LIBERTA' DALLA RELIGIONE*)
Roberto Bin
1. La dottrina costituzionalistica ha compiuto un grave errore di strategia culturale nel lasciare "in appalto" alle discipline di settore l'interpretazione di ampi tratti della Costituzione. Tratti importanti, spesso intimamente legati all'origine stessa del pensiero costituzionalistico (i tributi, la libertà di coscienza, la libertà religiosa) sono stati ricostruiti a causa di ciò con tecniche e attraverso percorsi lontani da una lettura unitaria della Costituzione (ed estranei, se è lecito parlarne, alla cultura e alla sensibilità particolari che connotano il diritto costituzionale).
La problematica religiosa è stata "espropriata" dai cultori di diritto ecclesiastico, che vi hanno innestato le esperienze e le prospettive tipiche della loro materia. Questa è l'origine della confusione tra libertà di coscienza e libertà di culto, degli aspetti individuali della libertà religiosa e quelli della religione come specifico di alcune formazioni sociali[1]. Tutto viene risolto riconducendo il discorso al problema dei rapporti tra lo Stato e i culti religiosi, i quali, nell'esperienza italiana storica, altro non sono che sfumature di un'omogenea tradizione giudaico-cristiana: per cui, in assenza di importanti incrinature dei "contenuti" dei diritti in questione (incrinature che sicuramente sarebbero state - e nei fatti saranno fra non molto - provocate dalla necessità di contemperare concezioni etico-religiose fortemente divergenti dalla tradizione), il problema della posizione e dei diritti delle formazioni religiose e le loro rivendicazioni in campo morale occupa l'intera scena, salva restando tutt'al più qualche piccola area residua, piccole zone di protezione dell'individuo che rifiuta di appiattire la propria coscienza a quanto gli chiedono la formazione religiosa di appartenenza (l'adesione obbligatoria alla Comunità ebraica) o le convinzioni imperanti (il problema del giuramento).
Assunto questo punto prospettico (la libertà dei culti), tutta la problematica della libertà di coscienza perde il suo equilibrio, come quando si è scelto un punto sbagliato da cui guardare una volta affrescata con una prospettiva monofocale. I culti sono istituzioni, dispongono di meccanismi istituzionali (quelli previsti dagli artt. 7 e 8 Cost.) per interagire con le istituzioni pubbliche, in questa interazione spingono per valorizzare non già la loro libertà negativa (non più contestata dallo Stato, ma semmai dai loro accoliti), ma quella positiva. Da qui sgorga un filone legislativo fatto di norme di favore per i culti[2]: incentivazioni per l'edilizia, agevolazioni fiscali, privilegi urbanistici, compartecipazioni agli introiti tributari, regimi particolari che proteggono la coscienza di chi ha una fede religiosa, ecc. Dei due profili, la fede e il culto, che la Corte costituzionale sin dalle sue prime sentenze ha detto di voler mantenere distinti con chiarezza (sent. 59/1958), il secondo si è sovrapposto al primo. La "fisicità" del culto ha occultato l'aerea complessità della fede e delle questioni che ad essa si ricollegano: ossia, ha occultato, facendoli dimenticare, i problemi che il legislatore vede levarsi ogniqualvolta sfiori questioni di fede.
In questo breve intervento vorrei dimostrare che:
a) qualsiasi intervento "positivo" a favore di qualsiasi culto o sentimento religioso incontra problemi operativi insolubili per chi prenda sul serio la costituzione;
b) non può esistere alcun regime "positivo", di favore, per la coscienza religiosa che non sia estensibile alla coscienza non religiosa e persino a quella anti-religiosa;
c) la libertà negativa di coscienza è l'unico profilo della libertà che l'ordinamento può legittimamente prendere in considerazione.
2. Una premessa. Che lo Stato italiano sia laico e pluralista significa certo qualcosa. I due termini si implicano, perché lo Stato in tanto è pluralista in quanto rinunci ad assumere un determinato indirizzo religioso, che diverrebbe immediatamente la "misura" della tollerabilità delle altre convinzioni e pratiche religiose; e in tanto è laico, in quanto accetti come una dato irrevocabile la perfetta parità di tutte le opinioni. Ma il carattere laico pone inoltre lo Stato in una condizione di necessario agnosticismo, gli vieta di prendere posizione non solo nel dibattito tra le religioni ma anche in quello sulle religioni.
In passato si era cercato di sostenere che l'ateismo non sia protetto dalla libertà di coscienza: si tratta di un classico pregiudizio, del frutto di un' educazione confessionale incapace di accettare che possa esservi una coscienza viva ed un'etica impeccabile "fuori dalla grazia di Dio". L'intolleranza che è insita in questa convinzione fa a pugni con il principio pluralista, in base al quale la libertà di coscienza e il principio di eguaglianza vietano qualsiasi obbligo, qualsiasi limitazione, qualsiasi discriminazione che possano incidere sui, o trarre origine dai convincimenti personali attinenti alla coscienza; vietano anche "che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione"[3].
3. Se si condividono queste premesse, mi sembra che si debba accettare anche una prima conseguenza. Ogni volta che lo Stato intervenga a favore delle istituzioni o delle motivazioni religiose, l'attuazione di questi interventi incappa in problemi operativi insolubili. Benché l'insostenibile leggerezza con cui troppo spesso la Corte motiva le sue sentenze le abbia consentito di affermare, in un recente obiter dictum[4], che non basta l' autoqualificazione per individuare una confessione religiosa, potendo essa risultare da una serie di indici cui la Corte (poco pudicamente) accenna, il problema di definire la confessione religiosa è indecidibile senza ferire i princìpi costituzionali.
Problemi pratici non sono sorti in passato per quella affinità che lega i culti tradizionalmente radicati nel nostro paese: ma questo è un mero accidente, e non ci si può immaginare cosa accadrà quando a voler accedere ai trattamenti di favore saranno "culti" del tutto estranei alle coordinate cui siamo abituati (il monoteismo, la trascendenza, ecc.). Come qualificare i Dianetici, per esempio? e come ci si comporterà di fronte a riti animisti e ad usanze tribali?
I test indicati dalla Corte (nella sentenza appena citata) sono del tutto inservibili: il riferimento ai "precedenti riconoscimenti pubblici", se non è una petizione di principio (il riconoscimento pubblico si basa sul riconoscimento pubblico), rischia comunque di ergere lo Stato a giudice delle questioni di fede, con buona pace della sua laicità (o forse mira a "chiudere" il sistema dei culti ammessi a quelli già riconosciuti?); il riferimento ai "caratteri chiaramente espressi dallo statuto" o è un riconoscimento ipocrita dell'autoqualificazione, oppure ci riporta alla petizione di principio (è culto ciò che ha i caratteri del culto); il riferimento alla "comune considerazione", infine, produce i brividi in chiunque abbia un minimo di sensibilità per la tutela delle minoranze, lasciate in questo caso in balia delle opinioni che su di esse si è compiaciuta di formarsi la maggioranza.
Se passiamo dal piano dei culti a quello dei sentimenti religiosi le cose peggiorano ancora. Come può reggere un trattamento privilegiato - come indubbiamente è il servizio civile rispetto a quello militare, almeno secondo la legislazione attuale - l'accesso al quale sia riservato a chi adduca "imprescindibili motivi di coscienza", "attinenti ad una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi o filosofici o morali professati dal soggetto"? Qui, almeno, la irriducibile vaghezza del termine "religione" e stemperata dall'inclusione di sfere della coscienza attigue (filosofia e morale). Ma solo la raffinata sensibilità del legislatore può immaginare di sottoporre i convincimenti più intimi del candidato al giudizio di una commissione, autorevolmente composta da un magistrato, un generale, un sostituto avvocato dello Stato ecc.
Vi è poi un profilo che mi pare ancora più allarmante: è lecito premiare chi accampa una visione generale della vita, rispetto a chi fonda i propri convincimenti, per es., sul senso di responsabilità nei confronti dei propri familiari o su un'opinione politica? è lecito premiare chi esterna i suoi convincimenti più profondi, e incentivare indirettamente gli interessati a mascherare le proprie ragioni con i panni dei "profondi convincimenti ..."? è lecito incentivare chi "confessa" di appartenere ad una confessione, chi ha tanta facilità nel portare alla luce i suoi "profondi" convincimenti? Questi interrogativi meritano un approfondimento.
4. L'art. 3 vieta discriminazioni basate sulla religione. Vieta anche discriminazioni in base al sesso, la lingua, le condizioni personali e sociali, le opinioni politiche ecc. Questa commistione complica le cose: siccome in nome del principio di eguaglianza si ammette che vi siano "azioni positive" a favore del "sesso debole", delle minoranze linguistiche, dei cittadini meno abbienti, degli emarginati ecc., sembra che tutti i divieti espressi dal primo comma siano derogabili da interventi positivi ispirati al secondo comma. Ma a me sembra un brutto equivoco, in cui anche la Corte incautamente cade.
Con l'insostenibile sfrontatezza con cui assai spesso la Corte manipola i propri precedenti, la sent. 195 cita un passo della sent. 203/1989 ("il principio di laicità ... implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale"), stravolgendone la portata: quello che in precedenza aveva detto per fondare l'obbligo dello Stato di assicurare condizioni di parità nell'insegnamento religioso, viene poi usato allo scopo, del tutto diverso, di giustificare interventi preordinati "alla soddisfazione dei bisogni religiosi dei cittadini", ad un "effettivo godimento" del diritto di libertà religiosa, ai "contenuti di libertà «in positivo» giusta la formulazione del comma 2 dell'art. 3". Siccome non sembra che ad essere contestata fosse la legittimità degli interventi positivi in sé, ma la delimitazione dei beneficiari, le considerazioni della Corte hanno anche in questo caso lo scarso peso dell'obiter dictum. Ma lo scivolamento concettuale è tuttavia preoccupante, a mio avviso.
Mentre per sesso, lingua, condizioni personali e sociali gli interventi positivi sono sicuramente ammissibili, credo che per religione e opinioni politiche non lo siano (per la razza non saprei proprio che dire, ignorando cosa marchi la differenza). Che non siano fattori assimilabili mi sembra che non possa sfuggire. Il sesso è accertato dall'anagrafe, e nessuno dubita che in certe situazioni la donna sia di fatto in posizione di svantaggio; le condizioni economiche, fisiche, sociali ecc. sono comunemente certificate (dichiarazione IRPEF, certificati sanitari ecc.) o certificabili, e nessuno dubita che possano essere di fatto causa di svantaggio; l'appartenenza linguistica (a parte il problema di distinguerla dai dialetti) è facilmente accertabile, se non è oggetto di autoqualificazione, e può forse generare di fatto qualche situazione di svantaggio, di emarginazione o di difficoltà di utilizzare le strutture pubbliche. Le opinioni, invece, non sono certificate né certificabili (nel senso che è vietato certificarle); le opinioni politiche (il voto) sono persino coperte da segreto.
Qualsiasi incentivo lo Stato offra a chi riveli le proprie convinzioni già di per sé urta, a mio modo di vedere, con la segretezza di queste opinioni. Il problema ha un duplice volto: da un lato si tratta di proteggere ciò che di più geloso ha l'individuo (coscienza e pensiero); dall'altro si tratta di impedire che siano resi pubblici fattori che la costituzione vieta di assumere come legittimi elementi di differenziazione. Esistono di fatto condizioni di svantaggio che l'individuo subisce a causa delle proprie opinioni religiose o politiche (e che non siano parte del contenuto della propria scelta religiosa o politica)? La risposta è: no, e non possono esistere; la condizione più sicura per evitare che insorgano è la riservatezza su tali opinioni. Ma allora qual'è lo svantaggio che andrebbe compensato appellandosi all'art. 3, secondo comma?
5. L'idea che esista un "bisogno" religioso cui lo Stato debba far fronte con azioni positive nasce da premesse inconciliabili con la Costituzione, urta proprio contro i paletti più solidi da essa impiantati. In primo luogo, è il principio di laicità e di pluralismo che dovrebbe impedire di ritenere apprezzabile il "bisogno" religioso. Chiara è la matrice confessionale dell'opinione contraria (che purtroppo affiora troppo spesso nelle motivazioni della Corte), incapace persino di concepire ciò che è fuori dalla religione (inscindibile dal culto) se non in termini di negazione-privazione (l'a-teismo, l'a-gnosticismo), anziché in termini di pari valore positivo. Ma la Costituzione consente di premiare il "bisogno" religioso rispetto a quello a-religioso o anti-religioso, rivolto cioè a concezioni e pratiche filosofiche e morali di natura non confessionale? E poi, è concepibile che alla soddisfazione del "bisogno" religioso, che interessa solo parte della società, siano destinate risorse pubbliche, raccolte anche con il contributo di chi - per motivi di coscienza che, per Costituzione, non possono certo essere considerati inferiori - non solo non condivide, ma avversa con forte convinzione una concezione religiosa (o confessionale) della vita?
Ma, a parte queste considerazioni "di principio" (che pure mi appaiono fondamentali), anche a voler ritenere legittimo l'intervento "di favore" per il "bisogno religioso", esso si rivela impossibile sotto il profilo operativo, per le difficoltà che ho cercato già di evidenziare. Incentivare in qualsiasi modo il singolo o la formazione che si ispirino al fattore religioso è impossibile perché: a) lo Stato non ha alcuno strumento legittimo e nessun potere in merito alla definizione di ciò che è e ciò che non è religione; ogni tentativo in questa direzione non può che urtare contro l'intero elenco dei princìpi costituzionali, a partire da quello della laicità e del pluralismo, per arrivare a quello della tutela delle minoranze. I pretesi test di riconoscimento delle confessioni religiose risultano, se sottoposti ad un'analisi stringente, un florilegio di infrazioni ai princìpi portanti dell'assetto costituzionale; b) lo Stato non ha alcun diritto di "premiare" come comportamento "superconforme" (uso le ormai tradizionali categorie dell'analisi bobbiana del diritto premiale) chi affermi di essere mosso da convinzioni religiose, per tre buone ragioni: perché uno Stato laico non può privilegiare chi è mosso da motivazioni religiose rispetto a chi è sorretto da altre motivazioni di coscienza; perché lo Stato non può discriminare, nell'àmbito di coloro che sono mossi da motivazioni religiose, tra chi è (tanto superficiale nelle sue convinzioni da essere) disposto a rivelare le proprie motivazioni e chi non lo è; perché lo Stato non può premiare chi, essendo detentore di motivazioni di coscienza, si autodenuncia.
6. Se si condividono queste conclusioni, l'unica posizione che lo Stato può assumere nei confronti dei sentimenti religiosi e della libertà di coscienza è di perfetta indifferenza quanto ai rapporti "verticali", e di intransigente protezione del diritto individuale di libertà negativa, quanto ai rapporti "orizzontali" (il decreto-legge 122/1993, in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, è un buon esempio di intervento statale di questo secondo tipo). Insomma, l'orizzonte normativo che si apre allo Stato in materia di coscienza è tutto contenuto in questa bella proposizione normativa che Jefferson aveva scritto per la Virginia:
Noi, Assemblea Generale della Virginia, stabiliamo che nessuno possa venir costretto a partecipare o a contribuire pecuniariamente a qualsivoglia culto, edificio o ministero religioso, né possa esser sottoposto a coercizione, limitazione, molestia o peso alcuno a causa delle sue opinioni o fede religiosa; ma che tutti gli individui saranno liberi di professare, e di sostenere con la discussione, le loro opinioni in materia di religione, e che quest'ultima non potrà in alcun modo diminuire, accrescere o modificare la loro capacità giuridica[5].
In apparenza, ma solo in apparenza, questa affermazione sembrerebbe smentita dagli artt. 7 e 8,3 della Cost. Queste norme hanno presente il profilo "esteriore" e organizzativo che (solo eventualmente) le confessioni religiose possono assumere. Tramite il meccanismo dell'intesa (o quello speciale del concordato) possono essere regolati quegli aspetti "sociali" del culto (liturgie pubbliche, cortei e manifestazioni, assistenza religiosa ai credenti nelle istituzioni, istruzione religiosa, effetti civili di particolari celebrazioni religiose, norme cimiteriali ecc.) che potenzialmente interferiscono con la disciplina posta dall'ordinamento generale. Il meccanismo "individualizzante" dell'intesa è lo strumento indispensabile per assecondare le particolarità "sociali" dei culti.
Tuttavia, il meccanismo dell'intesa non può essere impiegato, a mio avviso, per usi diversi da quelli connessi all'aspetto sociale del culto. Un esempio scandaloso mi sembra la norma dell'intesa con le Chiese avventiste (recepita con la legge 516/1988), che consente agli adepti di queste di sollevare obiezione di coscienza anche in caso di richiamo alle armi (pur avendo svolto in precedenza il servizio militare di leva), costituendo così un privilegio inammissibile e del tutto eccezionale in capo a chi professa una fede religiosa e se la fa "certificare" dalla propria Chiesa. Norme di questo tipo sono fuori della portata del meccanismo dell'intesa (e sicuramente fuori anche dell'ordine costituzionale: perché derogano all'obbligo inderogabile di difesa della Patria; perché affidano ad un soggetto privato funzioni certificative dell'ortodossia religiosa dei privati, con le conseguenze descritte); esse rafforzano la tesi di chi ritiene che non sarebbe affatto inopportuno che una legge-quadro restringesse, non già la libertà dei culti di differenziarsi, ma gli oggetti su cui il governo può aprire le trattative con essi.
Insomma, gli artt. 7 e 8 non ci dicono niente in materia di libertà di coscienza: per questo motivo (e a questa condizione) ammettono l'intervento legislativo dello Stato.
[5] Th. JEFFERSON, Progetto di legge per l'introduzione della libertà religiosa in Virginia- 1779