CORSO MONOGRAFICO SPISA

 

I nuovi statuti regionali (aprile 2005)

 

VENERDI 29 aprile

 

“La potestà normativa regionale”

                                                                                                                                 Roberto Bin

 

 

 

1. Ero un po’ incerto su come interpretare le regole di ingaggio (ormai parliamo tutti come i marines), perché il tema della potestà normativa regionale sta in larghissima parte fuori degli statuti essendo essa definita in Costituzione. Negli statuti l’aspetto rilevante è essenzialmente la procedura legislativa e di produzione delle norme, ma questo tema rientra tra i compiti del collega successivo e di conseguenza non voglio invadere il suo campo.

Per cui ho pensato che possa essere utile affrontare alcuni equivoci che sono filtrati negli statuti (per colpa della dottrina, a mio parere), ma che possono essere chiariti solo se si affrontano alcuni nodi che stanno invece nel “nuovo” Titolo V. Ormai la giurisprudenza costituzionale ci ha dato dei chiarimenti importanti sull’interpretazione del Titolo V consentendoci di capire come funzionerà il sistema. Non parlo ad un pubblico di novizi, conosco circa metà della sala e quindi so a chi parlo: non inizierò quindi a raccontare la storia della riforma del 2001 e del rovesciamento dell’ordine delle competenze operato con la riscrittura dell’art. 117. Noi tutti sappiamo però che la lettura del 117 lascia aperti infiniti problemi interpretativi e che la sua interpretazione deve fare i conti con infiniti problemi di tenuta del “quadro”, del sistema.

L’idea che noi si possa avere una Repubblica in cui la funzione legislativa fa capo, per ciò che riguarda l’innovazione della disciplina, a 22 legislatori regionali e provinciali e non allo Stato è difficilmente accettabile fino in fondo, anche perché deve fare i conti con l’esperienza di una tradizione completamente contraria. Non può stupire perciò se la giurisprudenza della Corte in questi primi anni di applicazione del nuovo testo costituzionale abbia rimodellato il quadro costituzionale disattendendo le interpretazioni più spregiudicate della dottrina. Così però si decreta, se ce n’era bisogno, la dichiarazione di fallimento della riforma del 2001: perché, se la riforma del titolo V aveva come suo obiettivo quello di uscire da 30 anni di cerotti giurisprudenziali che tenevano faticosamente assieme l’originario disegno istituzionale, dalle belle forme geometri, ma, ahimè, non adeguato a contenere le dinamiche istituzionali di un sistema pluricentrico, il fatto che la revisione del titolo V abbia richiesto alla Corte di aprire un’altra scatola di cerotti e rabberciare il nuovo titolo V con nuove garze e nuove protesi per consentirne l’applicazione, dimostra che la missione, l’obiettivo che razionalmente, non politicamente, avrebbe dovuto assolvere la riforma del titolo V, è fallito.

Siamo nuovamente disancorati dalla sponda delle disposizioni costituzionali e stiamo navigando nuovamente in un mare complesso fatto di disposizioni legislative ordinarie, prassi politiche e amministrative, nonché di tanta giurisprudenza amministrativa e costituzionale. Il testo costituzionale non ci offre punti di riferimento molto sulla costa costituzionale e dobbiamo dotarci di bussole e di altri strumenti (che non mi avventuro a descrivere) che ci consentano di navigare con le indicazioni della giurisprudenza. Ora la giurisprudenza costituzionale sembra offrire una prima indicazione sorprendente ed interessante e cioè che la distinzione tra le competenze esclusive e quelle  concorrenti è una distinzione scolastica con bassa capacità operazionale. Non si fa molta strada distinguendo tra competenze esclusive e competenze concorrenti. Sappiamo perché, sappiamo che la ragione è il numero elevato di materie non materie, materie trasversali, materie funzioni, materie valore costituzionale: esse hanno in qualche modo sgretolato quello che sembrava essere un punto fermo, cioè la competenza esclusiva dello Stato nelle materie elencate.

 

2. Ma nell’elenco del II comma del 117 troviamo alcune, poche, materie “dure” e altre (molte) “molli”. Le materie “dure” sono quelle tipiche di uno stato centrale: la difesa, la politica estera, la cittadinanza, l’immigrazione e così via. Sono dure in parte perché sono autoreferenziali (chi dubita che spetti allo Stato disciplinare il sistema elettorale del Parlamento, per esempio?), in parte perché non sono state ancora affrontate dalla giurisprudenza: infatti, per esempio, l’“immigrazione” ha già perso la sua “durezza” non appena la Corte se ne è occupata (sent. 300/2005). Come mai?

Il problema è intrinseco alla tecnica del riparto delle competenze basato sugli elenchi di materie. La riforma costituzionale del 2001, pur proclamando il principio di sussidiarietà quale criterio di riparto delle funzioni amministrative (art. 118.1), per la potestà legislativa ripropone invece la tecnica dell’enumerazione delle materie: è una tecnica che già aveva funzionato male nell’esperienza precedente ed ora è destinata a funzionare ancora peggio, perché incontra qualche problema ulteriore.

Nel 1970, al momento dell’istituzione (tardiva) delle Regioni ordinarie, si comprese l’esigenza di riempire di contenuto le etichette che l’art. 117 utilizzava per definire le materie di competenza regionale: con le sole etichette astratte non si sarebbe potuto compiere un solo passo, e quindi si pensò di riempirle attraverso il trasferimento delle funzioni amministrative. Le “materie” assunsero un volto più preciso, acquisirono consistenza attraverso le varie fasi in cui si articolò il trasferimento delle funzioni dallo Stato alle Regioni. Fu un processo che non si risolse nel primo trasferimento del 1972, ma continuò con i trasferimenti operati dal d.P.R. 616/1977, poi i c.d. “decreti Bassanini”, nonché attraverso una continua ridefinizione operata dalla legislazione di settore. Il fatto stesso che il “riempimento” di contenuti delle materie sia stato un processo continuo è la migliore dimostrazione di quanto poco esse fossero di per sé capaci di definire i propri contenuti.

Questo processo di definizione delle materie di competenza legislativa attraverso il trasferimento delle funzioni amministrative non è stato però ripreso a seguito della riforma del Titolo V°: in parte ciò è dovuto alla convinzione che non fosse strettamente necessario, perché la riforma costituzionale era stata anticipata dal riordino compiuto dai decreti Bassanini (la riforma in senso federale “a Costituzione vigente”, com’era stata chiamata); in parte è la conseguenza di una scelta politica, operata da una maggioranza che si era opposta alla riforma costituzionale e non aveva un particolare intenzione di attuarla.

C’è poi un’altra difficoltà. Le materie del “vecchio” articolo 117 si legavano a specifiche strutture amministrative. Infatti, quando si trattava di compiere il trasferimento delle funzioni, erano le singole direzioni ministeriali ad iniziare la procedura con una ricognizione delle funzioni da loro concretamente esercitate e la conseguente selezione tra esse di quelle che si ritenevano trasferibili alle Regioni: le “competenze” venivano quindi trasferite – almeno in linea di principio - assieme alle strutture materiali, ai beni, alle dotazioni finanziarie, al personale. La “materia” smetteva perciò d’essere una idea astratta e si riempiva di oggetti concreti. Oggi, dopo la riforma, ciò non sarebbe in molto casi neppure possibile: sia nell’elenco delle competenze “esclusive” che in quello delle “concorrenti” ci troviamo molto spesso di fronte ad etichette dietro alle quali non c’è alcuna struttura ministeriale di riferimento; non esiste, per esempio, un Ministero dei “livelli essenziali” dell’”ordinamento civile”, del “governo del territorio”, delle “professioni”, della “tutela della concorrenza”, dell’ “alimentazione”. Sono tutte “materie” dietro le quali non emergono oggetti, beni, strutture, personale, dotazioni finanziarie, organizzazioni ministeriali centrali e periferiche: esse indicano piuttosto situazioni, obiettivi, valori, esigenze, tutte cose che non hanno “materialità”.

Da qui l’immediata reazione della dottrina, che ha cominciato sin da subito a distinguere tra “materie” e “non materie”, con riferimento a quelle etichette che in realtà indicano un obiettivo, compiti, scopi, punti di vista da cui considerare le tematiche sociali. La Corte costituzionale ha imboccato immediatamente la stessa strada, affermando chiaramente che non tutte le materie sono realmente delle materie: “non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell'art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come "materie" in senso stretto” (sent. 407/2002).

 

3. La distinzione tra “ambito materiale” e “materia” separa le etichette “vuote” da quelle che indicano contenuti tangibili, hanno un perimetro almeno astrattamente tracciabile, sono “contenitori” rispetto ai quali è – almeno in linea di principio – dichiarabile se una determinata competenza stia dentro o fuori. Il fatto è però che, in questi primi anni di giurisprudenza applicativa del nuovo assetto costituzionale, etichetta dopo etichetta, la Corte costituzionale ha polverizzato le materie, i “contenitori”.

Già dalla prima sentenza di questa serie, la sent. 282/2002, la Corte ha immediatamente segnato la strada, spiegando che i “livelli essenziali” non indicano “una "materia" in senso stretto”, ma “una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie”, quindi una “materia trasversale”. È poi seguito un intero filone di sentenze relative all’ambiente, inaugurato dalla sent. 407/2002, in cui la Corte ha precisato l’ambiente è una “non materia”, negando “che possa identificarsi una "materia" in senso tecnico, qualificabile come "tutela dell'ambiente", dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”. Ha anzi elevato l’ambiente a “"valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale”.

Sulla stessa falsariga è stata ricostruita la “tutela della concorrenza”, intesa nella sua “accezione dinamica”, che attribuisce allo Stato il titolo per disporre tutti gli interventi  che abbiano “rilevanza macroeconomica” (sent. 14/2004, 345/2004); e poi il “coordinamento della finanza pubblica” (414/2004), la “tutela dei beni culturali” (sent. 232/2005), lo “sviluppo della cultura” (sent. 307/2004), la “ricerca scientifica” (sent. 423/2004, 31/2005), il “coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale” (271/2005, sia pure implicitamente) e forse persino la “difesa” (sent. 431/2005). Del resto, come la Corte ha affermato in via generale (sent. 232/2005), “nelle materie in cui ha primario rilievo il profilo finalistico della disciplina, la coesistenza di competenze normative rappresenta la generalità dei casi”. E se è attraverso la prospettiva “teleologica”, “finalistica”, degli interessi che si procede dalla legge impugnata “verso” la materia di imputazione, è chiaro che diviene assai probabile scoprire in pressoché ogni materia il suo contenuto “finalistico”.

Mano a mano che la Corte ha dovuto affrontare l’interpretazione delle etichette del nuovo Titolo V°, e in particolare di quelle enumerate nel secondo comma, al fine di definire le competenze esclusive dello Stato, le “materie” denotate da quelle etichette si sono sgretolate, smaterializzate, dissolte in una quantità di specie geneticamente modificate nessuna delle quali mantiene le caratteristiche tipiche della “materia in senso stretto”.

 

4. La valenza “strategica” di questa giurisprudenza è duplice. Da un lato – dal lato delle Regioni – si è temuto che la “trasversalità” delle materie di competenza dello Stato fosse il cavallo di troia entro cui si nascondeva la supremazia dell’interesse nazionale: la liquefazione delle materie non è predicata per togliere solidità alle competenze dello Stato, ma semplicemente perché ciò che è liquido penetra più facilmente di ciò che è solido; liquefare i limiti della competenza statale consente perciò al legislatore dello Stati di infiltrarsi nelle competenze regionali ogni qual volta possa accampare esigenze riferibili all’interesse nazionale, esercitando competenze legislative - e spesso anche amministrative – che gli sarebbero precluse da un’interpretazione rigorosa delle “materie” enumerate.

In ciò vi è una parte di verità: si spiega così perché il riconoscimento di “materie residuali” sia nella giurisprudenza costituzionale tutt’altro che frequente: se ne parla a proposito del “commercio” (sent. 1/2004), dell’ “istruzione e formazione professionale” (sent. 50 e 51/2005), degli incentivi alle imprese (purché di scarso valore: sent. 77/2005), dell’ordinamento delle Comunità montane (sent. 456/2005), delle “politiche sociali” (sent. 287/2004, 50/2005, 219/2005, 432/2005) e, ovviamente, dell’impiego regionale (sent. 380/2004). Il resto è ben poca cosa, per lo più spezzoni di materie, singole funzioni o compiti. L’individuazione della competenza residuale della Regione avviene con l’impiego della “tecnica del carciofo”, ossia attraverso la progressiva eliminazione delle “foglie” su cui si appuntano interessi ascrivibili allo Stato (un buon esempio di questa tecnica lo si può trovare nella sent. 77/2005, in cui la Corte elimina una ad una tutte le possibili “materie” che avrebbero potuto giustificare l’intervento dello Stato; un altro nella sent. 336/2005, a proposito delle reti di comunicazione elettronica).

D’altra parte, quale diversa strategia potrebbe essere impiegata per saggiare la “residualità”? Ma anche quando si sia accertata la residualità della materia, occorre verificare la “tenuta” della competenza regionale di fronte a tutti gli interessi che lo Stato può e deve tutelare agendo attraverso le sue materie “liquide”. Se fossimo davvero così saggi da imparare dai nostri errori, tutto ciò dovrebbe renderci edotti immediatamente della assoluta inutilità di introdurre una norma costituzionale – come quella prevista dalla c.d. “devolution” - che sancisca il riconoscimento alle Regioni di competenze “esclusive”, per esempio, in materia di assistenza sanitaria, istruzione, ordine pubblico: a parte il fatto che queste competenze le Regioni già ce le hanno – ma è il Governo a non lasciargliele esercitare – esse dovrebbero comunque fare i conti con le competenze trasversali dello Stato. Cercare di “enumerare” le materie residuali è, del resto, logicamente impossibile: si può cercare al più di compiere una ricognizione delle “materie” storiche che risultano residuali in quanto non più sussumibili negli elenchi del secondo e terzo comma dell’art. 117, traendo qualche indicazione senz’altro utile per orientare gli operatori, ma, come ha affermato la Corte costituzionale già nella sent. 282/2002, l’individuazione del legislatore competente deve prendere le mosse “non tanto dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell'intervento regionale, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale”. Come dire, non è la determinazione di ciò che appartiene alla residualità il punto da cui deve partire l’interprete, che deve invece interessarsi prioritariamente della definizione delle materie “esclusive” o “concorrenti”.

 

5. Ma vi è anche un altro lato. Il processo di “sgretolamento” o di “smaterializzazione” delle competenze esclusive dello Stato produce conseguenze che possono operare non solo a favore dello Stato, ma anche nel senso di ampliare le competenze legislative regionali. Se le competenze esclusive dello Stato, una volta liquefatte, possono più facilmente penetrare nelle materie regionali, è anche vero che si innesca un processo osmotico bidirezionale. Se l’ambiente, la tutela della concorrenza, la tutela dei beni culturali, la ricerca scientifica sono “valori” costituzionali, essi impegnano non solo lo Stato, ma anche le Regioni: sono obiettivi che si impongono e debbono essere perseguiti anche dalle legislazione regionale. Le “materie trasversali” portano lo Stato a “invadere” ambiti materiali regionali, ma consentono altresì alle Regioni, muovendo dalle attribuzioni loro riconosciute dalla Costituzione, di emanare leggi che oltrepassano la membrana che avvolge le competenze statali, anche se esse sono definite “esclusive”. Il che vuol semplicemente dire che quelle competenze non sono più esclusive.

Ma se le competenze definite “esclusive” dall’art. 117 tali più non sono, che cosa sono diventate? Qualcosa che molto assomiglia alla competenza concorrente, mi pare. La competenza concorrente tende dunque ad allargarsi a buona parte delle materie: infatti, se dall’elenco del secondo comma dell’art. 117 togliamo, da un lato, le materie che la Corte ha già  dichiarato essere “trasversali” o “non-materie” e, dall’altro, le materie che sono indicate con una definizione ricorsiva che ne limita il campo alle sole funzioni in esse comprese che siano riferibili allo Stato (“politica estera e rapporti internazionali dello Stato”; “rapporti dello Stato con l'Unione europea”; “sicurezza dello Stato”; “sistema tributario e contabile dello Stato”; “organi dello Stato e relative leggi elettorali”; “ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici”; ecc.) non resta davvero molto. Al contrario, l’area in cui si può svolgere la concorrenza tra legge statale e legge regionale si estende a dismisura.

Ciò produce un risultato che, paradossalmente, è tanto inatteso quanto prevedibile: ossia il livellamento delle tipologie di potestà legislativa assegnate dalla Costituzione. Come era avvenuto del vecchio 117, anche nell’interpretazione del nuovo testo si inizia a registrare perciò un processo di “appiattimento” dei diversi livelli di potestà legislativa. In passato, come è ben noto, questo fenomeno aveva portato, sotto il peso imponente dell’interesse nazionale e delle sue varie incarnazioni, allo schiacciamento della potestà concorrente su quella di attuazione, che però si era enormemente dilatata per opera delle tante macro- o micro-deleghe conferite dallo Stato. Oggi invece il piano su così sembra avverarsi l’appiattimento delle potestà legislative è quello della competenza concorrente, a cui sembra progressivamente avvicinarsi la potestà esclusiva dello Stato, non meno della potestà “residuale” delle regioni.

Non ne darei la colpa alla Corte costituzionale, ma semmai al legislatore costituzionale che ha proceduto alla revisione costituzionale del 2001 badando più ai simboli che ai problemi, più alla forza evocative delle parole e dei princìpi da “costituzionalizzare” che all’analisi dei problemi “tecnici” che trent’anni di applicazione del vecchio Titolo V° avevano evidenziato. La Corte costituzionale sta cercando di riportare a razionalità il sistema, laddove ‘razionalità’, se applicata alle istituzioni, significa anzitutto ‘funzionalità’. Percorre quindi la stessa strada che aveva tracciato nella sua precedente giurisprudenza: sentenza dopo sentenza, con tutte le difficoltà e le incertezza che sono inevitabili, sta fissando i “paletti” che devono assestare l’interpretazione del nuovo testo costituzionale renderne prevedibili i risultati.

Molte sentenze della Corte sono ancora delle sorprese, è vero, ma ci devono spingere a concorrere a solidificare il magma della riforma e a segnarne con più chiarezza i percorsi interpretativi delineati dalla Corte. Qualche punto fermo a me sembra sia già possibile fissarlo.

 

6. Un primo punto fermo sembra costituito dalla chiara tendenza della Corte a non accettare un’interpretazione estensiva – o, quanto meno, eccessivamente estensiva - delle “etichette” che definiscono le materie esclusive. La Corte è stata molto attenta a non assecondare la tendenza dell’Avvocatura dello Stato ad espandere ognuna delle materie elencate: era – si badi - una delle vie possibili, una via in fondo implicitamente suggerita da quella parte della dottrina che, negando qualsiasi residuo margine di rilevanza all’interesse nazionale quale titolo abilitativo dell’intervento statale, istigava lo Stato a veicolare tutti i suoi interventi legislativi per le sole “porte” predisposte dalle materie enumerate, con l’inevitabile progressiva deformazione delle stesse.

Il secondo suggerimento che viene dalla Corte è di non badare tanto alle etichette e alla attribuzione delle materie, ma di affrontare un’analisi degli interessi sottostanti alla legge in discussione. Si tratti di una legge statale o di una legge regionale, occorre esaminare quali interessi sono coinvolti dalle disposizioni impugnate e quindi indagare su quale sia l’ente che ha in carico la cura di quegli interessi. La conseguenza è riconoscere che sull’oggetto della legge impugnata si registra – come quasi sempre avviene - il concorso di “una pluralità di materie ed interessi” (sent. 354/2004, 151/2005), di “plurime competenze tra loro inestricabilmente correlate” (sent. 51/2005), “una «concorrenza di competenze»” (sent. 50/2005): siccome “la Costituzione non prevede espressamente un criterio di composizione delle interferenze” (sent. 219/2005), ciò significa, nella grande maggioranza dei casi, sdrammatizzare, se non svalutare, il ruolo che, nella strategia di giudizio, è riconosciuto all’attribuzione delle competenze per materia. Si deve procedere caso per caso e valutare in concreto l’oggetto della disciplina: esso può sfiorare interessi riconducibili a materie di competenza regionale come può invece coinvolgere interessi che risalgono a competenze dello Stato. Si noti che questo tipo di considerazione può e deve essere praticato anche nelle materie “dure” di competenza esclusiva dello Stato, come nel già citato caso dell’immigrazione: la Corte infatti non respinge la legge regionale che si limita ad attuare la legge statale, benché la materia sia di quelle in apparenza più gelosamente rivendicabili dallo Stato (sent. 300/2005).

Se dunque tra legge statale e legge regionale ci può essere concorrenza anche fuori delle materie appositamente definite “concorrenti”, ciò significa che bisogna individuare un criterio che la regoli: e la Corte richiama anche in questo contesto la distinzione tra “principio” e “dettaglio”. Laddove la Corte riconosca alle Regioni la possibilità di legiferare in materie statali “esclusive”, sempre tiene ferma l’esigenza che vengano rispettati i “principi” fissati dalla legge statale. La giurisprudenza in materia di tutela dell’ambiente è sotto questo profilo particolarmente esplicita: in essa si trova anche l’interessante identificazione del “principio” nel “punto di equilibrio” tra gli interessi costituzionali, la cui modificazione “si traduce in una alterazione, quindi in una violazione, dell’equilibrio tracciato dalla legge statale di principio” (sent. 307/2003 e 331/2003, da cui è tratta la citazione). Un altro esempio si trova nella sent. 166/2004, in tema di vivisezione, dove si avverte che “la legislazione vigente quindi bilancia attentamente il doveroso rispetto verso gli animali sottoposti a sperimentazione e l’interesse collettivo alle attività di sperimentazione su di essi che sono ritenute indispensabili, sulla base delle attuali conoscenze di tipo scientifico”.

È ovvio però che, agendo lo Stato sulla “base giuridica” che gli assegna la competenza esclusiva, non gli sarà precluso né d’imporre alle Regioni anche norme di dettaglio, né di trattenere specifiche funzioni amministrative, come viceversa accade quando la norma costituzionale indica competenze “concorrenti” o “residuali”: significativa a questo proposito è la sottolineatura, che la Corte compie nella sent. 279/2005, della distinzione – nell’ambito dei poterei legislativi che allo Stato spettano in materia di istruzione scolastica - tra i “principi fondamentali” della competenza concorrente ex art. 117.3 e le “norme generali” che gli spettano ex art. 117.2, lett. n): “le norme generali… si differenziano, nell’ambito della stessa materia, dai principi fondamentali i quali, pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose”. Non si tratta però di un’autorizzazione rilasciata “in bianco” allo Stato, che prescinda cioè dalla valutazione del “titolo” sulla cui base interviene il legislatore regionale: la sent. 88/2003, per esempio, annulla un decreto ministeriale, la cui emanazione è sì giustificabile sulla base della lett. m) dell’art. 117.2 (“livelli essenziali”), ma, riguardando l’assistenza sanitaria, non può prescindere dal rispetto di procedure di “leale collaborazione” tali da garantire le Regioni.

 

7. Giunti a questo punto viene spontaneo chiedersi a che cosa servano ancora gli elenchi costituzionali delle materie? Non bisogna credere che le etichette abbiano perso qualsiasi significato: in tutti i sistemi basati sul principio di sussidiarietà, infatti, sopravvivono ancora anche gli elenchi di materie. Essi servono ad individuare, nella concorrenza di più livelli di competenza, il “centro di gravità” - uso consapevolmente un’espressione che viene impiegata dalla Corte di Giustizia (per esempio in C-42/1997) quando deve individuare, nel groviglio delle possibili competenze coinvolte, la base giuridica precisa a cui imputare l’atto, e decidere di conseguenza con quale forma e quale procedimento avrebbe dovuto essere assunto l’atto in questione. Un’indagine del tutto analoga la svolge la Corte costituzionale, nel tentativo di comprendere quale materia sia principalmente coinvolta applicando un “criterio di prevalenza”. Di tale criterio ha fatto esplicita menzione nella sent. 370/2003, in materia di asili nido (la cui disciplina, “in relazione alle funzioni educative e formative riconosciute loro, nonché in considerazione della finalità di rispondere alle esigenze dei genitori lavoratori, è indubbio che, utilizzando un criterio di prevalenza, … non possa che ricadere nell'ambito della materia dell'istruzione… nonché per alcuni profili nella materia della tutela del lavoro”)  o nella sent. 234/2005, sull’emersione del lavoro “in nero” (le normativa in questione "in modo prevalente – se non esclusivo – aspetti privatistici e previdenziali relativi alle prestazioni suindicate e la circostanza che essa riguardi soggetti ai margini del mercato del lavoro attiene alle motivazioni di politica legislativa e non agli strumenti di cui il legislatore si è avvalso."). Esso però è sotteso in molte altre decisioni, come la sent. 228/2004 in tema di “servizio civile” o la sent. 50/2005, in tema di tutela del lavoro.

Si noti che l’applicazione del criterio della prevalenza non chiude definitivamente il discorso sulla selezione degli interessi e, quindi, delle competenze, ma lo apre. Infatti, individuata la competenza prevalente, la Corte deve valutare quali conseguenze ne discendano per la tutela degli interessi “soccombenti”. Qui, in verità, non sembra che la Corte mantenga una strategia precisa. Nel caso del “lavoro sommerso”, per esempio, individuato con il criterio della prevalenza il “titolo” della competenza legislativa dello Stato nell’ “ordinamento civile”, la Corte ha chiuso la porta a tutti gli altri interessi in gioco, non riconoscendo loro alcuna considerazione ("la riconduzione, secondo il criterio della prevalenza, della norma censurata alla materia dell’“ordinamento civile” assorbe ogni altro profilo attinente a diverse materie”), neppure per indicare l’esigenza di attivare procedure di “leale collaborazione”; negli altri casi invece si giunge a conclusioni del tutto diverse, sia nel senso di riconoscere spazi di normazione ai titolari degli altri interessi (le Regioni, di regola), sia nel senso di imporre l’obbligo di coordinare le iniziative dei titolari dei diversi interessi attraverso pratiche di leale collaborazione.

L’obbligo di leale collaborazione è diventato ovviamente il pilastro attorno al quale la Corte costituzionale ha riorganizzato il funzionamento dell’intero sistema delle relazioni tra Stato e Regioni: esso è il corollario del principio di sussidiarietà, perché non ci può essere un sistema ispirato al principio di sussidiarietà che non contempli istituzioni e modalità di cooperazione tra i diversi livelli di governo coinvolti. Basti  pensare all’Unione Europea. L’individuazione del “centro di gravità” tra le competenze che s’intrecciano e l’applicazione del “principio di prevalenza” servono ad impostare un ragionamento che inevitabilmente si chiude con la riaffermazione di un postulato: dove le competenze si intrecciano, là l’ente la cui competenza è prevalente non può agire ignorando gli interessi coinvolti che sono in cura ad enti di livello diverso; ciò significa che non può agire unilateralmente, ma deve avviare procedure di cooperazione tanto più intense quanto meno sia netta la sua “prevalenza”. La leale cooperazione assume il suo significato più intenso, sino a giungere alla regola di codecisone – all’intesa in senso forte, come si esprime la Corte – quando lo Stato agisca senza un titolo specifico di competenza, ma è “chiamato in sussidiarietà” per rispondere a quell’esigenza di coordinamento unitario che un tempo gli bastava per scendere in campo a pieno titolo in nome dell’interesse nazionale. I suoi atti di (alta) amministrazione e le leggi che lo Stato può esser tenuto ad emanare per dare una copertura legale a quegli atti sono strettamente tenuti a rispettare le procedure di collaborazione (la famosa sent. 303/2003 fissa appunto questo fondamentale principio).

Ma richiamare il principio di leale collaborazione e farne l’asse del sistema ci riporta esattamente al punto in cui era arrivato il dibattito sul vecchio 117: che si tratti, come oggi, di ragionare in termini di sussidiarietà o, come ieri, in termini di variabile livello d’interessi, il nodo centrale è che un sistema istituzionale multilivello non può funzionare attraverso il conflitto giurisdizionale e le sentenze della Corte costituzionale, ma ha bisogno di serie e funzionanti istituzioni e procedure di cooperazione.

 

8. A questo punto merita perdere qualche minuto sulle conseguenze di questa ricostruzione perché tocca uno degli equivoci interpretativi sul 117 cost., che ha generato forte turbolenza nella scrittura degli statuti. Mi riferisco proprio alla “vecchia” delega di funzioni amministrative di cui la legislazione dello Stato aveva fatto abbondante uso nel passato regime costituzionale (il che forse dovrebbe suggerirci qualcosa circa l’interpretazione del “salva delega alle regioni” di cui all’art. 117.6 Cost.). Essa viene spesso richiamata dalla Corte costituzionale a dimostrazione di un “interesse regionale” già da tempo riconosciuto dallo Stato su una “propria” materia (un esempio per tutti, la sent. 431/2005 in tema di servizio civile, oppure anche le sent. 13/2004 e 34/2005, in materia di organizzazione scolastica). Qui entra in gioco non il potere legislativo, ma quello regolamentare dello Stato. Ecco la domanda: quand’è che lo stato può emanare regolamenti? Voi sapete che l’art. 117 6˚ offre una risposta, dicendo che dove ha competenza legislativa esclusiva là e solo là lo Stato può emanare regolamenti. Ma se noi trattiamo le materie esclusive dal punto di vista delle materie trasversali e quindi con sostanziale parificazione con la potestà concorrente questo discorso non regge più. Nelle materie concorrenti allo Stato è precluso emanare regolamenti. Forse non è totalmente precluso, perché ci sono due spiragli possibili, direi “tradizionali”: se lo Stato disciplina la propria amministrazione non c’è problema. Quando la Regione soleva un conflitto contro un regolamento dello Stato o ne impugna la previsione legislativa, la Corte si pronuncia negativamente perché prescrive un’interpretazione conforme a Costituzione e di conseguenza interpreta il regolamento o la sua previsione nel senso che esso può disciplinare unicamente i profili che riguardano l’amministrazione statale e, così circoscritto il suo ambito di applicazione, mai e poi mai potrà toccare le Regioni. Nella denegata ipotesi che toccasse le Regioni, l’atto concreto potrebbe poi essere contestato attraverso il conflitto di attribuzione. Questo è uno schema risalente agli anni ‘80 ed è rimasto più o meno intoccato dalla riforma.

C’è poi l’altro profilo, la possibilità più subdola che il regolamento sia giustificato come esercizio di coordinamento meramente tecnico; qui troviamo qualche aggancio nella giurisprudenza. Nella sentenza n. 17 del 2004, per esempio, noi abbiamo un aggancio abbastanza preciso riguardo alla disciplina dell’esternalizzazione dei servizi introdotta dalla finanziaria 2002. Da un lato, la Corte rigetta la censura sulla previsione del potere regolamentare dello Stato con le testuali parole: “la clausola di salvezza, fatte salve le funzioni delle regioni e degli enti locali deve essere interpretata nell’unico modo costituzionalmente corretto cioè riferita all’organizzazione amministrativa dello Stato”; ma poco più in là la Corte dice “il coordinamento informativo, statistico ed informatico è potestà legislativa esclusiva dello Stato”, e attribuisce a tale “materia” – per esempio - il coordinamento dei profili della qualità dei servizi ed altro oggetti. La norma legislativa – spiega la Corte - deve essere intesa come attribuzione al Ministro di un “coordinamento meramente tecnico” rivolto ad assicurare la comunanza di linguaggi di procedure ecc. Come si vede, la Corte sta circoscrivendo e in parte negando che il  potere regolamentare possa essere esercitato dal Governo in una materia esclusiva, tale essendo il “coordinamento informativo”, il che dal punto di vista dell’art. 117 cost. non avrebbe senso. Eppure è proprio questo che si afferma, che i regolamenti ammessi sono soltanto quelli espressione di una funzione meramente tecnica, privi cioè di un vero significato normativo.

Anche nella prima sentenza sui livelli essenziali, la n. 88 del 2003, la Corte annulla un d. m. in materia di prestazioni sanitarie. Non è immaginabile – dice la Corte - che i livelli essenziali siano tutti necessariamente individuati dalla legge, perciò ben possono essere ammessi atti amministrativi  che concretizzino le previsioni legislative: ma a condizione che ci sia la leale collaborazione, ossia che sia assicurato un procedimento in cui vengano rappresentati con la necessaria forza gli interessi delle Regioni. Per quale ragione, se la definizione dei “livelli essenziali” rientra nella competenza esclusiva dello Stato? Perché, pur essendo astrattamente titolare della potestà regolamentare, quando lo Stato la esercita, e se non si tratta di coordinamento meramente tecnico, deve essere garantita la leale collaborazione nel procedimento. Ciò perché lo Stati non è il titolare esclusivo dell’interesse nella materia, e perciò non può emanare una disciplina unilaterale, ma deve acquisire anche gli interessi delle Regioni.

Ancora una volta – vedete - il taglio netto con cui l’art. 117 pretende di ripartire la potestà normativa viene smentito.

 

 La potestà esclusiva si chiama esclusiva perché uno penserebbe che è esclusiva. Ti do il potere regolamentare solo lì e poi quando me lo eserciti io te lo sgretolo in via interpretativa. In compenso, nelle materie concorrenti il potere regolamentare è radicalmente negato allo Stato. Su questo, non pare ci siano state eccezioni salvo la famosa eccezione della sentenza 303/2003 quella sulla sussidiarietà e le grandi opere. Dove però sul potere regolamentare ancora una volta la Corte è durissima. E’ durissima perché qui si sta parlando dei regolamenti di delegificazione e la Corte fa delle affermazioni di portata quasi definitiva. La ragione giustificativa, quindi la negazione del potere regolamentare, è rafforzata dalla nuova formulazione dell’art. 117, secondo il quale la potestà regolamentare è dello Stato salva delega alle Regioni, (poi vedremo nelle materie di legislazione esclusiva) mentre in ogni altra materia è delle Regioni. In un riparto così rigidamente strutturato alla fonte secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti. Un po’ più in là dice, non può quindi essere loro riconosciuta l’attitudine a vanificare la collocazione sistematica delle fonti, conferendo primarietà ad atti che possiedono lo statuto giuridico di fonti secondarie e a degradare le fonti regionali a fonti subordinate ai regolamenti statali o comunque a queste condizionati. Vedete è un’affermazione assolutamente condivisibile. Non dico neanche che sia un’affermazione nuova, perché la giurisprudenza pre titolo V era abbastanza ferma nel negare cittadinanza ai regolamenti amministrativi su materie di competenza regionale. Tanto è vero, che la Corte li aveva accettati soltanto laddove non ci fosse disciplina regionale con delle decisioni anche molto interessanti. Io ricordo, ad esempio, una sentenza su regolamenti in materia di polizia mortuaria con cui la Corte dichiarava il regolamento illegittimo per la sola regione Lombardia perché solo la Regione Lombardia aveva usato il potere regolamentare e se ben ricordo ci dovrebbe essere un’altra sentenza che riguardava il Piemonte e la navigazione a motore nelle acque interne e anche là dichiarato illegittimo per la regione Piemonte, perché siccome avevano esercitato il loro potere normativo non era più una materia vergine e di conseguenza lo Stato non poteva più fare regolamenti, ma siccome era stata solo una Regione a disciplinare la materia ecco che la Corte si inventa questa cosa che si chiama regionalismo asimmetrico o differenziato in via giurisprudenziale per cui dice lo Stato può emanare regolamento perché non c’è legislazione salvo in quella Regione per cui lo dichiaro illegittimo in relazione a quella Regione. L’invalidità degli atti normativi limitata ad un’unica isola, io l’ho sempre trovata geniale da un punto di vista pratico ma terribile dal punto di vista teorico, ma non è il caso di affrontare il problema. Sta di fatto che la giurisprudenza era abbastanza barricata su questa questione di escludere i regolamenti statali in materia regionale. Oggi la giurisprudenza della Corte è ancora più barricata perché lo esclude radicalmente in materia concorrente, neanche dove lo Stato assume in ragione del principio di sussidiarietà delle funzioni di coordinamento come nel caso della sentenza n. 303/2003 è legittimo intervenire con regolamento salvo, suppongo, i regolamenti che disciplinano le attività dello Stato.

 

Ma nelle competenze esclusive il ragionamento è uguale ed è uguale proprio perché le competenze dove sono trasversali non sono più esclusive ma sono concorrenti. Ma è anche ovvio perché se lo Stato in una materia esclusiva, mettiamo la tutela dell’ambiente, fa la legge e fa il regolamento, questo regolamento si applica alla Regione che sta disciplinando la stessa materia partendo dai suoi interessi?  Se la legge sull’elettrosmog avesse rinviato ad un regolamento quel regolamento sarebbe stato  opponibile alla Regione Veneto o alla Regione Lombardia, che se ben ricordo avevano legiferato? No. Perché avrebbe degradato il livello della fonte. Vedete, si applica in un contesto apparentemente diverso lo stesso sfaldamento delle competenze esclusive, lo stesso imbastardimento delle competenze esclusive con le regole tipiche delle competenze concorrenti. Io trovo la cosa interessante, curiosa, perché a tre anni dall’entrata in vigore del titolo V il titolo V è un bel ricordo, interessante perché quando si vedono i motori della giurisprudenza lavorare con tanta coerenza e consapevolezza e forza, forse uno si sente di fronte a fenomeni fisici. Esiste la fisica giuridica. Le organizzazioni istituzionali funzionano in base ad alcune leggi fisiche; ci sono strutture di omogeneità sui problemi che nascono tra Stato e Regioni o ad esempio tra Stato e comunità europea perché è fisica anche quella e allora è interessante vedere che ci sono alcune realtà che evolvono secondo una logica, ed è un po’ triste vedere che il nostro legislatore costituente, in costituente (come scherzosamente viene ormai chiamato), non le capisce queste cose. Continua a fare le leggi senza conoscere la fisica. Adesso vediamo la ricaduta che ha tutto ciò negli statuti, perché la ricaduta c’è e la ricaduta sta in quel “salva delega alle Regioni”, che dice esattamente il 117 della Costituzione. Io lo imparerò a memoria esattamente il giorno in cui lo riformeranno, ma non me ne renderò conto forse. “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva salva delega alle Regioni”. Questa è una cosa importante. Il 99% della dottrina lo interpreta in un senso che a me pare buffo e cioè la legge “salvo non  la deleghi alle Regioni” con l’idea che lo Stato possa delegare la potestà regolamentare alle Regioni. Io questo non l’ho mai visto. Avete mai visto una legge statale che delega le regioni a fare un regolamento? A me sembra di no. Ma poi a me sembra che la cosa sia sciocca da ogni punto di vista da cui riesco ad esaminarla. Dal punto di vista non c’è nessun vincolo; la sintassi vivaddio, nonostante tutti gli sforzi della Lega e dei suoi alle alleati è ancora una cosa certificata da appositi siti internet quanto meno. “Salva delega” non si riferisce alla potestà regolamentare ma è un’esclusione della delega dove l’oggetto della delega non è definito e quindi va definito con strumenti interpretativi. Ma l’argomento letterale cade. Dal punto di vista logico-sistematico mi sembra evidente che qui siamo di fronte ad una scelta molto rigida. Quando lo Stato può legiferare?? Quando le esigenze sono vitali, la vecchia giurisprudenza”interessi non frazionabili”. Oggi non si parla più di interesse nazionale perché la Corte se ne guarda bene, l’interesse nazionale non lo pronuncia. E’ una sciccheria, un uso linguistico, ma è la vecchia giurisprudenza sugli interessi non frazionabili legata all’art. 5 cost che, vivaddio, non è stato mai cambiato. Allora, la premessa e il presupposto per cui lo Stato legiferi è che gli interessi oggetto della disciplina non siano frazionabili, perché se sono frazionabili scatta l’obbligo della sussidiarietà nel senso che lo Stato dovrebbe legiferare ma anche trasferire le funzioni verso il basso. Trasferire le funzioni verso il basso significa anche delegarle. Ma che senso avrebbe che lo Stato mantenga le funzioni o le trasferisca ai comuni. Allora lo Stato fa la legge, la legge trasferisce le funzioni ai comuni ma i regolamenti applicativi delle leggi li fanno le Regioni. Ma si è mai visto un simile mostro? In Italia si vede di tutto ma questo ancora non si è visto ma non avrebbe nessun senso, perché la disciplina o è unitaria o non la deve fare lo stato. Dal punto di vista storico noi deleghe di regolamento non le abbiamo mai viste, ma deleghe di funzioni ne abbiamo viste a strapacchi: è l’esperienza di questa repubblica. Le norme di fusione delle funzioni delegate, il 117 ha appiattito il conferimento di potestà legislative verso il basso, ma verso il basso la potestà legislativa si è espansa enormemente perché gran parte delle funzioni arrivate alle Regioni sono arrivate in base all’art. 118. Le funzioni ulteriori delegate alle Regioni, funzioni delegate: l’ambiente, il commercio. Queste funzioni non sono state abrogate dal titolo V, qualcuno il giorno dopo che è entrato in vigore il titolo V l’aveva anche pensato, ma ovviamente sono rimaste in piedi e vengono normalmente esercitate dagli uffici regionali ma a che titolo? Qual è il titolo per cui le Regioni continuano a non occuparsi dei siti inquinati o di inquinamento delle acque al titolo di funzione delegate in base al 118 2˚ comma che adesso non c’è più. Le Regioni fanno norme in base al principio del parallelismo di funzioni, principio basato sul principio di legalità. Un ente pubblico non può esercitare funzioni amministrative, poteri amministrativi se non basati su una legge. Per cui il principio del parallelismo dice che se la Regione deve svolgere funzioni amministrative la deve organizzare con la legge, la deve finanziare con la legge e la base di legalità la deve dare con legge. E’ questo un principio non scalzato dalla riforma del titolo V. Per cui la Regione che svolge attualmente le funzioni delegate prima del titolo V in base al 118 2˚ comma fa normalmente delle leggi per consentire i procedimenti o per delegarle. Giusto? Tutto questo dovrebbe sparire perché le Regioni dovrebbero avere soltanto deleghe a fare norme regolamentari che poi si applicano a chi? Ai comuni delegano le funzioni? Non ha veramente nessun senso e fra l’altro sarebbe anche illegittimo, perché non credo di dire una novità dicendo che le Regioni hanno autonomia statutaria e l’autonomia statutaria è anche autonomia a fare scelte di fonte. E’ lo statuto regionale a dire per esempio se una materia è riservata alla legge, se è escluso il regolamento e così via. Per cui la legge dello Stato che dicesse alla Regione tu questa materia la disciplini con legge sarebbe una norma illegittima, perché invaderebbe l’autonomia statutaria regionale. Dico sciocchezze? Che poi le Regioni non abbiano inserito nessuna riserva di legge, nessuna riserva di regolamento forse è anche vero, per quanto poi ci sono delle precise norme che tutelano le prerogative della legge regionale  ma questo è materia statutaria e non può essere decisa dalla legge dello Stato. Esattamente come sono state illegittime le leggi dello Stato che dicevano direttamente quali fossero gli organi regionali a dover agire: il presidente della Giunta fa, la Giunta delibera. Erano illegittime perché violavano l’autonomia statutaria delle Regioni. Per tutte queste ragioni, secondo me, il 99% della dottrina sbaglia. Eh, uno dice, ma chi se ne frega la dottrina è fatta per sbagliare, per essere contestata. Il grave è che tutto questo ha avuto un peso forte nell’elaborazione degli statuti. Nell’elaborazione degli statuti e in particolare nella delicata questione della potestà regolamentare negli statuti. Non vi faccio perdere troppi minuti a raccontarvi la storia della potestà regolamentare delle Regioni perché la conoscete tutti. La potestà regolamentare delle Regioni non è stata mai esercitata dai Consigli regionali. Mai. I Consigli regionali hanno fatto delle leggi che erano già un po’ più basse dei regolamenti e non hanno mai fatto regolamenti salvo rarissimi casi. L’Umbria ha fatto qualche regolamento, ma l’Umbria è riuscita anche a modificare un regolamento con legge per cui non fa testo. Ero giovane, allora, ho perso alcune ore col mal di testa cercando di capire cos’erano queste norme regolamento modificate con legge. Io coltivavo questi schemi kelseniani per cui mi avevano messo un po’ in crisi; poi ho capito che non era il caso di perdere del tempo. I regolamenti non ci sono e, di fatto, il potere regolamentare è stato trasferito in capo alle Giunte da diverso tempo. Dipende quando, in ogni Regione in maniera diversa, ma di fatto con una serie di denominazioni di fantasia, piani, programmi, direttive, criteri generali, indirizzi generali, si è incaricata di volta in volta la Giunta a fare operazioni che erano il piano di riparto nel caso più basso ma nel casi più alti la vera disciplina della materia. Tutte le questioni che riguardavano, come dire, l’equilibrio degli interessi, la regolazione degli interessi conflittuali, con la conseguenza piuttosto imbarazzante in certi casi, perché quando si andava di fronte al giudice si doveva un po’ spiegare se i criteri programmatici, per la programmazione dei distributori di carburante su cui c’è un contenzioso micidiale erano norma o non norma erano fonte o non erano fonte erano un regolamento o non erano un regolamento, perché di fatto è un regolamento e di diritto non lo poteva essere perché sarebbe stato illegittimo perché ovviamente avrebbe leso le competenze del Consiglio. Per cui, l’avvocato della Regione, quando si accorgeva del problema doveva stare molto in campana e cercare di spiegare che era un atto che aveva una valenza normativa, perché sennò il privato se ne infischiava o il comune derogava ma contemporaneamente non era un regolamento perché sennò l’avvocato della controparte semmai si fosse informato a proposito poteva dire ma allora è illegittimo perché viola la competenza del Consiglio regionale e non era una questione da poco. Tutta la disciplina del commercio a livello statale, regionale e comunale era girata su questo non piccolo equivoco. 

Bene, quando finalmente la riforma del 1999 spazza dalla scena l’esclusivo potere regolamentare dei Consigli, voi sapete che c’è stato questo piccolo equivoco per cui alcuni miei colleghi hanno ritenuto che in base a dei principi cabalistici intorno alla forma di governo automaticamente il potere regolamentare, mollato l’elastico rimbalzava sulla Giunta e le Giunte si sono messe a fare pacchi di regolamenti non presentandoli al Consiglio finché la questione non è arrivata alla Corte costituzionale e la Corte costituzionale ha detto no; gli statuti regionali quelli vecchi esistono ancora e si applicano. Li avete modificati gli statuti? No e allora applicateli e siccome ripetevano stupidamente la norma della Costituzione i regolamenti dovevano essere fatti dal Consiglio e queste sono vicende che tutti conosciamo anche piuttosto imbarazzanti e lasciamo stare. Qual è il problema? Il problema è che nello scrivere gli statuti i Consigli regionali hanno dovuto risolvere questo nodo. Chi faceva i regolamenti. E ovviamente questo nodo è stato affrontato senza ragionare su quello che era l’esperienza ma soltanto su tanti discorsi sull’importanza degli organi e in tutti i Consigli regionali si è cercato di difendere la titolarità astratta perché concretamente mai esercitata del potere regolamentare in capo ai consigli. Solo le Marche, credo, hanno difeso questa linea fino in fondo lasciando il potere regolamentare in capo ai consigli, le altre Regioni hanno riconosciuto in genere il potere regolamentare alla Giunta con una serie di attenuazioni, che non vi sto a descrivere. Vi ho fatto distribuire un lavoro che è aggiornato ad agosto-settembre dell’anno scorso ma da allora non è che si sia molto modificato il panorama degli statuti. E’ un lavoro a cui sono molto affezionato perché mi è servito moltissimo; perché parlo così bene degli statuti regionali che da allora più nessuno mi invita a parlare degli statuti regionali. Un risultato l’ho ottenuto. Generalmente i vincoli, sono procedimentali, per cui gli statuti vengono presentati in commissione, e così via, ma tutte le Regioni hanno una norma di tutela e questa norma guarda all’art. 117 6˚ comma. Cioè al problema di cosa succeda dei regolamenti delegati dello Stato. Tutti gli statuti hanno una norma che va a disciplinare un’ipotesi teorica sbagliata, a mio avviso, ma sono sicurissimo. La Corte non l’ha mai affrontato, ma nella sentenza Calabria usa un’espressione che mi ero appuntato da qualche parte ma dice “questa ipotetica normazione secondaria regionale”, come dire, è un’ipotesi che ci sia una delega di potere regolamentare dello Stato ma su questa ipotesi tutti gli statuti hanno fatto una norma che disciplina i cosiddetti regolamenti delegati dello Stato in modo derogatorio dall’assetto generale del potere normativo. Il che è gravissimo, se pensate che si va a immaginare che lo statuto di autonomia riconosca l’ipotesi che un proprio atto normativo della Regione a prescindere se lo faccia la Giunta o il Consiglio abbia la sua base giuridica in una legge dello Stato e cioè che la Regione improvvisamente diventi non ente autonomo con potestà legislativa ma un ente attuatore di legge dello Stato il che è a mio avviso aberrante; che lo si faccia de facto non mi spaventerebbe, ma che lo faccia lo statuto (che si suppone sia il vertice del sistema dell’ordinamento delle fonti regionali) no.  In questa struttura ragionando, dal punto di vista dell’autonomia regionale è chiaro che lo statuto debba tagliare tutti i cordoni di dipendenza dell’ordinamento regionale dall’ordinamento dello Stato, lo deve rendere autonomo. Tanto più che questa è la logica del titolo V, l’autonomia finanziaria, l’autonomia legislativa i regolamenti che non comunicano più. L’unica eccezione è proprio questo filo che viene teso, per cui la legge dello Stato tratta la Regione come il suo ufficio periferico, dicendo “tu fai il regolamento attuativo della mia legge”. La Regione questo lo accetta e su questo crea un’eccezione al suo sistema di distribuzione delle funzioni normative, coerente con l’errore perché in effetti ragionando all’interno dell’errore è giusto dire che non ci può essere una norma regionale che non abbia la sua base in una decisione dell’assemblea elettiva. Le norme le fa il Consiglio regionale, poi il Consiglio decide qual è lo spazio del regolamento e i regolamenti sono gestiti secondo le regole dello statuto. In questo caso avremmo un regolamento che non avrebbe, se fatto dalla Giunta, sopra di sé l’intervento dell’assemblea elettiva  e quindi la necessità di avocare al Consiglio solo questi regolamenti. E’ uno sviluppo coerente di una premessa sbagliata, che a fortori dimostra quanto erronea sia questa premessa. Vorrei affrontare in un quarto d’ora un paio di altri equivoci e poi sarei disposto ad ascoltare le vostre domande e, nella misura in cui ne sia capace, far finta di dare risposta. Il potere normativo regionale, cos’è? A me sarebbe tanto piaciuto (e sono riuscito ad infilarlo nello statuto della Toscana evidentemente per contaminatio) che la Regione si preoccupasse di dire quali sono le sue norme. E vi spiego perché. Ha senso che lo statuto si preoccupi di custodire gelosamente il potere legislativo del Consiglio e l’intervento del Consiglio sui regolamenti senza dirci se queste sono tutte le fonti della regione, oppure no? E soprattutto ha senso nella logica dialettica tra Consiglio e Giunta che si discuta  a lungo su chi abbia il potere regolamentare e non invece su cosa sia il potere regolamentare? I piani, programmi, indirizzi, direttive, ecc., sono ancora legittimi o non sono ancora legittimi? Non poteva essere lo statuto l’occasione per tagliare questo nodo? La Toscana ha provato a farlo dicendo sono fonti dell’ordinamento regionale: lo statuto, la legge e il regolamento. Non posso non essere d’accordo su questa ipotesi, mi interrogo però sulla sua tenuta. Nella mia logia, l’ipotesi in questione serve soprattutto per evitare il solito trasferimento occulto o esercizio abusivo di potere da parte dell’organo sbagliato. Perché, se lo statuto dice che i regolamenti li fa la Giunta e poi ogni legge dice il Consiglio con propria delibera fisserà indirizzi generali noi che cosa abbiamo ottenuto? Chiarezza, divisione delle competenze, una precisa definizione dei ruoli in modo da evitare il contenzioso? E una volta che il Consiglio fa gli indirizzi generali questi come si riflettono sul potere regolamentare della Giunta. La Giunta può fare un regolamento che si discosta oppure no? E tutto questo rischia un bel giorno di andare di andare di fronte al tar e chi gliela va a spiegare questa cosa al Tar. Siamo sempre attorno ad un problema serio, delicato che doveva essere un problema fondamentale da affrontare da parte dello statuto a mio modo di vedere. Lo statuto serve per dare certezza, per andare ad accendere i riflettori su zone complicate in cui c’è contenzioso interorganico ma anche contenzioso fuori dalle Regioni. Era un’occasione impagabile. La Regione Toscana sembra mettere una tipologia chiusa degli atti normativi, che consentirebbe quanto meno all’avvocato di andare al Tar e dire che quello non è un atto normativo. Mi pare un po’ poco ma è già qualcosa. Pensate soltanto a questa bell’esperienza che abbiamo di fronte dei decreti ministeriali e senza valore regolamentare, giusto per dire di una delle cose tipiche di questo paese, che non sono una cosa da sottovalutare perché sono proprio l’esempio di come il titolo V imponga allo Stato di togliere valore normativo ai propri atti regolamentari. Quest’area, secondo me, negli statuti andava in qualche modo regolamentata e non è stato fatto.

Il secondo equivoco sono i testi unici. I testi unici sono un genere letterario. Purtroppo non tutti sono pubblicati da Giuffrè, alcuni sono pubblicati anche dal Poligrafico e non sono i migliori e sono secondo me uno degli enormi equivoci di questo paese. Non c’è statuto che non intoni un inno programmatico alla semplificazione legislativa, alla semplificazione di tutto ma a quella legislativa in particolare. Ora la Corte costituzionale, non tutti sono d’accordo mi dispiace per loro, ma fortunatamente, ha detto quello che doveva dire e cioè che le norme programmatiche non servono a niente se non a perdere tempo ma il problema della semplificazione è tipico. La semplificazione è una cura ad una malattia che si chiama complicazione. Che cos’è che genera complicazione legislativa se non il sistema della produzione delle leggi in Italia? Allora, ha senso in uno statuto promettere la cura senza affrontare la malattia? Io trovo che queste cose siano talmente palesi da essere stupito che qualcuno non ne abbia segnalato l’esigenza. Mimmo Sorace mi ricordo che un giorno sbottò dicendo “caso mai parlate di semplicità legislativa non di semplificazione perché la semplicità almeno è una speranza mentre la semplificazione è una rassegnazione”. Siccome noi siamo degli imbecilli che non sono in grado di fare norme coerenti promettiamo che ogni tanto le semplifichiamo. Di conseguenza, poi, creiamo a valle una serie di meccanismi tortuosi con cui alla fine vi diamo il testo unico che è testo unico il primo giorno ma poi il secondo giorno non lo è più, perché la prima legge cretina che passa di là lo modifica inconsapevolmente. Ma allora noi siamo furbi e mettiamo nello statuto la norma sull’abrogazione espressa, per cui i testi unici e anche tutte le leggi regionali non possono essere abrogate se non espressamente. L’amico Massimo Carli era un grande fautore di questa cosa e un giorno che non ne potevo gliel’ho detto papale papale: “ma ti rendi conto di cosa significa? Qual è la conseguenza di queste norme degli statuti prese sul serio?”. Speriamo che nessuno le prenda sul serio; vogliamo sperare che gli statuti vengano presi dai giudici dicendo: “loro hanno scherzato”. L’abrogazione espressa è un vincolo alla legge regionale per cui fatto il testo unico se dopo un anno il Consiglio regionale un po’ svagatamente fa una norma che se ne discosta quella norma è illegittima. Non è che il giudice possa disapplicarla, né può disapplicarla l’amministrazione. Il giudice deve impugnare alla Corte per cui noi avremmo un contenzioso interno al sistema regionale, per cui l’avvocato che si trova di fronte una cosa del genere impugnerà di fronte al Tar una legge regionale per violazione del suo statuto, perché ha violato la norma di abrogazione espressa. Ma ci rendiamo conto di cosa produciamo? O pensiamo che questo sia parato dal brillante intervento dell’organo di garanzia statutaria? Ma si possono produrre meccanismi di questo tipo, notate, sventolando la bandierina della semplificazione perché poi questo darebbe semplificazione? Creare contenzioso interno al sistema statuatario e legislativo della Regione sarebbe fatto in nome della semplificazione. Io trovo questo aberrante e pure non c ‘è Regione che non abbia la sua norma sul testo unico e buona parte di queste è condita con la clausola di abrogazione espressa. Non ci si rende conto di cosa si sta combinando; dimostrazione che le norme programmatiche sono generalmente l’elenco dei problemi che non si è capaci di risolvere e in alcuni casi poi sono anche degli autogol, perché elencando i problemi e dando poi una soluzione opposta si creano dei conflitti che poi ad un certo punto possono avere conseguenze notevoli. Ci sarebbero altre cose sui poteri di urgenza che non ci sono, sulla motivazione delle leggi, ma io volevo finire invece su un tema che mi sta molto a cuore perché mi sembra che sia uno di quei terreni su cui le idee le abbiamo ancora molto confuse e il tema ha una potenzialità esplosiva notevole. E’il tema del rapporto tra potere normativo regionale e potere normativo locale, ossia il rapporto tra legge e regolamento regionale da un lato e regolamenti di autonomia degli enti locali dall’altro. Si tratta di un problema di una delicatezza paurosa, che rischia di diventare un vero tormento se dovesse passare questa riforma costituzionale che da anche legittimazione processuale a Comuni e Province, che è un modo perfido per bloccare la Corte costituzionale. Voi sapete che il 117 6˚ comma crea un sistema di riparto dei poteri regolamentari che è disomogeneo, nel senso che tra Stato e Regioni la partita è giocata in base alla linea di separazione delle potestà legislative. Poi abbiamo visto che tiene o non tiene ma questa è un’altra questione. Mentre tra Stato e Regioni, da un lato ed enti locali dall’altro la linea di separazione non è ovviamente per materie (perché non hanno potestà legislative e speriamo che continui così), ma è una linea di separazione che riguarda l’oggetto di regolamentazione. Per cui l’autonomia comunale e provinciale sta nell’organizzazione e nelle procedure relative alle loro funzioni. Qui, in sostanza, è stata data rilevanza costituzionale ad una problematica che era precedente, di quelle toste che stanno nelle radici della teoria delle fonti del diritto pubblico mai pienamente illuminata e sempre più complicata con l’andare avanti della legislazione che è l’unitarietà della categoria dei regolamenti. Si può trattare alla stessa stregua il regolamento governativo ministeriale, dell’esecutivo regionale e il regolamento comunale? Sono atti che stanno nella stessa gabbia concettuale? La risposta è sempre stata difficile per due ragioni. Primo; esiste una precisa relazione tra gerarchia degli atti e gerarchia dei procedimenti. Si spiega la maggior durezza, maggior elevazione gerarchica della legge costituzionale in base alla legge ordinaria, in base alla difficoltà del procedimento e la maggior durezza delle leggi rispetto al regolamento, perché la legge è protetta da tutti i valori tipici della democrazia parlamentare, il dibattito, l’opposizione, la pubblicità e quant’altro e i regolamenti no. Ma questo non vale a livello locale. Soprattutto non valeva prima delle riforme degli anni 90, quando tutti i regolamenti erano presi dai Consigli (assemblee elettive). Era l’eredità di un sistema che costruiva l’ente locale come ufficio terminale della piramide amministrativa; al vertice c’era il Ministro degli Interni e in basso stava il Sindaco con la fascia tricolore. Allora l’Interno aveva una struttura centralistica basata sullo schema mentale della gerarchia e questo andava bene. I regolamenti erano messi in scala gerarchica esattamente come i soggetti per cui il regolamento del Ministro non c’era dubbio che dominasse sul regolamento del Sindaco. Ma se l’ente locale acquisisce autonomia e rappresentatività questo meccanismo salta per cui è saltato già con la Costituzione. Salta ulteriormente con l’elezione diretta del Sindaco, complicandosi poi, come sappiamo, perché il potere regolamentare degli enti locali si sdoppia tra Giunta e Consiglio. Diventa drammatico con il testo unico che dice che il Comune è un ente a fini generali, cosa che peraltro la dottrina e la giurisprudenza già dicevano attenuando anche il principio di legalità, perché i regolamenti possono essere emanati soltanto su una base legislativa, più o meno rigida secondo il tipo dei regolamenti e della riserva di legge ma i regolamenti comunali sono invece slegati dalla base legislativa perché si dice i Comuni sono enti a fini generali e questo è scritto nella riforma degli enti locali, nel testo unico sugli enti locali. Allora se un ente ha interessi generali la sua fonte è il regolamento e questa fonte perde un collegamento con la legge anche nel principio di legalità meramente formale, se vogliamo, nel senso che non è detto che tutti gli esercizi del potere regolamentare possono avere una norma di attribuzione. Se domani  il Comune vuol fare un regolamento sulle manifestazioni folkloristiche lo fa senza avere la base legislativa perché è un ente a fini generali. Si comincia ad incrinare uno schema che è troppo vecchio per essere credibile. Oggi noi abbiamo un livello ulteriore in cui è la Costituzione in qualche modo a riconoscere, (poi bisogna vedere se riconosce, cita o garantisce, qua i giuristi possono lavorare di fino) però indubbiamente è un riconoscimento al Comune di un potere di regolamentare la propria organizzazione, il proprio funzionamento non solo come strutture ma come esercizio delle funzioni. E’ vero che magari queste funzioni saranno conferite con legge, ma quella legge che conferisce le funzioni può o no vincolare l’organizzazione e vincolare le procedure? Il procedimento che deve seguire l’ente nello svolgere una certa attività può o no essere disciplinato autonomamente dal Comune o dalla Provincia derogando alla legge dello Stato, delle Regioni o dei regolamenti? Non è una domanda da poco. E’ la domanda delle domande. E’ la domanda che a me viene posta una volta a settimana. Il Comune che non riesce a fare la bonifica dei siti inquinati, (è un problema non da poco), semplicemente perché il d.m. di applicazione del d. lgs. Ronchi è inapplicabile perché disegna una struttura procedimentale inapplicabile in concreto può fare un regolamento dicendo: “la mia procedura è questa”? Perché ho potere costituzionale. Non è una domanda da poco e la risposta la dovevano dare gli statuti. A mio modo di vedere questo era un x % notevole della funzione normativa degli statuti. Anche perché significava mettere su un piano di chiarezza il rapporto tra Regioni ed enti locali e non tacere su un punto che genera necessariamente conflittualità. Da questo punto di vista l’Emilia Romagna qualcosa ha messo, una norma che in qualche modo dice solo per i regolamenti che i regolamenti regionali sono suppletivi rispetto ai regolamenti locali e qualcosa c’è anche nello statuto della Toscana. L’idea in sostanza è che i regolamenti emanati per l’applicazione della legge siano flessibili e derogabili dall’autonomia locale. Sono le uniche due Regioni che hanno avvertito il problema e le leggi regionali? Perché è lì il problema. Non solo i regolamenti regionali, le leggi regionali, perché da un lato io non posso immaginare che una legge regionale faccia, come la dottrina pensava che dovessero fare le leggi cornice dello stato, cioè dettare solo i principi e dire: “qui io mi fermo perché il resto è autonomia comunale”; così se il Comune non fa il regolamento la legge non viene applicata. Non si possono fare così le riforme. Ammettendo che ci sono leggi regionali che riformano e hanno bisogno di essere applicate, quelle devono essere applicate al giorno dell’entrata in vigore, e non condizionate dall’eventuale attuazione o accettazione da parte degli enti locali. Questo non lo possiamo ammettere. Quindi suppongo che le leggi regionali ben facciano a dettare una disciplina chiavi in mano, autoapplicativa. Ma a questo punto è evidente che questo significherebbe comprimere l’autonomia regolamentare comunale se lo statuto non dice chiaramente che queste leggi sono cedevoli. E’ un principio di cedevolezza e alla fine verrà affermato dalla giurisprudenza costituzionale ma perché aspettare che fra cinque anni lo dica a colpi di contenzioso e non dirlo nello statuto. A che serve lo statuto se non dice queste cose? A stabilire norme di principio? No di certo. Sono questi i nodi che andrebbero risolti e sono nodi, come vedete di importanza anche pratica notevolissima. Io avrei finito e sono a disposizione per chiarimenti ulteriori.