Scivolando sempre più giù
Roberto Bin
1. Il peccato originale
La scelta compiuta dalla legge cost. 1/1953, di assegnare alla Corte costituzionale il giudizio sull’ammissibilità del referendum abrogativo, era scontata; ma la scelta compiuta dalla legge 352/1970, di collocare il giudizio della Corte come ultima tappa del lungo procedimento referendario, non solo non lo era, ma appare la logica premessa di uno sviluppo perverso che sfocia in esiti paradossali. La Corte, infatti, è posta a regolare i meccanismi del referendum – quelli particolari, che attengono al singolo quesito, e quelli generali che, esprimendo le regole dell’uso dello strumento referendario “in sé e per sé”, costituiscono la giustificazione delle singole decisioni di ammissibilità – al termine del lungo processo di lievitazione dell’interesse politico per il quesito, quando ormai esso è al centro dell’attenzione dei (e dello scontro tra i) partiti. È una collocazione sbagliata, perché rende impossibile alla Corte costituzionale di sostenere il ruolo che le è attribuito.
La Corte è chiamata a regolare, con la sola forza delle proprie argomentazioni, lo scontro politico, quando questo sta ormai raggiungendo il culmine: avvitando i suoi argomenti deve regolare la pressione della pentola già portata ormai ad ebollizione. È un esercizio molto pericoloso, in cui la Corte costituzionale mette in gioco la sua stessa legittimazione. Da qui l’imperativo della prudenza, l’esigenza di procedere sulla base delle argomentazioni passate, ormai “raffreddatesi”, di evitare altri strappi clamorosi, dopo quello decisivo del 1978. Ma questa tattica mostra oggi i suoi limiti: la progressiva rielaborazione dei test introdotti con la “storica” sentenza 16/1978 ha messo in luce tutti i limiti e le difficoltà insite in quei test, che mostrano di non reggere il confronto con l’esperienza e, soprattutto, con referendum come quelli sulle leggi elettorali.
Con quella sentenza la Corte aveva cercato di dettare una disciplina generale dell’ammissibilità del referendum, tale da giustificare una giurisprudenza più selettiva e rigorosa: questo avrebbe dovuto consentire alla Corte di procedere in seguito sul filo dei propri precedenti, e quindi più al riparo dalle critiche più aspre. Oggi questo tentativo sembra in larga parte fallito, e il fallimento rischia di travolgere anche gli altri settori di attività della Corte.
2. Omogeneità
del quesito, referendum manipolativo e coerenza della normativa di
risulta: un rebus
Che il referendum debba avere un quesito unitario ed omogeneo per non corrompersi in uno strumento plebiscitario di cattura del consenso è perfettamente accettabile: quanto la sent. 16/1978 dice a proposito della libertà di voto mi è sempre apparso una pagina luminosa di diritto costituzionale. Il quesito è omogeneo quando è sussumibile in un unico principio: questo è un passo ulteriore, inevitabile anche se apre le porte ad una tematica sempre assai difficile, quella dei princìpi; ma pressoché nulla di quello che la Corte fa si può sottrarre a questa tematica.
Che, per assicurare l’omogeneità del quesito, sia necessario badare alla “pulizia” della normativa di risulta, può sembrare un passo ragionevole e forse necessario. La Corte se ne è servita talvolta come scudo per una strategia formalistica di opposizione ai referendum: ma il cattivo uso dello strumento non inficia di per sé la sua validità. A me sembra però che la conseguenza di questo ragionamento debba essere la seguente: che i referendum manipolativi sono, non solo ammissibili, ma assai spesso necessari – nel senso che il referendum può essere giudicato ammissibile solo se è manipolativo.
Premetto che non credo nella possibilità di distinguere tra abrogazione parziale e manipolazione del testo: dovremmo altrimenti destituire di legittimità molta parte della giurisprudenza formatasi nel sindacato costituzionale sulle leggi. Metafore come le fortunate “rime obbligate” di Crisafulli stanno ad indicare – allusivamente, è ovvio - la “misura” oltre alla quale è bene che la Corte non si spinga nel manipolare i testi legislativi, ma certo non ci offrono criteri precisi per dire se un’operazione manipolativa è legittima o meno. Nel contesto del referendum abrogativo, poi, distinguere tra l’abrogazione parziale (ammissibile) e la manipolazione (inammissibile) è sicuramente ancora più difficile: anzi, a mio avviso, è sbagliato, e per le stesse ragioni che la Corte ha utilizzato e sviluppato nella sua giurisprudenza.
Mentre la dichiarazione di illegittimità parziale delle leggi deve restare nelle “rime obbligate” dei princìpi della legislazione vigente (altro non fa che rendere più completa e coerente – con la Costituzione, ma anche con se stessa - l’applicazione delle rationes sottese alle scelte compiute dal legislatore), il referendum abrogativo è diretto a rimuovere quelle disposizioni, volute dal legislatore, che rispondono ad una stessa ratio. Dunque, mentre la sentenza “manipolativa” non muta, ma anzi rafforza, i “princìpi” della legislazione (toglie un ostacolo alla più armonica espansione di quei princìpi), il referendum abrogativo non può che essere innovativo sul piano dei “princìpi”: è la “omogeneità” del quesito a pretendere che l’oggetto della richiesta abrogazione siano le disposizioni riconducibili ad un principio unitario – principio che, dunque, viene abrogato insieme alle disposizioni che lo incarnano. Ma dopo l’intervento demolitorio, e dopo il raschiamento conseguente (reso necessario dall’esigenza che nel corpo legislativo non rimangano disposizioni ancora legate al principio abrogando), se si tratta di leggi “costituzionalmente necessarie”, come certo son quelle elettorali – è indispensabile anche un intervento di chirurgia plastica, che renda “direttamente applicabile” la normativa di risulta. Che cosa significa ciò se non l’esplicita dichiarazione che il referendum abrogativo, se indetto su leggi come quelle elettorali, deve necessariamente essere manipolativo? È un risultato paradossale, lo so: ma è uno sviluppo coerente delle premesse.
3. Un
esperimento mentale
Che il difetto stia nelle premesse lo possiamo dimostrare attraverso un esperimento mentale. L’on. Calderisi ci ha raccontato anche oggi che quando si mise mano alla stesura della legge “Mattarella” ci fu chi si preoccupò del drafting nella prospettiva di un futuro, probabile referendum “manipolativo”, ossia di scrivere la legge in modo da poter costruire poi un valido quesito referendario. Come dire: la legge è nata già contenendo il suo “principio” manipolativo, è stata cioè approvata con la dissenting (o forse la concurring) opinion di una parte di coloro che la votarono. Allora la “manipolazione” voluta dai promotori del referendum di oggi non è estranea alle rationes legis: è una delle anime che in essa si fusero.
Proviamo però a pensare cosa accadrebbe nell’ipotesi opposta, quella di un drafting attentamente studiato per impedire la costruzione di quesito referendario che sia omogeneo e assicuri la funzionalità della normativa di risulta. È un’ipotesi tutt’altro che improbabile, perché è facile prevedere che proprio così sarà scritta la prossima legge elettorale. Se la Corte costituzionale continuerà ad avvitare i propri argomenti sul filo dei precedenti, il risultato sarebbe certo scontato: mai più un referendum abrogativo di leggi elettorali, almeno per le elezioni politiche. È questo non sarebbe anche un risultato paradossale? Il parlamento, somma espressione del sistema rappresentativo, potrebbe “blindare” il proprio sistema di elezione, togliendo al referendum, unico contropotere di democrazia diretta, ogni possibilità di spezzare l’autoreferenzialità del sistema politico. La maggioranza parlamentare - cui incautamente i costituenti hanno affidato il compito di attivare, con legge, i principali congegni di “contropotere” (regioni, referendum, Corte costituzionale ecc.): e se ne sono viste le conseguenze! – non solo potrebbe a suo piacimento innalzare il grado di difficoltà del procedimento referendario (modificando la legge del ’70), ma potrebbe di fatto estendere i casi di inammissibilità previsti dall’art. 75 Cost., semplicemente “blindando” il testo delle leggi che intende sottrarre al referendum. Almeno per le leggi “costituzionalmente necessarie” (quella sul referendum inclusa) il risultato sarebbe garantito!
A me sembra che questo secondo paradosso sia assai più allarmante del primo: che alla Corte costituzionale non possa sfuggire il grave sbilanciamento degli equilibri tra i poteri dello Stato (l’ha detto la Corte che il corpo elettorale rientra tra essi) e tra le forme di democrazia che così si produrrebbe: che perciò debba evitare di dare un ulteriore giro di vite ai propri argomenti. Non tanto quello sull’omogeneità del quesito, che mi sembra sacrosanto; ma quelli che riguardano la coerenza e la funzionalità della normativa di risulta. Possibile che non si possano trovare vie alternative, che consentano di effettuare il referendum senza trovarsi, a causa dell’inerzia del legislatore, privi della legge che fa funzionare gli organi costituzionali? Possibile che la Corte costituzionale, che – sempre per l’inerzia del legislatore – ha dovuto inventarsi complesse (e spesso discutibili) formule di dispositivo, per arricchire lo scarno strumentario di cui è stata dotata in origine, non abbia la fantasia necessaria per introdurre anche nelle sue pronunce di ammissibilità quelle variazioni “interpretative” che consentano di contemperare l’effetto del referendum abrogativo con le esigenze di funzionalità delle istituzioni? Le pronunce interpretative, parziali, manipolative, nate nelle questioni incidentali, si sono rapidamente diffuse nei giudizi in via principale e poi anche nei conflitti: solo i giudizi di ammissibilità sembrano impenetrabili. E poi, chi ha detto che l’art. 37 della legge sul referendum – quello che prevede la dichiarazione dell’avvenuta abrogazione da parte del Presidente della Repubblica - sia intangibile? Se è la rigidità di questo meccanismo a rendere pericoloso l’eventuale esito positivo del referendum, non potrebbe la Corte, sollevando davanti a se stessa la questione incidentale, dichiararlo illegittimo “nella parte in cui…”, in modo di ridare la necessaria elasticità al meccanismo? Dov’è la rilevanza della questione? Se sono gli effetti del referendum a determinare il giudizio di ammissibilità, la norma che regola quegli effetti non può non essere rilevante in quel giudizio. Non si può essere antiformalisti nel giudizio di ammissibilità e formalisti nel giudizio sulla rilevanza: avvitando così gli argomenti si rischia di spanare la vite.
Il rischio che si annida nel giudizio cui la Corte costituzionale è chiamata prossimamente non è tanto nell’esito né nell’accoglienza che esso avrà. Se ammesso, il referendum sarà probabilmente confortato dal voto di molti elettori cui non piace il sistema elettorale “di risulta” e certo non se ne aspettano conseguenze salvifiche, ma che vogliono scuotere il sistema politico: forse il sistema si scuoterà prima del voto popolare, visibilmente temendolo. Il vero rischio, a mio modo di vedere, è che la Corte costituzionale continui a scivolare in giù, lungo la spirale delle proprie argomentazioni, sino al punto di trovarsi, in futuro, talmente compromessa dai suoi precedenti da non poterne venire fuori senza un clamoroso révirement. Ogni révirement segna, nella vita del giudice costituzionale, una piccola crepa nella sua legittimazione: ma nei giudizi di ammissibilità del referendum tali crepe sono troppo minacciose. Manovrare la valvola dell’ammissibilità è assai pericoloso e, come dicevo all’inizio, richiede tanta prudenza: ma la prudenza è, innanzitutto, guardare avanti e controllare la direzione in cui si sta procedendo.