazione della presente legge costituzionale – dispone l’art. 38.3 del progetto di riforma - il Senato federale della Repubblica nomina i giudici della Corte costituzionale di propria competenza alla scadenza di giudici già eletti dal Parlamento in seduta comune, ai sensi dell’articolo 135, primo comma, della Costituzione, vigente alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale, ed alle prime scadenze di un giudice già eletto dalla suprema magistratura ordinaria e di un giudice già nominato dal Presidente della Repubblica”. Ecco svelato il nobile obiettivo, che non è quello di “portare le Regioni alla Corte”, ma di aumentare da subito la percentuale dei giudici di nomina politica. Al Senato si appiccica da subito il titolo di “federale” senza neppure rivestirlo dell’indecente foglia di fico della nuova composizione: e da subito esso inizia a infornare giudici scelti dalle forze politiche al posto di quelli che attualmente verrebbero nominati dal Presidente della Repubblica o eletti dalle magistrature. Già, come dimenticare che la Corte costituzionale è rimasta un nido di comunisti?

 

6. Sono stato tra i pochi che hanno incrociato le dita sperando che il “progetto Bicamerale” fallisse, per le stesse ragioni per cui spero che fallisca quello attualmente in discussione. Non mi piace l’uso strumentale delle riforme costituzionali e sono profondamente contrario all’uso simbolico delle riforme quale surrogato alla soluzione semplice e diretta dei problemi. Perché le soluzioni ci sono, volendole trovare, e sono praticabili con strumenti assai meno “costosi” delle riforme costituzionali. Vorrei che qualcuno mi spiegasse quale dei problemi reali del sistema istituzionale italiano sarebbe risolto dalla riforma attualmente in discussione alle Camere. Vorrei che mi si dicesse quale problema effettivo verrebbe risolto con l’elezione diretta del “premier”, che cosa effettivamente cambierebbe rispetto ad ora. Vorrei che mi si dicesse quale dei problemi relativi alle relazioni tra Stato e regioni verrebbe risolto dall’attuale nuova riforma. E vorrei trovare qualcuno che avesse il coraggio di negare che larghissima parte dei problemi che effettivamente tormentano i rapporti tra Stato e regioni (causati per lo più dalla scrittura che con un eufemismo si potrebbe definire “affrettata” della riforma del 2001) non sarebbero bel che risolti da un atteggiamento meno ostruzionistico, centralistico e prepotente da parte di quello stesso governo che ha proposto il nuovo disegno di riforma “in senso federale” del Titolo V dopo aver già fatto passare (e poi insabbiato) la legge costituzionale sulla c.d. devolution. Serve davvero proclamare la “potestà legislativa esclusiva” delle regioni in materie sanitaria, scolastica o di polizia locale, o forse sarebbe bastato fare una legge ordinaria, concludere un’intesa con le regioni o anche semplicemente adottare un comportamento più comprensivo nei confronti del (per altro pigro) legislatore regionale? Quanti dei problemi lasciati aperti dalla riforma del 2001 hanno davvero bisogno di un nuovo intervento costituzionale e per quanti sarebbe sufficiente invece un legislatore ordinatorio più attento?

Le riforme costituzionali sono solo un alibi, un modo per fingere di affrontare con determinazione problemi che in realtà non si  vogliono risolvere davvero o non si è capaci di farlo (perché il precario equilibrio delle alleanze politiche non lo consente). Questo vale per questa maggioranza, ma è vero anche per quella che l’ha preceduta. Sarebbe bene riflettere su quale sia il risultato di una lunga stagione di riforme proposte, discusse e qualche volta approvate. Il saldo complessivo è che è stato screditato il valore della costituzione. Il sistema dello stato costituzionale di diritto si regge in base ad un sistema di presupposti la cui chiave di volta è la convinzione che se la Corte costituzionale dice che un determinato comportamento (sia una legge od un atto compiuto da qualcuna delle massime autorità politiche) è contrario alla costituzione, esso debba essere cancellato. La Corte costituzionale non ha armi, esercito o polizia a disposizione per rendere “esecutive” le proprie sentenze: esse sono eseguite spontaneamente dagli attori istituzionali perché prese in nome dell’autorità della costituzione. Incrinare l’autorità della costituzione, perciò, non è cosa da poco, che si rifletta soltanto sulla emotiva sensibilità di alcuni giuristi nostalgici. Significa esattamente questo: togliere, più o meno inconsapevolmente, la chiave di volta della costruzione, con gli esiti conseguenti. Le riforme avventate, scritte in modo sciatto e allusivo, poco “tecniche” e molto spregiudicate nel fissare “princìpi” rivoluzionari senza dotarli di alcuna strumentazione coerente; le riforme che si succedono con ritmi incalzanti, che incarnano non la “identità nazionale” e spesso neppure un indirizzo politico preciso, ma solo l’occasionale mediazione, un po’ truffaldina, tra interessi piccoli di piccoli politici, che pretendono di rimediare alle “lacune”, agli anacronismi e agli errori del testo originale senza valutare l’adeguatezza tecnica delle soluzioni apprestate; le riforme che prestano il fianco ad interpretazioni avventurose e a prassi applicative assolutamente devianti: tutte questi fenomeni, che da un po’ di anni si registrano in Italia, tendono a produrre un solo risultato, convincere la collettività che le regole costituzionali sono obsolete e inadeguate, che hanno perso autorità, e perciò che è bene liberare le mani della politica dai lacci del diritto, dalle regole, dal controllo democratico sul rispetto delle regole. Che la riforma in discussione abbia come suo unico risultato immediato di incidere nella composizione della Corte costituzionale nel senso di aumentarne l’influenza della politica non è dunque un caso. È proprio così che si esce dallo Stato di diritto.

 



* Prof.ord. di Diritto costituzionale – Università di Ferrara (bnb@unife.it)

[1] «L’insussistenza dei titoli o la sussistenza delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità dei parlamentari proclamati sono accertate con deliberazione adottata a maggioranza dei tre quinti dei componenti l’Assemblea della Camera dei deputati ed a maggioranza dei componenti l’Assemblea del Senato federale della Repubblica».

 

[2] «La legge disciplina l’elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo ministro.»

 

[3] «Non sono proposti né controfirmati dal Primo ministro o dai ministri i seguenti atti del Presidente della Repubblica: la richiesta di una nuova deliberazione alle Camere ai sensi dell’articolo 74, i messaggi alle Camere, la concessione della grazia, la nomina dei senatori a vita, la nomina dei giudici della Corte costituzionale di sua competenza, lo scioglimento della Camera dei deputati ai sensi degli articoli 92 e 94, la nomina del Vice Presidente del Consiglio superiore della magistratura nonché le nomine dei Presidenti delle autorità amministrative indipendenti e le altre nomine che la legge eventualmente attribuisca alla sua esclusiva responsabilità».

 

[4]   «Art. 94. – Il Primo ministro illustra il programma del Governo alle Camere entro dieci giorni dalla nomina. Ogni anno presenta il rapporto sulla sua attuazione e sullo stato del Paese.»

[5] «Egli può chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo. In caso di voto contrario, il Primo ministro rassegna le dimissioni e può chiedere lo scioglimento della Camera dei deputati. Si applica l’articolo 88.»

[6] «In qualsiasi momento la Camera dei deputati può obbligare il Primo ministro alle dimissioni, con l’approvazione di una mozione di sfiducia. La mozione di sfiducia deve essere firmata da almeno un quinto dei componenti della Camera dei deputati, deve essere votata per appello nominale e approvata dalla maggioranza assoluta dei componenti. In tal caso il Primo ministro sfiduciato si dimette e il Presidente della Repubblica decreta lo scioglimento della Camera dei deputati ed indíce le elezioni».

[7]  «Art. 88. – Il Presidente della Repubblica, su richiesta del Primo ministro, che ne assume la esclusiva responsabilità, ovvero nei casi di cui agli articoli 92, quarto comma, e 94, decreta lo scioglimento della Camera dei deputati ed indice le elezioni entro i successivi sessanta giorni.

     Il Presidente della Repubblica non emana il decreto di scioglimento richiesto dal Primo ministro nel caso in cui, entro dieci giorni da tale richiesta, venga presentata alla Camera dei deputati una mozione, sottoscritta dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si indichi il nome di un nuovo Primo ministro».

[8] « In caso di morte, di impedimento permanente, accertato secondo modalità fissate dalla legge, ovvero di dimissioni del Primo ministro per cause diverse da quelle di cui all’articolo 94, il Presidente della Repubblica nomina un nuovo Primo ministro indicato da una mozione, presentata entro quindici giorni dalla data di cessazione dalla carica, sottoscritta dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera dei deputati. Altrimenti, decreta lo scioglimento della Camera dei deputati ed indíce le elezioni».

 

[9] «Il Senato federale della repubblica è eletto per cinque anni.

    La legge, approvata ai sensi dell’articolo 70, terzo comma, stabilisce, nel caso di scioglimento dei Consigli in base all’articolo 126 o ad altra norma costituzionale, la durata della successiva legislatura regionale in modo da assicurare la contestualità di cui all’articolo 57, secondo comma».