La Corte si oppone all’uso politico del conflitto di attribuzioni

(nota alla sent. 101/1998)

Roberto Bin

 

Di recente le Regioni, ed alcune segnatamente, hanno fatto ricorso al conflitto di attribuzioni non tanto per difendere proprie specifiche attribuzioni, ma per esaltare il proprio ruolo di rappresentanza politica degli interessi economici locali. Soprattutto nell’agitato settore della zootecnia, la tentazione di impugnare la bandiera della protesta e di ergersi a capofila istituzionale di essa è stato particolarmente evidente: la vicenda delle quote-latte è emblematica. Ed è anche naturale che la Regione, ente istituzionale che gode di uno status costituzionale che gli altri enti locali non hanno, cerchi di valorizzare le prerogative di questo status per distinguere e rafforzare il proprio contributo nella difesa degli interessi locali. A tal fine anche il conflitto di attribuzione può risultare utile, perché mostra come la Regione possa portare la voce della protesta sino alla più alta istanza di risoluzione giuridica delle controversie, la Corte costituzionale.

Tutti sanno, naturalmente, che la Regione è legittimata ad agire per conflitto solo se dimostra il proprio interesse al ricorso, ossia l’attualità della lesione della propria sfera di competenza e l’idoneità del ricorso a ripristinare l’assetto costituzionale delle attribuzioni. Ma è stata la stessa Corte costituzionale ad aprire uno spiraglio per una prospettazione più ampia dei motivi di ricorso per conflitto. Mi riferisco alle sentenze che hanno fatto perno sulla qualificazione della Regione come “ente esponenziale” della comunità regionale.

Il più delle volte si è trattato di giustificare leggi che sembravano esulare dall’àmbito territoriale regionale: per esempio, la legge toscana che stanziava un contributo di solidarietà a favore del fondo regionale piemontese per la disoccupazione, e che la Corte ha fatto salva in nome della rappresentanza generale degli interessi[1]; oppure la legge ligure che finanziava gli organismi privati che sostengono, anche all’estero, l’attività a favore degli emigrati[2]. Ma vi sono anche precedenti più specifici: due su tutti.

Il primo si ritrova nella sent. 276/1991[3]: la Corte ha ammesso (e accolto) il ricorso della Regione Toscana contro la legge statale che prevedeva un privilegio per Venezia in relazione alla designazione di sedi italiane per organismi internazionali. In questo caso – ha detto la Corte – la Regione può vantare un interesse rilevante “al di là della salvaguardia della competenza legislativa regionale stabilita per territorio e per materia ai sensi dell’art. 117 Cost., e si ricollega alla natura della Regione di ente politico esponenziale della comunità regionale, il cui fondamento e la cui garanzia sostanziale di fronte allo Stato ed ai poteri del legislatore nazionale sta piuttosto nell’art. 5 Cost. stessa”. È vero che in questo caso veniva in ballo il c.d. “principio di eguaglianza delle Regioni”, per cui la “lesione” degli interessi regionali si poteva ricollegare direttamente alla lesione della par condicio: si potrebbe perciò dire che la Regione, agendo contro il privilegio concesso ad altre Regioni, difendeva direttamente la “sua” eguaglianza, e solo indirettamente gli interessi della comunità che rappresenta. Ma nel secondo precedente questo schermo non c’è più.

Con la sent. 72/1993[4], la Corte dichiarava ammissibile (e accoglieva) il ricorso sollevato – ancora una volta – dalla Regione Toscana contro il decreto ministeriale che, regolando gli interventi a favore dell’imprenditoria giovanile del Mezzogiorno, dimenticava di includervi le isole toscane, contraddicendo così la delimitazione territoriale stabilita per legge. Gli elementi di analogia con il caso in esame sono evidenti: siamo nella stessa sede, il conflitto di attribuzione; l’oggetto è, in entrambi i casi, un regolamento ministeriale che non sembra sfiorare le competenze regionali[5]; in entrambi i casi si lamenta anzitutto un vizio di legittimità del regolamento, per contrasto con fonti di grado superiore. Ma nel caso precedente la Corte non spende una parola né sulla legittimazione della Regione, né sull’uso improprio del conflitto per lamentare questioni che andrebbero discusse davanti al giudice amministrativo, né sull’individuazione delle attribuzioni costituzionali che verrebbero lese.

Nel caso attuale, invece, la Corte declina l’invito ad occuparsi dell’illegittimità del regolamento ministeriale, dichiarandosi disposta a considerare la sola ipotesi che dall’uso illegittimo del potere regolamentare – la cui attribuzione al Ministro non è peraltro contestata –derivi una lesione delle attribuzioni regionali; procede quindi all’esame delle attribuzioni che la Regione può vantare in materia di zooprofilassi, negando che esse possano riguardare anche gli interventi programmatori contro le epidemie e le epizoozie, interventi di cui il regolamento ministeriale (supposto illegittimo) è espressione. Dichiarato perciò infondato il ricorso per ciò che riguarda la lamentata lesione di attribuzioni in materia sanitaria, affronta l’altro versante dell’impugnazione regionale, quello più scopertamente “politico”: il regolamento ministeriale danneggerebbe il settore della produzione lattiero-casearia e della carne da macello in Lombardia, impedendo alla Regione di adottare i provvedimenti necessari per la ripresa e lo sviluppo del settore zootecnico, materia di sicura attribuzione regionale. Ma si tratta di un “impedimento” tutto politico, anche se conseguente ad un atto giuridico, forse giuridicamente viziato.

Quello che la Corte contesta è che una questione così formulata possa essere proposta in sede di conflitto di attribuzioni. Il conflitto “per interferenza” è prospettabile solo se ciò che ostacola l’esercizio delle attribuzioni regionali è un “impedimento” di carattere giuridico. L’obiettivo del conflitto è il ripristino dell’assetto costituzionale delle competenze, e questo è il risultato cui deve muovere il ricorso anche quando si lamenta non una sottrazione dell’attribuzione, ma un’illegittima interferenza nell’esercizio di essa. È in relazione a questo obiettivo che si valuta l’interesse al ricorso, per valutare il quale occorre chiedersi “se la decisione richiesta sia in sé congrua rispetto all’obiettivo astrattamente inteso del ripristino dell’ordine delle competenze[6]. Se sottoponessimo a questo test il conflitto proposto dalla Lombardia, l’esito sarebbe negativo: se la Corte risolvesse il conflitto a favore della ricorrente, annullando conseguentemente il regolamento governativo, non avremmo affatto un ripristino dell’ordine costituzionale delle competenze ma, semmai, la rimozione di un ostacolo ad una migliore competitività delle imprese lombarde e, come riflesso, alla possibilità per la Regione di poter intraprendere efficaci iniziative promozionali della produzione locale. Ma l’ordine costituzionale delle competenze che c’entra?

Certo si potrebbe dire che anche il ricorso della Toscana ricordato in precedenza avrebbe avuto poche speranze di superare il test. Quell’idea di uno “sviluppo economico della popolazione regionale… positivizzato nella dimensione processuale dell’interesse a ricorrere”, che si è creduto di poter leggere nella sent. 72/1993[7], non è esattamente ciò che sorregge ora il velleitario ricorso della Lombardia? Il fatto è che il ricorso toscano non è stato sottoposto ad alcun test stringente, e ciò anche per la ragione determinante che la Regione si è trovata senza contraddittore, non essendosi costituito il Presidente del Consiglio dei ministri. Ma immaginare di poter fondare su questo precedente la prospettiva di un radicale mutamento delle condizioni soggettive che legittimano il ricorso è un errore, e la reazione della Corte mi sembra più che prevedibile.

È evidente infatti che se davvero si ammettesse che la Regioni agisca per conflitto per difendere interessi economici della sua comunità dall’incisione derivante da qualsiasi atto illegittimo, cambierebbe radicalmente la funzione stessa del conflitto intersoggettivo. Esso non avrebbe più lo scopo di ripristinare l’ordine costituzionale delle competenze, ma diverrebbe il canale processuale attraverso il quale la Regione guadagnerebbe legittimazione processuale per promuovere l’azione di annullamento degli atti amministrativi che essa, per decisione politica, ritenesse lesivi degli interessi della comunità. Mentre i soggetti lesi direttamente dall’atto illegittimo potrebbero agire con gli strumenti giurisdizionali ordinari, la Regione - la cui richiesta di intervento in quei giudizi può incontrare difficoltà processuali insormontabili, proprio per carenza d’interesse - potrebbe manifestare la propria solidarietà politica con i ricorrenti agendo a sua volta di fronte alla Corte costituzionale. Con la conseguenza, davvero paradossale, che il giudizio per conflitto di poteri finirebbe con distinguersi dall’ordinario giudizio di legittimità degli atti amministrativi non per il “tono costituzionale” delle attribuzioni in discussione, ma semplicemente per lo status costituzionale delle Regioni. Una prospettiva evidentemente insostenibile.

 



[1] Sent. 829/1988, in questa Rivista 1989, 1533 ss. (con nota di G. Pastori).

[2] Sent. 251/1993, in questa Rivista 1994, 496 ss. (con nota di G. Pastori).

[3] In questa Rivista 1992, 774 ss. (con note di F. Coccozza e L. Vandelli).

[4] In questa Rivista 1993, 1635 ss. (con nota di V. Baldini).

[5] È noto peraltro quanto sia difficile da racchiudere in schemi esplicativi precisi la giurisprudenza costituzionale a proposito dell’interesse a ricorrere delle Regioni contro regolamenti statali illegittimi ma non direttamente invasivi delle attribuzioni regionali: cfr. A. ANZON, “Cattivo esercizio” delle attribuzioni: effettiva invasività o mera illegittimità dell’atto?, in Giur.cost. 1991,  1860 ss.

[6] G. ZAGREBELSKY, Processo costituzionale, in Encicl.dir. XXXVI, 521 ss., 689 s.

[7] V. BALDINI, Interesse della popolazione e interesse a ricorrere della Regione: una conferma della Corte costituzionale, in questa Rivista 1993, 1636 ss., 1637.