Sentenza della Corte del 17 ottobre 1989, in causa 109/88, Handels

 

Nel procedimento 109/88, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, a norma dell' art . 177 del trattato CEE, dal "faglige voldgiftsret" ( tribunale arbitrale di categoria, Danimarca ) nella causa dinanzi ad esso pendente tra
Handels - og Kontorfunktionaerernes Forbund i Danmark
e
Dansk Arbejdsgiverforening, che agisce per conto della Danfoss,
domanda vertente sulla portata del principio della parità di trattamento tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile in materia di retribuzione,

LA CORTE,
composta dai signori O . Due, presidente, M . Zuleeg, presidente di sezione, T . Koopmans, R . Joliet, J.C . Moitinho de Almeida, G.C . Rodríguez Iglesias e M . Diez de Velasco, giudici,
avvocato generale : C.O . Lenz
cancelliere : H.A . Ruehl, amministratore principale
viste le osservazioni presentate :
- per la Handels - og Kontorfunktionaerernes Forbund i Danmark, dall' avv . L.S . Andersen,
- per la Dansk Arbejdsgiverforening, dall' avv . H . Werner,
- per la Commissione delle Comunità europee, dai suoi agenti sig . J . Currall e sig.na I . Langermann, membri del suo servizio giuridico,
- per il governo danese, dal suo agente sig . P . Vesterdorf, consigliere giuridico,
- per il governo britannico, dai suoi agenti sig.ra S.J . Hay e sig . D . Wyatt,
- per il governo italiano, dall' avvocato dello Stato P.G . Ferri,
- per il governo portoghese, dai suoi agenti sig . Fernandez e sig.ra Leitão,
vista la relazione d' udienza ed in seguito alla trattazione orale del 10 maggio 1989,
sentite le conclusioni dell' avvocato generale presentate all' udienza del 31 maggio 1989,
ha pronunciato la seguente
Sentenza

 

Motivazione della sentenza
1 Con ordinanza 12 ottobre 1987, pervenuta in cancelleria il 5 aprile 1988, il "faglige voldgiftsret" ( tribunale arbitrale di categoria ) ha sottoposto alla Corte, a norma dell' art . 177 del trattato CEE, diverse questioni pregiudiziali relative all' interpretazione della direttiva 75/117 del Consiglio del 10 febbraio 1975, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all' applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile ( GU L 45, pag . 19 ), in prosieguo : "la direttiva sulla parità delle retribuzioni ".

2 Tali questioni sono state sollevate nell' ambito di una controversia tra la Federazione degli impiegati di commercio, ossia la "Handels - og Kontorfunktionaerernes Forbund i Danmark" ( in prosieguo "Federazione degli impiegati "), e la Confederazione dei datori di lavoro, la "Dansk Arbejdsgiverforening" ( in prosieguo "Confederazione dei datori di lavoro "), che agisce per l' impresa Danfoss . La Federazione degli impiegati sostiene che la prassi salariale dell' impresa Danfoss comporta discriminazioni basate sul sesso e viola pertanto l' art . 1 della legge danese 5 maggio 1986, n . 237, che ha dato attuazione alla direttiva sulla parità delle retribuzioni .

3 La Danfoss corrisponde la stessa retribuzione base ai lavoratori inquadrati nello stesso livello retributivo . Facendo uso della facoltà di cui all' art . 9 del contratto collettivo concluso il 9 marzo 1983 tra la Confederazione dei datori di lavoro e la Federazione degli impiegati, essa concede tuttavia ai suoi dipendenti aumenti retributivi individuali calcolati in particolare in base alla loro flessibilità, alla loro formazione professionale e alla loro anzianità .
4 Nella causa principale, la Federazione degli impiegati aveva convenuto una prima volta la Danfoss dinanzi al tribunale arbitrale di categoria facendo valere il principio della parità di retribuzione a favore di due impiegate addette una al servizio di laboratorio e l' altra a quello di ricevimento e di spedizione in magazzino . A sostegno del suo ricorso, essa aveva fatto valere il fatto che nell' ambito di questi due livelli retributivi la retribuzione media di un lavoratore di sesso maschile era superiore a quella di un lavoratore di sesso femminile . Nel suo lodo del 16 aprile 1985, il tribunale arbitrale aveva tuttavia ritenuto, alla luce del numero limitato di lavoratori le cui retribuzioni erano state prese in considerazione, che la Federazione degli impiegati non avesse fornito la prova di una discriminazione . La Federazione degli impiegati ha quindi intentato un nuovo ricorso presentando statistiche più elaborate relative alle retribuzioni versate a 157 lavoratori tra il 1982 ed il 1986, statistiche dalle quali risulta che la retribuzione media corrisposta ai lavoratori di sesso maschile è superiore del 6,85% a quella corrisposta ai lavoratori di sesso femminile .

5 Stando così le cose, il tribunale arbitrale di categoria ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte una serie di questioni pregiudiziali relative all' interpretazione della direttiva sulla parità di retribuzione . Esse sono così formulate :
"1 a ) Supponendo che un lavoratore di sesso maschile e uno di sesso femminile compiano lo stesso lavoro o lavori dello stesso valore, si chiede alla Corte di decidere a chi ( datore di lavoro o lavoratore ) incomba l' onere di provare che la differenza di retribuzione fra i due lavoratori sia dovuta o non sia dovuta ad un motivo determinato dal sesso .
1 b ) Se sia in contrasto con la direttiva sulla parità di retribuzione corrispondere una retribuzione maggiore ai lavoratori di sesso maschile i quali compiono lo stesso lavoro o un lavoro dello stesso valore dei lavoratori di sesso femminile, unicamente secondo criteri soggettivi, ad esempio la flessibilità di un collaboratore .
2 a ) Se la direttiva osti a che a lavoratori di sesso diverso, i quali compiono lo stesso lavoro o lavori di valore uguale, a parte la retribuzione base pattuita, vengano corrisposti aumenti per anzianità, speciale preparazione, ecc .
2 b ) In caso di soluzione affermativa della questione 2 a ), si chiede come un' impresa, senza trasgredire la direttiva, possa operare una differenziazione di retribuzione tra i singoli collaboratori .
2 c ) Se la direttiva osti a che dei lavoratori di sesso diverso, i quali compiono lo stesso lavoro o lavori dello stesso valore, siano retribuiti in misura diversa a causa di una diversa preparazione professionale .
3 a ) Se un lavoratore od un' organizzazione di categoria, qualora documenti che un' impresa con molti dipendenti ( ad esempio, più di 100 ), i quali compiono un lavoro dello stesso genere o dello stesso valore, retribuisce in media le donne meno degli uomini, possa ritenere di aver provato che la direttiva è stata trasgredita .
3 b ) In caso di soluzione affermativa della questione 3 a ), se la conseguenza ne sia che i due gruppi di lavoratori ( uomini e donne ) devono avere in media la stessa retribuzione .
4 a ) Qualora sia accertato che la differenza di retribuzione per lo stesso lavoro è dovuta al fatto che i due lavoratori rientrano in due diversi contratti di lavoro, se ciò implichi che la direttiva non va applicata .
4 b ) Se nel valutare tale questione abbia rilievo il fatto che i due contratti di lavoro riguardino per intero o soprattutto lavoratori di sesso maschile in un caso e di sesso femminile nell' altro ".
6 Per una più ampia esposizione degli antefatti della causa principale, dello svolgimento del procedimento e delle osservazioni presentate dinanzi alla Corte si rinvia alla relazione d' udienza . Questi elementi del fascicolo sono richiamati solo nella misura necessaria alla comprensione del ragionamento della Corte .
Sul carattere di organo giurisdizionale del tribunale arbitrale di categoria

7 Per quanto riguarda la questione se il tribunale arbitrale di categoria costituisca un organo giurisdizionale di uno Stato membro ai sensi dell' art . 177 del trattato, bisogna sottolineare anzitutto che, ai sensi dell' art . 22 della legge danese 13 giugno 1973, n . 317, relativa alla giurisdizione del lavoro, le controversie tra le parti di contratti collettivi, in mancanza di disposizioni specifiche contenute in tali contratti, sono assoggettate alla procedura tipo adottata dalla Confederazione dei datori di lavoro e dalla Federazione degli impiegati . E' quindi un tribunale arbitrale che risolve la controversia in ultima istanza . Tale tribunale può essere adito da una delle parti : poco importa che l' altra vi si opponga . Ne deriva che la competenza del tribunale non dipende dall' accordo delle parti .

8 Bisogna rilevare poi che la stessa norma della legge sopramenzionata disciplina il modo in cui il tribunale deve essere composto, e specificamente il numero dei membri che devono essere nominati dalle parti ed il modo in cui deve essere designato l' arbitro principale in mancanza di accordo tra di esse . La composizione del tribunale arbitrale non è quindi lasciata alla libera decisione delle parti .

9 Stando così le cose, il tribunale arbitrale di categoria dev' essere considerato come un organo giurisdizionale di uno Stato membro ai sensi dell' art . 177 del trattato .

Sull' onere della prova (( questioni 1 a ) e 3 a ) ))
10 Dal fascicolo risulta che la controversia tra le parti nella causa principale trova origine nel fatto che il meccanismo degli aumenti individuali applicati alle retribuzioni base è applicato in modo tale che un lavoratore di sesso femminile si trova nell' impossibilità di identificare le cause di una disparità tra la sua retribuzione e quella di un lavoratore di sesso maschile che svolge lo stesso lavoro . Infatti, i lavoratori ignorano quali siano i criteri di aumento che sono applicati nei loro confronti e le relative modalità di applicazione . Essi hanno conoscenza solo dell' importo della loro retribuzione maggiorata, senza poter determinare l' incidenza che ha avuto ciascuno dei criteri di maggiorazione . Quanti rientrano in un determinato livello retributivo sono quindi nell' impossibilità di comparare le varie componenti della loro retribuzione con quelle della retribuzione dei loro colleghi che fanno parte dello stesso livello retributivo .

11 Stando così le cose, le questioni poste dal giudice nazionale devono essere intese nel senso che mirano ad accertare se la direttiva sulla parità delle retribuzioni vada interpretata nel senso che, qualora un' impresa applichi un sistema di retribuzione caratterizzato da una mancanza totale di trasparenza, il datore di lavoro ha l' onere di provare che la sua prassi salariale non è discriminatoria, ove il lavoratore di sesso femminile dimostri, rispetto a un numero relativamente elevato di lavoratori, che la retribuzione media dei lavoratori di sesso femminile è inferiore a quella dei lavoratori di sesso maschile .

12 A tal riguardo, bisogna innanzitutto ricordare che nella sentenza 30 giugno 1988 ( causa 318/86, Commissione / Francia, Racc . 1988, pag . 3559, punto 27 della motivazione ) la Corte ha censurato un sistema di assunzione caratterizzato da una mancanza di trasparenza in quanto incompatibile col principio della parità di accesso all' impiego, poiché tale mancanza di trasparenza impediva qualsiasi forma di controllo da parte dei giudici nazionali .

13 Bisogna sottolineare poi che, quando si ha a che fare con un meccanismo di aumenti di retribuzione individuali caratterizzato da una mancanza totale di trasparenza, i lavoratori di sesso femminile possono dimostrare una disparità solo tra retribuzioni medie . Essi sarebbero privati di qualsiasi mezzo efficace per far rispettare il principio della parità delle retribuzioni dinanzi al giudice nazionale se il fatto di fornire tale prova non avesse la conseguenza di imporre al datore di lavoro l' onere di dimostrare che la sua prassi salariale non è in realtà discriminatoria .

14 Va rilevato infine che, in base all' art . 6 della direttiva sulla parità delle retribuzioni, gli Stati membri devono adottare, in conformità alle loro situazioni nazionali e ai loro sistemi giuridici, i provvedimenti necessari per garantire l' applicazione del principio delle parità delle retribuzioni ed assicurarsi dell' esistenza di mezzi efficaci che consentano di provvedere all' osservanza di tale principio . L' intento di efficacia che in tal modo sottostà alla direttiva deve portare ad interpretare quest' ultima nel senso che comporta adeguamenti alle regole nazionali relative all' onere della prova nelle situazioni specifiche in cui tali adeguamenti sono indispensabili all' attuazione effettiva del principio di parità .

15 Per provare che la sua prassi salariale non sfavorisce sistematicamente i lavoratori di sesso femminile, il datore di lavoro dovrà indicare in che modo ha applicato i criteri di maggiorazione e sarà così indotto a rendere il suo sistema di retribuzione trasparente .

16 Stando così le cose, si debbono risolvere le questioni 1 a ) e 3 a ) dichiarando che la direttiva sulla parità delle retribuzioni va interpretata nel senso che, qualora un' impresa applichi un sistema di retribuzione caratterizzato da una totale mancanza di trasparenza, il datore di lavoro ha l' onere di provare che la sua prassi salariale non è discriminatoria, ove il lavoratore di sesso femminile dimostri, su un numero relativamente elevato di lavoratori, che la retribuzione media dei lavoratori di sesso femminile è inferiore a quella dei lavoratori di sesso maschile .
Sulla legittimità dei criteri di aumento di cui trattasi (( questioni 1 b ) e 2 a ) e c ) ))

17 Con tali questioni si domanda essenzialmente se la direttiva vada interpretata nel senso che, qualora risulti che l' applicazione di criteri di aumento quali la flessibilità, la formazione professionale o l' anzianità del lavoratore sfavorisce sistematicamente i lavoratori di sesso femminile, il datore di lavoro può nondimeno giustificare la loro utilizzazione e si intende accertare a quali condizioni può farlo . Per risolvere tale questione bisogna esaminare ciascuno dei criteri separatamente .

18 Per quanto riguarda, in primo luogo, il criterio della flessibilità, dal fascicolo non risulta chiaramente la portata che gli deve essere attribuita . All' udienza, la Confederazione dei datori di lavoro ha fatto presente che il fatto di essere disposti a lavorare ad orari differenti non giustificava, di per sé, un aumento di retribuzione . Essa ha indicato che per applicare il criterio della flessibilità, il datore di lavoro valuta globalmente la qualità del lavoro effettuato dai suoi dipendenti e tiene conto, a tal fine, in particolare del loro impegno sul lavoro, del loro senso d' iniziativa e del volume di lavoro svolto .

19 Stando così le cose, bisogna operare una distinzione a seconda che il criterio della flessibilità sia utilizzato per retribuire la qualità del lavoro svolto dal dipendente oppure per retribuire l' adattabilità del dipendente ad orari e luoghi di lavoro variabili .

20 Nel primo caso, il criterio della flessibilità è incontestabilmente del tutto neutro dal punto di vista del sesso . Quando esso porta a sfavorire sistematicamente i lavoratori di sesso femminile, ciò può avvenire solo perché il datore di lavoro l' ha applicato in modo abusivo . Non è concepibile, infatti, che la qualità del lavoro svolto da questi ultimi sia generalmente inferiore . Il datore di lavoro non può pertanto giustificare l' utilizzo del criterio della flessibilità, così inteso, qualora la sua applicazione si riveli sistematicamente sfavorevole alle donne .

21 Diversamente è nel secondo caso . Se inteso nel senso che comprende l' adattabilità del lavoratore ad orari e luoghi di lavoro variabili, il criterio della flessibilità può anche operare a danno dei lavoratori di sesso femminile, i quali, a causa di impegni casalinghi e familiari di cui hanno sovente la responsabilità, possono meno facilmente dei lavoratori di sesso maschile organizzare il loro orario di lavoro in modo flessibile .

22 Nella sentenza 13 maggio 1986 ( causa 170/84, Bilka, Racc . pag . 1607 ), la Corte ha considerato che la politica di un' impresa intesa a retribuire globalmente in misura maggiore i lavoratori a tempo pieno rispetto a quelli ad orario ridotto, esclusi da un regime pensionistico aziendale, poteva colpire un numero molto più elevato di donne che di uomini, in considerazione delle difficoltà che incontrano i lavoratori di sesso femminile a lavorare a tempo pieno . Essa ha tuttavia dichiarato che l' impresa poteva provare che la sua prassi salariale era determinata da fattori obiettivamente giustificati ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso e che, se vi riusciva, non sussisteva infrazione all' art . 119 del trattato . Tali considerazioni valgono anche nel caso di una prassi salariale che retribuisce specificamente l' adattabilità dei lavoratori ad orari e luoghi di lavoro variabili . Il datore di lavoro può quindi giustificare la remunerazione di una tale adattabilità dimostrando che quest' ultima riveste importanza per l' esecuzione di compiti specifici che sono affidati al lavoratore .

23 Per quanto riguarda, in secondo luogo, il criterio della formazione professionale, non è escluso che esso possa svolgere un ruolo a danno dei lavoratori di sesso femminile laddove questi ultimi abbiano avuto minori possibilità di acquisire una formazione professionale altrettanto avanzata rispetto a quella dei lavoratori di sesso maschile o abbiano utilizzato tali possibilità in misura minore . Tuttavia, alla luce delle considerazioni espresse nella sentenza 13 maggio 1986, sopramenzionata, il datore di lavoro può giustificare la remunerazione di una formazione professionale particolare dimostrando che tale formazione riveste importanza per l' esecuzione di compiti specifici che sono affidati al lavoratore .

24 Per quanto riguarda, in terzo luogo, il criterio dell' anzianità, non è neppure escluso che esso possa, come quello della formazione professionale, comportare un trattamento meno favorevole dei lavoratori di sesso femminile rispetto ai lavoratori di sesso maschile in quanto le donne sono entrate più recentemente sul mercato del lavoro rispetto agli uomini o subiscono più frequentemente un' interruzione di carriera . Tuttavia, poiché l' anzianità va di pari passo con l' esperienza e quest' ultima pone generalmente il lavoratore in grado di meglio svolgere le sue prestazioni, il datore di lavoro è libero di remunerarla senza dover dimostrare l' importanza che essa riveste per l' esecuzione dei compiti specifici che sono affidati al lavoratore .

25 Stando così le cose, le questioni 1 b ) e 2 a ) e c ) vanno risolte dichiarando che la direttiva sulla parità delle retribuzioni dev' essere interpretata nel senso che, quando risulta che l' applicazione di criteri di aumento quali la flessibilità, la formazione professionale o l' anzianità del lavoratore sfavorisce sistematicamente i lavoratori di sesso femminile :
- il datore di lavoro può giustificare il ricorso al criterio della flessibilità se esso viene inteso come attinente all' adattabilità ad orari e luoghi di lavoro variabili, dimostrando che tale adattabilità riveste importanza per l' esecuzione di compiti specifici che sono affidati al lavoratore, ma non se tale criterio viene inteso nel senso che si riferisce alla qualità del lavoro svolto dal lavoratore;
- il datore di lavoro può giustificare il ricorso al criterio della formazione professionale dimostrando che tale formazione riveste importanza per l' esecuzione dei compiti specifici che sono affidati al lavoratore;
- il datore di lavoro non deve particolarmente giustificare il ricorso al criterio dell' anzianità .

Sul modo in cui il datore di lavoro può legittimamente differenziare le retribuzioni dei suoi dipendenti (( questione 2 b ) ))
26 Dato che dalle soluzioni date alle questioni sulla legittimità dei criteri di aumento di cui trattasi (( questioni 1 b ) e 2 a ) e c ) )) è apparso chiaro come la legittimità di questi criteri di aumento dovesse essere valutata in diritto comunitario, la questione sul modo in cui il datore di lavoro può legittimamente differenziare la retribuzione dei suoi dipendenti (( questione 2 b ) )) diventa superflua .

Sull' incidenza dell' esistenza di due contratti collettivi distinti ( questione 4 )
27 Con tale questione, il giudice nazionale tende ad accertare se l' esistenza di due contratti collettivi distinti che si applicano, in sostanza, rispettivamente a lavoratori di sesso maschile e a lavoratori di sesso femminile abbia l' effetto di escludere l' applicazione della direttiva sulla parità delle retribuzioni .

28 A tal riguardo, bisogna notare che dalla stessa ordinanza di rinvio risulta che il contratto collettivo 9 marzo 1983, sopramenzionato, è il solo che viene in considerazione nel caso di specie . Le parti nella causa principale l' hanno del resto confermato dinanzi alla Corte all' udienza . Stando così le cose, non occorre risolvere la questione 4 sollevata dal giudice nazionale .

 

Decisione relativa alle spese

Sulle spese
29 Le spese sostenute dai governi danese, britannico, portoghese e italiano e dalla Commissione delle Comunità europee, che hanno presentato osservazioni alla Corte, non possono dar luogo a rifusione . Nei confronti delle parti nella causa principale, il presente procedimento ha il carattere di un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese .

 

Dispositivo

Per questi motivi,
LA CORTE,
pronunciandosi sulle questioni ad essa sottoposte dal tribunale arbitrale di categoria, con ordinanza 12 ottobre 1987, dichiara :
La direttiva 75/117 del Consiglio del 10 febbraio 1975, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all' applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, va interpretata nel senso che :
1 ) qualora un' impresa applichi un sistema di retribuzione caratterizzato da una mancanza totale di trasparenza, il datore di lavoro ha l' onere di provare che la sua prassi salariale non è discriminatoria, ove il lavoratore di sesso femminile dimostri, su un numero relativamente elevato di lavoratori, che la retribuzione media dei lavoratori di sesso femminile è inferiore a quella dei lavoratori di sesso maschile;
2 ) quando risulta che l' applicazione dei criteri di aumento quale la flessibilità, la formazione professionale o l' anzianità del lavoratore sfavorisce sistematicamente il lavoratore di sesso femminile :
- il datore di lavoro può giustificare il ricorso al criterio della flessibilità se esso viene inteso come attinente all' adattabilità ad orari e luoghi di lavoro variabili, dimostrando che tale adattabilità riveste importanza per l' esecuzione dei compiti specifici che sono affidati al lavoratore, ma non se tale criterio viene inteso nel senso che si riferisce alla qualità del lavoro svolto dal lavoratore;
- il datore di lavoro può giustificare il ricorso al criterio della formazione professionale dimostrando che tale formazione riveste importanza per l' esecuzione dei compiti specifici che sono affidati al lavoratore;
- il datore di lavoro non deve particolarmente giustificare il ricorso al criterio dell' anzianità .