Regolamenti
statali e attribuzioni legislative delle Regioni
Roberto Bin
1. La sentenza 507/2000 meriterebbe di essere commentata sotto diversi profili. Innanzitutto per la scelta di riunire in un unico giudizio questioni assai diverse che hanno, come riconosce la Corte stessa, oggetti “solo parzialmente coincidenti” essendo accomunati solo da una “connessione oggettiva”, ossia dall’essere ricompresi nella stessa legge: legge che, per altro, è una classica legge “omnibus”, le cui "Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica" hanno la natura più varia. D’altra parte, oltre alla connessione oggettiva, i ricorsi sono accomunati anche da un’evidente intento di polemica politica: i ricorsi provengono da tre Regioni governate da una maggioranza di segno opposto a quella che sorregge il Governo nazionale, e il contrasto politico non è ben celato, nei ricorsi, dalle argomentazioni tecniche. Ciò spiega come mai la Corte sancisca l’inammissibilità di ben cinque delle questioni sottopostele, vuoi perché le censure “si risolvono… in una critica politica alle scelte del legislatore statale, irrilevanti nella sede del giudizio di costituzionalità” (punto 9 del “in diritto”), vuoi perché le ricorrenti lamentano “la violazione di norme costituzionali che non riguardano la propria sfera di competenza” (vedi i punti 15, 17, 19), vuoi semplicemente perché non sono affatto argomentate (punto 39). Che piaccia o meno, la polarizzazione dello scontro politico è destinata a riflettersi sempre più sul contenzioso costituzionale: può sorprendere però che si rifletta senza un’adeguata interposizione tecnica, capace di trasformare la critica politica in efficienti argomentazioni giuridiche, spendibili di fronte ad un giudice quale pur sempre è la Corte costituzionale.
Un altro profilo interessante è l’abbondanza di pronunce “interpretative di rigetto” contenute nella stessa sentenza (ma senza traccia nel dispositivo[1]). Si tratta di questioni risolte attraverso una interpretazione adeguatrice della disposizione impugnata, tale da salvaguardarne la legittimità (vedi i punti 4, 13, 23, 27, 29, 33, 39 del “in diritto”). Nulla di nuovo, essendo da tempo nota la strategia delle Regioni di impugnare le leggi statali non tanto per farne dichiarare l’illegittimità, quanto per ottenere un’interpretazione preventiva tale da prevenire eventuali abusi nell’applicazione successiva[2]. L’unico aspetto degno di nota in questo caso, accanto alla constatazione della normalità che ha assunto questa tecnica di giudizio, è che la stessa Corte ormai correda le proprie “interpretative di rigetto” con l’esplicita indicazione che gli eventuali abusi del Governo, in sede di applicazione della disposizione interpretata, potranno essere contrastati dalle Regioni con un successivo ricorso (vedi il punto 33, dove si fa riferimento al conflitto di attribuzioni, e il punto 38, dove si prevede la possibilità di un ricorso avverso ai decreti legislativi delegati che “male interpretassero” la norma di delega).
Ancora degno di segnalazione è il tentativo di un Comune di intervenire in giudizio in opposizione al ricorso regionale (di una regione diversa da quella di appartenenza). Anche qui non si tratta di una novità, né è una novità che la Corte lo abbia respinto[3]. Il motivo addotto è la tardività del deposito della memoria, ma anche questa non è una novità: anche in altre occasioni, in passato, era stata questa la formula impiegata per respingere l’intervento di terzi[4], per cui sarebbe improprio arguire da ciò solo che la Corte abbia attenuato la rigida preclusione di principio all’intervento di altri soggetti rispetto al ricorrente e al resistente. Il ritardo del deposito è semplicemente un motivo assorbente: tutto qui.
2. Nel merito, la sentenza tocca due punti molto interessanti attinenti al sistema delle fonti.
Nel primo la Corte affronta il problema della legittimità di una legge che intende agire retroattivamente sull’applicazione di una legge precedente che aveva regolato gli effetti di una sequenza di decreti legge ormai decaduti, contraddicendo l’interpretazione “adeguatrice” che di quella legge la Corte stessa aveva fornito con due sentenze precedenti. Come si vede, siamo sempre nell’àmbito del “seguito” che hanno le sentenze interpretative di rigetto della Corte e degli strumenti che le Regioni hanno a disposizione per chiedere alla Corte l’”ottemperanza” delle sue precedenti decisioni.
Il secondo punto riguarda la questione assi delicata del rapporto tra i regolamenti statali e le attribuzioni regionali. È un problema diventato particolarmente rilevante e attuale da quando la legislazione statale ha avviato i ben noti programmi di delegificazione e di “semplificazione”, generando un incremento impressionante del ricorso ai regolamenti e, in particolare, a regolamenti “delegati”. Questa parte della sentenza merita quindi di essere letta con particolare attenzione.
Va però subito detto che essa non sembra modificare affatto l’impostazione tradizionale della Corte sul tema. Questa si basa su due affermazioni di base, una regola e un’eccezione.
La regola è che “i regolamenti governativi, compresi quelli delegati, non sono legittimati a disciplinare materie di competenza regionale o provinciale”[5]. Tale massima è stata costantemente applicata dalla Corte, anche se per lo più l’esito dell’impugnazione promossa dalle regioni contro le leggi che prevedevano un’attuazione regolamentare è stato – ancora una volta – una pronuncia di rigetto “interpretativo”, tesa a salvare la legge in quanto non applicabile alle regioni, ma solo alle amministrazioni statali[6], oppure a “derubricare” gli atti governativi a espressione di mero “coordinamento tecnico”[7].
Che il regolamento sia qualificabile come “delegato” non sposta certo i termini della questione: "i regolamenti governativi in questione - quand'anche caratterizzati dalla speciale efficacia propria dei regolamenti c.d. <delegati> - non risultano legittimati a disciplinare, per la naturale distribuzione delle competenze normative tra Stato e Regioni desumibile dall'art. 117 della Costituzione, le materie di spettanza regionale e, conseguentemente, neppure i procedimenti amministrativi attinenti a tali materie"[8]. Questo principio deriva del resto dalla "regola di base nei rapporti fra fonti secondarie statali e fonti regionali", che "è quella della separazione delle competenze, tale da porre le Regioni al riparo dalle interferenze dell'esecutivo centrale"[9].
La regola è rigorosamente confermata dalla sentenza in esame, nel punto 27 del ”diritto”: “lo strumento della delegificazione previsto dall'art. 17 della legge n. 400 del 1988 [non] può operare per fonti di diversa natura, tra le quali vi è un rapporto di competenza e non di gerarchia”. Le regioni avevano impugnato la disposizione legislativa che, “al fine di favorire l’innovazione dell’organizzazione amministrativa e di realizzare maggiori economie, nonché una migliore qualità dei servizi prestati”, prevede che le amministrazioni possano stipulare convenzioni per acquisire servizi e consulenze, rinviando a regolamenti governativi la definizione delle “disposizioni attuative”. La Corte rigetta la questione attraverso la consueta interpretazione adeguatrice: “la disposizione in oggetto deve intendersi nel senso che essa trova applicazione nei confronti delle Regioni solo in quanto pone un principio, peraltro di contenuto facoltizzante, per la legislazione regionale. Essa non si applica direttamente alle amministrazioni regionali, che sono disciplinate dalle leggi regionali, e non sono soggette, in linea di principio, alla disciplina dettata con i regolamenti governativi cui ivi si fa rinvio”. Perfettamente in linea con i precedenti, dunque.
3. Come ogni regola che si rispetti, anche questa ha la sua eccezione. La troviamo bene espressa in questa sentenza, al punto 4 dell’”in diritto”. Potrebbe essere massimizzata così: non è illegittimo che lo Stato, trasferendo alle regioni una materia “nuova”, detti, per il primo esercizio di tali competenze, norme regolamentari con funzione suppletiva, destinate a cedere alla successiva normazione regionale. Il presupposto dell'eccezione è però che si tratti di un regolamento che intervenga una materia "nuova", perché altrimenti le norme regolamentari si applicheranno soltanto laddove non vi sia una precedente normativa regionale: è ciò che aveva stabilito la Corte, in via di principio, nella lontana sent. 226/1986[10], ed ha confermato in concreto nella sent. 378/1995[11] (dichiarando non applicabile al solo Piemonte – ricorrente - il regolamento sullo sci nautico nelle acque interne) e nella sent. 174/1991[12] (dichiarando non applicabile alla sola Lombardia – ricorrente – alcune disposizioni del regolamento di polizia mortuaria).
Nel nostro caso la Corte non ha alcuna difficoltà a ribadire la validità dell’eccezione, anche perché lo stesso regolamento emanato in forza della disposizione impugnata riconosce esplicitamente la sua cedevolezza rispetto alla futura successiva normazione regionale. Come avevano osservato i commentatori delle decisioni precedenti[13], questa ricostruzione della funzione del regolamento statale risponde alla stessa logica che aveva ispirato la sent. 214/1985, leading case nella giurisprudenza costituzionale in materia di rapporto tra fonti statali e regionali. La logica è quella della preferenza per la legge regionale[14]. Alla legge statale va assicurata, anche a mezzo di regolamenti, l’operatività immediata: se le norme di dettaglio sono poste dalla legge statale, esse abrogheranno quelle delle precedenti leggi regionali; se sono poste con regolamento statale, varranno soltanto se, e soltanto se, non ci sono norme regionali precedenti (“novità” della materia); fermo restando che comunque le leggi regionali successive sono destinate a prevalere sulle disposizioni di dettaglio dettate da fonte statale.
[1] Che manchi per lo più nel dispositivo delle sentenze della Corte nei giudizi in via principale la classica locuzione “ai sensi di cui in motivazione” è un fatto da cui non si può trarre la conclusione che sia scomparsa da questo tipo di giudizio la tipologia delle sentenze interpretative di rigetto (cfr. E. ROSSI, Il giudizio di costituzionalità delle leggi in via principale, in Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1996-1998), a cura di R. Romboli, Torino 1999, 275.
[2] Cfr. R. BIN, L'importanza di perdere la causa, in Questa Rivista 1995, 1012 ss.
[3] Vedi ord. 130/1977, in questa Rivista 1977, 1326 ss. Sul punto cfr. E. GIANFRANCESCO, Intervento delle Regioni terze e dei terzi interessati nel giudizio in via d’azione, in Il contraddittorio nel giudizio sulle leggi, a cura di V.Angiolini, Torino 1998, 225 ss., 238 ss.
[4] Cfr. ancora E. GIANFRANCESCO, op. cit., 227,
[5] Con queste parole si è espressa la Corte nella sent. 482/1995.
[6] Si vedano in questo senso, oltre alla decisione appena citata, le sentt. 465/1991, 482/1991, 483/1991, 507/1991, 517/1991, 97/1992, 70/1995, 333/1995, 408/1998; accolgono invece il ricorso regionale le sentt. 204/1991, 391/1991, 461/1992, 250/1996, 61/1997, 352/1998 (secondo la quale è "pacifico" il principio "secondo il quale non è ammissibile che norme dirette a limitare l'esercizio delle competenze regionali o provinciali siano poste attraverso un regolamento ministeriale"), 169/1999 (che ribadisce "l'orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo il quale i regolamenti, governativi o ministeriali, non sono in via di principio legittimati a disciplinare, in ragione della distribuzione delle competenze normative fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 della Costituzione, le materie di spettanza regionale")
[7] Cfr. R.BIN, "Coordinamento tecnico" e poteri
regolamentari del Governo: spunti per un'impostazione
"post-euclidea" della difesa giudiziale delle Regioni, in questa Rivista 1992, 1449 ss.; nonché
M.CARTABIA, Regolamenti del Governo e
competenze regionali: l'autonomia regionale tra esigenze di uniformità ed
esigenze di efficienza, in Giur.cost.
1992, 4158 ss.
[8] Sent. 465/1991.
[9] Sent. 250/1996, su cui cfr. M.CARTABIA, Regolamenti del Governo e leggi regionali: la Corte torna (definitivamente?) al principio di separazione di competenza, in Giur.cost. 1996, 2272 ss.
[10] In questa Rivista 1987, 385 ss. (con nota di M.Luciani, citata in seguito); si veda anche la sent. 49/1991
[11] In questa Rivista 1996, 171 ss.
[12] In questa Rivista 1992, 529 ss. (con nota di F.Dimora)
[13] Cfr. in particolare M.LUCIANI, Nuovi rapporti fra Stato e Regioni: un altro passo della giurisdizione costituzionale, in questa Rivista 1987, 385 ss.
[14] L’espressione risale, com’è noto, a V. CRISAFULLI, Vicende della "questione regionale", in questa Rivista 1982, 495 ss., 502 ss.; cfr. anche A. ANZON, Mutamento dei "princìpi fondamentali" delle materie regionali e vicende della normazione di dettaglio, in Giur. cost. 1985, I, 1660 ss., 1668; L. CARLASSARE, La "preferenza" come regola dei rapporti tra fonti statali e regionali nella potestà legislativa ripartita, in questa Rivista 1986, 236 ss.; R.TOSI, "Principi fondamentali" e leggi statali nelle materie di competenza regionale, Padova 1987, 59 ss.