Tra matrimonio e convivenza di fatto: un difficile esercizio di equilibrio

(nota a Corte cost. 166/1998)

Roberto Bin

(ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara)

 

1. La Corte riunisce in un unico giudizio due questioni assai diverse. La prima investe la compatibilità, con il principio di eguaglianza e con l’art. 30 Cost., della norma, tratta dall’art. 155, 4 c., cod.civ., che, in caso di separazione, riserva al coniuge affidatario la possibilità di ottenere l’assegnazione della abitazione nella casa familiare, con implicita esclusione, dunque, del convivente more uxorio. La seconda riguarda invece l’esclusione del convivente more uxorio dalla tutela processuale prevista per la separazione personale dei coniugi dagli artt. 706 ss. c.p.c., con particolare riferimento ai provvedimenti che riguardano i figli e l’assegnazione della casa: qui, pur richiamando anche gli artt. 3 e 30 Cost. (e, ad abundantiam, l’art. 2, nella parte in cui tutelerebbe il diritto all’abitazione), il giudice rimettente impernia la questione sull’art. 24, lamentando le minori garanzie processuali accordate al convivente more uxorio.

Due questioni sensibilmente diverse, dunque, che la Corte affronta con due motivazioni separate, benché connesse “per opposizione”, giungendo a due dispositivi divergenti. La connessione tra i due giudizi, facilitata dalla mancata costituzione delle parti con il conseguente procedimento in Camera di consiglio, si giustifica solo ratione materiae e per una comune premessa.

 

2. La premessa comune segna lo spartiacque tra le due regole che esprimono il bilanciamento degli interessi in relazione ai rapporti giuridici che sorgono dalla famiglia di fatto e dalla sua crisi. Le due regole potrebbero essere così riassunte:

a)     nel rapporto di coppia, la scelta tra il matrimonio e la mera convivenza è frutto della libera decisione dei partner, che possono scegliere o meno i diritti e i doveri inerenti al rapporto coniugale: qualsiasi applicazione “in via analogica” degli elementi caratteristici del regime coniugale alla convivenza di fatto “si potrebbe tradurre in una inammissibile violazione della libertà di scelta tra matrimonio e forme di convivenza” (punto 3 del “diritto”);

b)    nel rapporto tra genitori e figli, “il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine … identico essendo il contenuto dei doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri”; “la condizione giuridica dei genitori tra di loro, in relazione al vincolo coniugale, non può determinare una condizione deteriore per i figli” (ancora dal punto 3).

Insomma, nel rapporto di coppia la qualificazione giuridica del regime, liberamente scelto dalle parti, prevale, di regola, su le eventuali somiglianze tra il rapporto matrimoniale e quello di convivenza; nella filiazione, al contrario, l’interesse della prole, che certo non ha concorso alla scelta del regime giuridico che lega i genitori, prevale, di regola, su ogni differenziazione di regime prevista dal legislatore.

 

3. Le due questioni, riunite dalla Corte nello stesso giudizio, stanno su crinali opposti rispetto a questo spartiacque.

Riguardo alla tutela giudiziale, per lo scioglimento della convivenza non v’è un procedimento simmetrico a quello previsto per la separazione dei coniugi, né la Costituzione lo impone. La Corte l’aveva già affermato nelle sent. 23/1996, ora richiamata come precedente. Allora si discuteva della competenza a giudicare della revisione del contributo per il mantenimento del figlio, e la Corte disse, seguendo la giurisprudenza della Cassazione, che liti di questo tipo non coinvolgono direttamente il minore, ma si risolvono in una questione relativa ai rapporti patrimoniali tra i due ex-conviventi: siamo quindi sul versante dell’applicazione della regola sub a). È vero che in questo caso la questione prospettata è ben diversa, ma la Corte ritiene che il precedente rappresentato dalla sent. 23/1996 sia pertinente e sufficiente a pronunciare la manifesta infondatezza. In entrambi i casi il fulcro dell’argomentazione che la Corte impiega per negare la comparabilità del rapporto coniugale con quello di convivenza è dato dalla “volontà delle parti”, volontà di assumersi o meno onori e oneri del matrimonio: ciò distingue queste due sentenze dagli altri precedenti dell’annosa giurisprudenza costituzionale sulla famiglia di fatto, qui infatti non richiamati, che facevano leva su altri elementi che, di volta in volta, acquistavano rilievo secondo l’argomento trattato, come, per esempio, la stabilità e la certezza del rapporto di convivenza (cfr., tra le più recenti, le sentt. 127/1997, sul cumulo delle pensioni, e 2/1998, sulla sospensione dei termini di prescrizione).

L’altra questione, che riguarda invece l’assegnazione della casa familiare, coinvolgendo direttamente gli interessi del minore, si colloca interamente sul versante opposto, quello dominato dalla regola sub b), cioè dalla assoluta indifferenza del regime giuridico che lega i genitori. “La tutela dell’interesse della prole – afferma la Corte - rappresenta infatti la ratio in forza della quale il legislatore, prevedendo la disciplina circa l’assegnazione della casa familiare in sede di separazione dei coniugi, ha introdotto il criterio preferenziale, ancorché non assoluto, indicato dal quarto comma dell’art. 155 del cod. civ.Sotto questo profilo l’obbligo di mantenimento si sostanzia quindi nell’assicurare ai figli l’idoneità della dimora, intesa quale luogo di formazione e sviluppo della personalità psico-fisica dei medesimi; onde l’attuazione di detto dovere non può in alcun modo essere condizionata dalla assenza del vincolo coniugale tra i genitori, poiché la fonte dell’obbligo de quo agitur è unica, ma sufficiente: quella del rapporto di filiazione” (punto 4 del “diritto”). La premessa sembrerebbe condurre necessariamente ad una pronuncia di accoglimento: ma invece non è così, perché la Corte chiude con una classica decisione “interpretativa di rigetto”. Le argomentazioni impiegate meritano attenzione.

 

4. Il giudice remittente solleva la questione di legittimità perché ritiene di non poter aderire all’orientamento interpretativo che reputa estensibile in via analogica alla famiglia di fatto la disciplina che il codice detta per la famiglia legittima. Di ostacolo è il tenore letterale della disposizione in questione: si può forzare in via d’interpretazione una disposizione che si riferisce al “coniuge”, collocata nel capo dedicato allo “scioglimento del matrimonio e della separazione dei coniugi”, a sua volta inserito nel titolo VI “Del matrimonio”, estendendone la previsione al convivente more uxorio? È la stessa forza simbolica che promana dal codice civile a scoraggiare il giudice. E la Corte costituzionale gli dà ragione, sensibile anch’essa alla sedes materiae: “in effetti, attesa la collocazione della norma nel capo relativo allo scioglimento del matrimonio e alla separazione dei coniugi, correttamente viene escluso il ricorso all’analogia” (punto 3 del “diritto”).

È ovvio che non è solo la forza simbolica del codice civile a preoccupare la Corte, ma il timore che, accreditando un’interpretazione estensiva di anche una sola, limitata disposizione del capo V, si possa far franare l’argine che separa lo scioglimento del matrimonio dallo scioglimento della convivenza, e lasciar mano libera al dilagare dei procedimenti d’interpretazione analogica. Ed è altrettanto ovvio che l’assenso all’interpretazione analogica lo avrebbe espresso, non solo incoraggiando il giudice rimettente a seguire il filone interpretativo che egli dichiara di non condividere, ma anche, e ancor di più, accogliendo la questione prospettatale. Al di là della scelta del parametro costituzionale rispetto cui pronunciarla, l’eventuale dichiarazione di illegittimità si sarebbe dovuta basare su una argomentazione interamente condotta sulla base del principio di eguaglianza, e cioè attraverso un ragionamento analogico: se la ratio della norma sull’assegnazione della dimora è – come riconosce la Corte – esclusivamente ispirata alla tutela dell’interesse della prole, la limitazione della sua applicazione al matrimonio legittimo costituirebbe una irragionevole discriminazione a danno dei figli di genitori conviventi. Una volta aperto questo spiraglio, la porta non si sarebbe più richiusa, lasciando ai giudici la libertà di estendere le regole dello scioglimento del matrimonio alla convivenza ogni volta che entri in gioco l’interesse della prole (e forse un qualsiasi altro interesse meritevole di tutela).

Ecco allora la necessità di rafforzare l’argine che separa il matrimonio dalla convivenza, attraverso la ricostruzione dei motivi di differenziazione dei due regimi (lo spartiacque a cui ci si riferiva poc’anzi) e la ricerca di una terza via, che consenta di assicurare la tutela dell’interesse della prole senza forare l’argine.

 

5. La terza via è individuata nell’interpretazione sistematica e conforma a costituzione delle disposizioni del codice civile: ma, si badi bene, non dell’art. 155, né di alcun altra disposizione del capo V (altrimenti la Corte avrebbe dovuto cimentarsi nell’ardua impresa di spiegare le differenza tra l’analogia e l’interpretazione sistematica). Oggetto di lettura sistematica e, di conseguenza, di interpretazione estensiva sono invece altre disposizioni del codice: anzitutto quella che riguarda i doveri derivanti dal riconoscimento dei figli naturali (art. 261). Come sedes materiae, essa sta ad una tranquillizzante lontananza dal titolo sul matrimonio, anche se, attraverso il rinvio che vi si opera alle norme che regolano i doveri dei genitori nei confronti dei figli legittimi, le si ricollegano gli artt. 147 (doveri verso i figli) e 148 (concorso negli oneri).

L’operazione suggerita dalla Corte, quindi, è di non forzare, con gli strumenti dell’interpretazione, la nozione di ‘coniuge’, ma di espandere la categoria dei ‘doveri verso i figli’, sino a comprendervi l’obbligo di assicurare “l’idoneità della dimora, intesa quale luogo di formazione e sviluppo della personalità psico-fisica dei medesimi”. L’argine tra il matrimonio e la convivenza è salvo, anche se il risultato inevitabile è la svalutazione della portata normativa dell’art. 155: esso non servirebbe che ad esprimere una regola che – stando al ragionamento della Corte – è già implicita nel principio dell’obbligo di mantenimento. La tenuta di questo ragionamento è suscettibile, una volta tanto, di controprova: se non ci fosse l’espressa disposizione dell’art. 155, c. 4, il giudice potrebbe, attraverso il principio dell’obbligo di mantenimento, giungere egualmente all’assegnazione dell’abitazione al genitore affidatario? Se la risposta fosse positiva, il ragionamento mostrerebbe di reggere; altrimenti bisognerebbe concludere che la Corte ha solo mascherato con altri argomenti un ragionamento sostanzialmente basato sull’analogia (juris, non legis, se si è disposti ad accreditare questa distinzione).