La rappresentanza territoriale in Italia
Una proposta di riforma del sistema delle conferenze, passando per il definitivo abbandono del modello Camera delle Regioni
di Roberto Bin e Ilenia Ruggiu
(in corso di pubblicazione su “Le istituzioni del federalismo”)
Sommario: 1. La rappresentanza territoriale tra mito e realtà. – 2. Il mito della Camera delle Regioni nasce da un equivoco storiografico. – 3. Altri argomenti che sostengono il modello Camera delle Regioni e loro confutazione. – 4. Perché l’attuale sistema delle conferenze italiano è insoddisfacente. – 5. Alla ricerca di best practices nel diritto comparato. – 6. Una proposta di riforma legislativa della Conferenza Stato-Regioni. – 7. Il nodo della rappresentanza degli enti locali. – 8. Il declino delle Assemblee elettive tra miti fuorvianti e rimedi possibili.
1. La rappresentanza territoriale tra mito e realtà
La necessità di razionalizzare l’assetto della rappresentanza territoriale in Italia è sempre più impellente. Sin dall’inizio della sua giurisprudenza applicativa del “nuovo” Titolo V, la Corte costituzionale sta lanciando continui segnali sul fatto che il sistema del riparto delle competenze “per materie” non regge di fronte all’esigenza di riconoscere i ruoli dei diversi livelli di governo in relazione alle politiche pubbliche. Queste, infatti, solo raramente si fanno contenere in un’unica “materia”, essendo per lo più caratterizzate da un “intreccio” di competenze che non può essere tagliato con linee nette e convincenti. Le materie “trasversali”, le materie “obiettivo”, le materie “valore”, le materie “concorrenti”, le materie “richiamate” al centro in chiave di sussidiarietà non costituiscono eccezioni, ma la regola: per esse la risposta costituzionalmente adeguata – spiega di continuo la Corte – non è la distinzione delle competenze assegnate dalla Costituzione ai diversi enti di governo, ma la cooperazione politica tra essi: per cui buona parte dei conflitti che insorgono sono risolti richiamando all’esigenza di attivare efficienti moduli cooperativi[1].
Tali moduli in Italia già esistono e sono identificabili nel sistema delle conferenze che, sin dagli anni ’80, ha costituito l’unica risposta istituzionale alla questione dei raccordi centro-autonomie. Tuttavia il giudizio su questa esperienza è generalmente negativo: alle critiche, certamente fondate, che sono state mosse al funzionamento concreto delle conferenze (che saranno approfondite nel § 4) si aggiunge però una contestazione più radicale e “ideologica”, che mette in dubbio la sufficienza in sé e per sé del sistema dei raccordi tra esecutivi che le conferenze potrebbero garantire: ciò che si contesta è la stessa ipotesi che la via italiana al federalismo e il tassello mancante alla riforma del Titolo V possano essere ravvisati in una valorizzazione del sistema delle conferenze. La via maestra – si ribatte – dovrebbe essere un’altra, quella che conduce alla “regionalizzazione” del Parlamento, ossia alla istituzione della Camera delle Regioni, unico vero modello di rappresentanza territoriale adeguato ad un sistema di regionalismo avanzato o di assetto federale.
Questa è considerata da sempre una condicio sine qua non del federalismo. Eppure negli Stati in cui essa è presente dà continua prova di scarso rendimento, mentre tanto in essi quanto negli Stati in cui è assente sono fiorite, in via di prassi o a livello subcostituzionale, formule rappresentative che si orientano in tutt’altro senso rispetto a tale modello e che risultano molto più efficaci sul piano della proiezione degli interessi territoriali al centro. La realtà sembra confutare i modelli, eppure questi continuano ad esercitare un’attrazione magnetica, a condizionare fortemente il dibattito attorno alle istituzioni.
In effetti gli argomenti impiegati per sostenere l’opportunità di introdurre la Camera delle Regioni sono diversi, ma sono anche persuasivi? Proviamo ora ad esaminarli criticamente, mossi dal sospetto che tale modello, considerato la panacea di tutti i mali del federalismo, non si fondi affatto in un’accurata indagine sulle esperienze storiche e sul funzionamento effettivo dei sistemi federali, ma costituisca uno schermo ideologico che distoglie l’attenzione dalla ricerca di una soluzione più funzionale e politicamente praticabile al problema del raccordo tra centro e autonomie.
2. Il mito della Camera delle Regioni nasce da un equivoco storiografico
Un primo argomento addotto per sostenere la necessità di una Camera delle Regioni è quello storico. Tutti i primi Stati federali – si sostiene – hanno introdotto una Seconda camera territoriale: questa, dunque, fa parte integrante del DNA federale. Si è costruito così un “archetipo” del federalismo – da cui discenderebbe la Camera delle Regioni – sulla base di una visione semplificata e incompleta dei primi organi di raccordo centro-territori che, come vedremo, prevedevano essenzialmente momenti di contatto con il Governo e soltanto in un secondo momento hanno visto accentuare le proprie funzioni camerali.
I due organi federali per antonomasia – il Bundesrat tedesco e il Senato americano – presentano, nella loro genesi, una forte impronta paragovernativa. Essi nacquero con l’intento di tutelare le prerogative di pre-esistenti Stati sovrani che rinunciavano a parte della loro sovranità per unirsi in federazione, ma che volevano, tramite tali organi, conservare la partecipazione a funzioni chiave dello Stato, funzioni che si concentravano prevalentemente sul Governo.
Ripercorrendo la storia del federalismo tedesco è possibile rilevare la genesi paragovernativa di tutti gli antenati dell’attuale Bundesrat non soltanto sotto il profilo della composizione, ma soprattutto per le funzioni svolte[2]. La matrice del Bundesrat si ravvisa, ancor prima della creazione dello Stato tedesco, nel Frankfurter Bundesversammlung istituito con la Confederazione del 1815 come organo dei governi degli Stati che aderivano alla Lega tedesca. Si trattava di un organo confederale che mirava all’adozione di decisioni di interesse comune tra i Governi degli Stati confederati ancora pienamente sovrani.
Con la creazione dello Stato tedesco, nel 1871, l’organo di rappresentanza degli Stati che confluivano nella Federazione – il Bundesrath della Costituzione imperiale del 1871 – conservò gran parte delle caratteristiche del Frankfurter Bundesversammlung. In esso continuavano a sedere i Governi degli Stati che avevano accettato la perdita della propria sovranità ottenendo in cambio una forte partecipazione all’indirizzo politico centrale. Prove della sua natura paragovernativa si ravvisano nell’emanazione dei regolamenti generali e delle “istruzioni generali necessarie per l’esecuzione delle leggi dell’Impero”; nelle funzioni di controllo esercitate dalle sue commissioni, definite come veri e propri “ministeri federali ante litteram”[3]; nel fatto che il Presidente del Bundesrath fosse lo stesso Cancelliere capo dell’amministrazione del Reich, nominato dall’Imperatore; nel fatto che i membri del Bundesrath godessero delle garanzie diplomatiche in quanto “rappresentanti straordinari e ministri plenipotenziari”[4].
Anche il Reichsrat della Costituzione di Weimar del 1919 conservò caratteristiche che lo rendevano distante da una Seconda camera, come dimostrano vari fattori: tolta ogni parvenza “confederale”, indebolito nelle sue funzioni, esso rappresentava i governi dei Länder tedeschi (e dalle amministrazioni provinciali prussiane) “nella legislazione ed amministrazione del Reich”, era convocato dal Governo del Reich e presieduto da un suo membro. L’interlocutore del Reichsrat è il Governo federale, che deve ottenerne il consenso sui disegni di legge, che però può presentare al Reichstag anche contro il parere del Reichsrat purché ne dia conto.
Tutt’oggi le tracce di tale genesi sono fortissime. Come ha avuto modo di chiarire il Tribunale costituzionale tedesco nella sentenza del 25 giugno 1974[5], il Bundesrat “non è una seconda camera”, ma “un organo di partecipazione”, che coinvolge i Länder nelle decisioni statali di tutti gli organi costituzionali, Governo incluso. Non a caso i suoi membri continuano a sedere, in Parlamento, nei posti riservati al Governo; diverso è il regime di pubblicità delle sedute; l’organo dialoga costantemente anche con il Governo tramite diritti di informazione e proposta e la stessa dottrina qualifica il Bundesrat sia come “seconda camera” (per le funzioni camerali che “di fatto” svolge pur non essendo formalmente una seconda camera) che come “secondo governo”[6].
La componente paragovernativa è visibile, sia pure con più fatica, anche nel Senato americano[7]. Questo costituisce una gemmazione del Congresso confederale creato il 9 luglio 1781 con gli Articles of Confederation. Anche in tal caso, si trattava di un organo dove sedevano i governi delle 13 colonie, non ancora riunite in Federazione. Il Congresso aveva una duplice natura, esecutiva e legislativa al tempo stesso, occupandosi cumulativamente di funzioni che soltanto in seguito saranno distribuite tra i diversi poteri in cui verrà ad articolarsi la Federazione americana[8]. L’organo – a quel tempo unica istituzione delle 13 colonie – adottava tutte le principali decisioni di indirizzo politico comune e si occupava, altresì, dei rapporti con l’estero. Quando nel 1787 l’affermarsi delle tesi dei “federalisti” portò al ridisegno istituzionale della Costituzione di Filadelfia, i poteri del Congresso del 1781 si distribuirono tra i vari nuovi organi costituzionali, secondo i ben noti principi montesquieani e dei checks and balances, ma il Senato conservò alcune prerogative che riecheggiavano il vecchio modello confederale[9]. Tra queste si annoverano quella di partecipare tramite il proprio parere e consenso – advice and consent – alle decisioni presidenziali circa la nomina di alti funzionari e la stipula di trattati internazionali (art. 2 Cost.). Tali funzioni, precluse all’altra Camera, hanno spinto la dottrina a ravvisare nel Senato americano un “organo consultivo del Presidente, se non addirittura come esso stesso partecipe della natura esecutiva del Presidente, con il quale veniva a costituire quasi un nuovo organo costituzionale, di carattere collegiale, preordinato alla determinazione della linea di politica estera della federazione”[10].
Il caso americano e tedesco rivelano che il movente primigenio della presenza delle autonomie al centro non era quello di coinvolgerle in un dialogo con il Parlamento, bensì di far conservare, ad ormai dissolte entità sovrane, la possibilità di concordare scelte cruciali dell’indirizzo politico governativo.
Ulteriori elementi che mettono in discussione l’argomento storico a sostegno della Camera delle Regioni si desumono da altri prototipi di esperienze federali.
Il caso canadese dimostra, ad esempio, che se è vero che il modello Camera delle Regioni ha origini antiche, anche il modello del raccordo intergovernativo tramite le conferenze non è da meno[11]. La prima Conferenza Stato-Regioni della storia è databile al 1868, quando in Canada ebbe inizio una lunga serie di incontri tra il premier centrale e i Presidenti delle Province tramite la Dominion-Provincial Conference[12]. La convocazione dell’organo aveva luogo appena un anno dopo la creazione della Federazione, che pure prevedeva un Senato federale. Fu di nuovo in Canada che una Commissione governativa ufficiale – la Rowell-Sirois Commission, istituita nel 1937 per esprimersi su come razionalizzare il federalismo – indicava proprio nella stabilizzazione del modello conferenze la strada da percorrere[13].
Con l’avvento dello Stato sociale e l’affermarsi del federalismo cooperativo, il coordinamento intergovernativo tendeva a diffondersi e a stabilizzarsi. Organi simili fiorirono presto anche negli Stati Uniti dove nel 1930 Roosevelt convocava la prima Governors Conference, mentre il Senato ormai aveva perso – sin dal XVII emendamento del 1913 che eliminava il sistema di nomina dei senatori da parte delle Assemblee degli Stati membri – la sua connotazione squisitamente federale per entrare nelle dinamiche politico-partitiche nazionali[14].
Infine, sempre la storia, ci offre esempi di regionalismo costruiti in un contesto monocamerale: è il caso della Costituzione della Repubblica spagnola del 1931, utilizzata come matrice per la costruzione sia dello Stato regionale italiano nel 1948, sia dello Stato autonomico spagnolo nel 1978[15]. Per quanto abbia avuto breve durata, la Costituzione del 1931 è considerata avanzatissima per quei tempi sotto il profilo dell’implementazione dell’autonomia territoriale ed essa trascura completamente l’ipotesi di allocare la rappresentanza territoriale in sede parlamentare tramite una Seconda camera delle autonomie.
Non è, dunque, vero che la Camera delle Regioni faccia parte del codice genetico del federalismo, posto che i primi organi di rappresentanza territoriale non erano vere e proprie Assemblee parlamentari, che sono esistite forme di stato composto monocamerali e che il modello di raccordo intergovernativo ha radici altrettanto antiche. Il fatto che tutto ciò che non sia Camera delle Regioni venga ascritto a patologie del federalismo o a sue deviazioni fattuali, magari funzionali, ma pur sempre estranee al modello autentico e primigenio, non può, dunque, trovare supporto nella storia delle prime esperienze federali. Anzi, la traccia della matrice internazionalista da cui esse derivano – quella stessa che, per esempio, ha indotto la Convenzione americana (così come è accaduto in Europa almeno sino al varo infelice del Trattato Costituzionale) a posporre il tema della “carta dei diritti” rispetto alla scrittura delle regole costituzionali che determinano i rapporti tra i livelli di governo[16] – si ripercuote necessariamente nel rafforzamento del ruolo degli esecutivi. Sotto questo profilo, la stessa storia dell’unificazione europea, così fortemente debitrice rispetto ai modelli istituzionali sviluppati dalla storia tedesca, è paradigmatica. Il Consiglio dei Ministri è stato a lungo l’organo detentore in via esclusiva del potere legislativo della Comunità, pur non essendo certo un organo di tipo “parlamentare”: oggi gli si è affiancato in larga parte della produzione normativa il Parlamento europeo, eletto direttamente. Tuttavia nessuno è propenso a ridefinire il Consiglio come “la seconda Camera” dell’Unione europea. Si dice che il Consiglio rappresenti l’elemento “intergovernativo” dell’Unione, ma lo è nella stessa misura in cui lo può essere il Bundesrat in Germania.
3. Altri argomenti che sostengono il modello Camera delle Regioni e loro confutazione
Un secondo argomento volto a sostenere la necessità di una Camera delle Regioni per addivenire ad un compiuto modello di federalismo è quello comparato. Tutti gli Stati federali contemporanei – si sostiene – presentano una Seconda Camera: essa fa ovunque parte del test del federalismo[17].
Tale argomento è confutabile da più punti di vista. In primo luogo, se pur rari, è possibile registrare la presenza di Stati federali che ne sono privi[18]. In secondo luogo, se è vera l’alta diffusione del modello, è altrettanto vero che la sua circolazione ha una valenza meramente nominalistica visto che l’organo è sì presente nei vari disegni costituzionali, ma non funziona pressoché mai come luogo di proiezione degli interessi territoriali. In terzo luogo, proprio l’elemento comparato ci rivela che è sempre più frequente assistere alla previsione, nelle stesse costituzioni, di riferimenti al coordinamento intergovernativo. Si pensi alla Costituzione svizzera riformata nel 1999 e a quella sudafricana del 1996 che, pur non osando costituzionalizzare vere e proprie Conferenze Stato-Regioni alternative ai rispettivi Senati federali, richiamano la necessità di generiche “forme di coordinamento intergovernativo”, riconoscendo quantomeno che tale coordinamento deve essere complementare a quello realizzato dal Senato. Sempre a livello comparato si registrano, nel periodo più recente, federalizing processes che nemmeno hanno preso in considerazione l’ipotesi di regionalizzare il Senato. Il più eclatante è quello britannico – concentratosi da subito sul modello conferenze con il Joint Ministerial Committee, organo previsto, invero, non da una legge ma da un atto di soft law –, ma anche quello italiano ha dimostrato di poter funzionare senza un Senato federale. Negli Stati in cui la Costituzione prevede la Camera delle Regioni, d’altra parte, il coordinamento intergovernativo si afferma costantemente, o in via legislativa o in via di prassi, come secondo binario del coordinamento, con tendenza ad essere il vero perno della rappresentanza territoriale scalzando la pur presente Camera regionale generalmente in balia di logiche partitiche. L’argomento comparato, in sintesi, pur quantitativamente pregnante è in sé privo di forza probante se, come già denunciava Wheare nel lontano 1963, pressoché nessuno dei Senati federali esistenti funziona[19].
Un terzo argomento a favore della Camera delle Regioni è quello del coinvolgimento dei territori nel procedimento legislativo. Soltanto immessi nel Senato – si sostiene – i territori potranno esprimersi in ordine all’approvazione sia di revisioni costituzionali che di leggi ordinarie.
Tale argomento, a ben vedere, è venuto a poco a poco sgretolandosi con l’indebolirsi della centralità parlamentare[20]. In contesti in cui i parlamenti appaiono sostanzialmente luoghi di proiezione di decisioni adottate dalla maggioranza al Governo, è molto più conveniente per i territori (così come per le formazioni sociali) dialogare con tale circuito che è il centro nevralgico delle decisioni. In un’ottica di bilanciamento dei poteri, peraltro, l’effetto di contro-potere della rappresentanza territoriale si massimizza proprio obbligando il Governo ad un dialogo con i territori[21]. D’altra parte la collocazione parlamentare della rappresentanza territoriale ha presentato da sempre la tendenza ad essere risucchiata in logiche partitiche. Persino il Bundesrat tedesco non ne è restato immune. Si tratta di un effetto che né la dottrina né gli “ingegneri costituzionali” sono mai riusciti ad arrestare e che appare irrimediabile, stante la peculiare esposizione mediatica del Parlamento, l’elevato tasso di pubblicità delle sue sedute, la sua posizione di cassa di risonanza della dialettica partitica[22]. Soltanto una collocazione autonoma dell’organo rappresentativo dei territori potrà garantire una conservazione della “genuinità” delle istanze di cui questo è chiamato a farsi portatore. Il dialogo dei territori con il Parlamento nei processi di legislazione ordinaria o costituzionale può, d’altra parte, essere ricercato per altre vie, ad esempio con formule consultive con un organo territoriale non incardinato nel Parlamento, ma concepito in posizione autonoma nella cornice istituzionale.
Un quarto argomento pro-Camera delle Regioni è quello che ne esalta la funzione di integrazione della rappresentanza politica: negli Stati composti dove la sovranità è ripartita tra livelli di governo – si sostiene – la rappresentanza politica deve affiancarsi ad una rappresentanza degli interessi territoriali, perché diversi sono i principi di legittimazione del potere politico. L’argomento si nutre dell’amplissima dottrina che da tempo denuncia la crisi della rappresentanza politica e che cerca di rivitalizzare l’istituto aprendolo a nuove formule rappresentative che non la scalzino, ma ad essa si affianchino.
In realtà la pretesa di voler fondere in un unico organo, il Parlamento, istanze rappresentative così diverse produce un corto circuito ab origine. Tradizionalmente la rappresentanza territoriale è marcata da una forte componente settoriale, da cui si è affrancata molto lentamente. Le caratteristiche della rappresentanza politica ascrivibile alla categoria della Repräsentation (rappresentanza generale o rappresentazione), stridono con quelle della rappresentanza territoriale che meglio si colloca nella categoria della Vertretung (rappresentanza di interessi particolari)[23]. Se è vero che gli organi territoriali non possono essere equiparati in toto ad organi corporativi né le regioni a normali pressure groups, è pur vero che la presenza dei territori in Parlamento finisce, prima o poi, per imporre conflitti di lealtà ai rappresentanti regionali stretti tra logiche dell’interesse generale del sistema-Paese o di difesa della propria Regione. Non va dimenticato, inoltre, il rischio più grosso ossia quello di fagocitazione delle logiche territoriali in quelle partitiche che, peraltro, il dato comparato dimostra non essere una mera eventualità, ma una realtà di tutti i Senati territoriali esistenti. È dunque opportuno operare una chiarificazione “topografica” dei luoghi e dei soggetti preposti a rappresentare istanze diverse evitandone la commistione.
Un quinto argomento che sostiene la necessità di regionalizzare il Senato in tutti gli Stati composti (laddove presente ovviamente) si ricollega al tentativo di risolvere le disfunzionalità del bicameralismo. In Italia tale argomento acquista particolare pregnanza a causa del bicameralismo perfetto[24] che è ormai ritenuto unanimemente un ostacolo all’operatività del Parlamento. Ma in questo caso l’ambizione di cogliere due piccioni con una fava – ossia, riformando il Senato in senso territoriale, liberarsi sia dei difetti del bicameralismo perfetto che delle rivendicazioni partecipative territoriali – non funziona. In generale – sia in Italia che altrove – il fatto di non sapere più che farsene del bicameralismo non può giustificare il ripiegare sulla territorializzazione della Seconda Camera, ergendola peraltro a necessità assoluta e implementando il rifiuto ideologico verso qualsiasi altra soluzione. Appare inopportuno confondere le due problematiche che dovrebbero essere affrontate separatamente non essendo l’una strumentale all’altra. Come visto, infatti, la rappresentanza territoriale sembra esigere addirittura un organo autonomo per la sua piena espressione e il “luogo parlamentare” si rivela sia diacronicamente che sincronicamente debole quanto a capacità di riflettere le istanze territoriali. Continuare ad insistere su tale luogo, sia pure per le nobili ragioni di rivitalizzare istituti quali la rappresentanza politica e il bicameralismo o per rilanciare la stessa istituzione parlamentare, non produrrebbe in realtà nessuno degli effetti desiderati portandosi dietro anche il fallimento della rappresentanza territoriale. In molti si chiedono “ma che fine dovrebbe fare il Senato nell’ipotesi in cui si concentrasse la rappresentanza territoriale sul solo sistema delle conferenze?”. Le soluzioni sono molte (nell’ultimo paragrafo si prospettano anche dei possibili rimedi): si potrebbe pensare alla creazione di un Parlamento monocamerale – sempre che mai si riesca ad ottenere il suicidio di un organo che dispensa ampie rendite politiche – o ad un cambiamento di forza decisionale tra le due Camere che accorci i tempi della navette. Ciò che però è importante chiarire è che si tratta di due problemi da tenere rigorosamente distinti.
Un sesto argomento a favore della Camera delle Regioni è quello che fa perno sul suo significato simbolico. Soltanto l’ingresso in Parlamento delle regioni – si dice – darebbe loro una piena dignità: anche volendo ammettere che si tratti di un modello imperfetto, la carica simbolica che esso è andato accumulando è ormai tale che nient’altro potrebbe soddisfare gli aneliti partecipativi delle regioni e dare la sensazione che il nostro assetto territoriale abbia finalmente trovato il tassello mancante. L’argomento non è trascurabile e trova, in effetti, riscontro nel fatto che sono le stesse autonomie a vagheggiare la Camera delle Regioni dando quasi l’impressione che esse considerino meri palliativi o comunque soluzioni transitorie e insufficienti gli organi di raccordo intergovernativi attualmente esistenti.
Tuttavia anche tale argomento è suscettibile di critica. In primo luogo dovremmo chiederci che cosa sceglierebbero le regioni laddove messe di fronte ad un aut-aut tra dialogo con il Parlamento tramite un Senato federale o conservazione del raccordo con il Governo[25]. Probabilmente i politici locali più avveduti rinuncerebbero alla dimensione simbolica pur di conservare il contatto con il circuito in cui passano decisioni chiave per i territori che rappresentano. Ma le stesse regioni sono immerse in quella cultura politica che non vede altro aldilà della Camera delle Regioni: infatti – a pensarci bene – anche a livello simbolico non sarebbe forse molto più dirompente l’istituzione di un organo ad hoc dei territori, non incardinato né nel Parlamento né nel Governo, ma che abbia una propria autonoma visibilità istituzionale? Una delle critiche nei riguardi delle attuali conferenze è che tramite esse i territori si rechino come invitati “a casa” del Governo; con la Camera delle Regioni i territori sarebbero ospiti “a casa” del Parlamento, come peraltro, prova il fatto che le Seconde camere federali – oltre a tutti i problemi di identità partitica sopra segnalati – giocano quasi sempre “il ruolo di eterno secondo” rispetto alla Camera bassa[26]. L’idea di non essere ospiti in nessun altro organo costituzionale, ma di avere una propria “casa”, con tanto di sede, di personale, di uffici, potrebbe essere vista, anche simbolicamente, come una conquista molto più pregnante.
Per tutte queste ragioni[27] è possibile parlare di un incrinarsi del mito della Camera delle Regioni non solo nelle forme difettose e tecnicamente imprecise in cui alcune Camere territoriali sono state costruite o anche meramente pensate, ma proprio in quanto modello viziato in re ipsa.
Eclissatasi la stella polare della Camera delle Regioni, visto che l’Italia presenta un sistema di raccordo centro-autonomie in stato di avanzata sperimentazione e che nella sua storia non è mai stata presente una Seconda camera regionale, appare opportuno chiedersi se sia possibile partire dall’esistente per ripensare la questione della rappresentanza territoriale. A tal proposito va rilevato che le attuali conferenze presentano alcuni gravi difetti di funzionamento che andrebbero risolti e che alla lunga potrebbero indebolire il sentimento di identificazione che la maggioranza delle regioni ha sviluppato nei loro confronti. Di seguito analizzeremo tali difetti (§ 4), per poi suggerire, anche alla luce di altre esperienze costituzionali (§ 5) alcuni possibili rimedi (§§ 6-7).
4. Perché l’attuale sistema delle conferenze italiano è insoddisfacente
“Parerifici”, conferenze interamministrative prive di funzioni politiche, organi pseudocollaborativi, mere appendici del Governo, semplici miti senza reale peso decisionale, istituzioni deboli: sono queste alcune delle critiche più ricorrenti al sistema delle conferenze italiano[28]. Parte della dottrina ha, invero, ravvisato le potenzialità insite in tale assetto[29], ma si tratta appunto di qualità che restano in potenza, frequentemente offuscate dai vizi di cui è affetto. Tali vizi sono riassumibili nella sostanziale subordinazione delle conferenze all’esecutivo centrale, profilo che trova varie manifestazioni.
Attualmente tutte e tre le conferenze risultano “incardinate” presso la Presidenza del Consiglio dei ministri e per quanto riguarda la loro natura, nonostante in via di prassi operino spesso come circuiti di rappresentanza territoriale, la loro qualificazione continua a restare quella di organi “né del governo, né dei territori” bensì “della comunità nazionale” secondo quanto chiarito dalla Corte costituzionale nella sent. 116/1994. Manca, dunque, un’espressa investitura in capo ad esse della funzione di rappresentanza territoriale, che fa spesso risultare prevalenti le istanze del Governo.
Non si tratta della collocazione fisica delle conferenze, né di un problema astratto di inquadramento teorico della loro natura.
Ragioniamo per il momento della sola Conferenza Stato-Regioni. Così come è oggi configurata ed opera, la Conferenza Stato-Regioni è un organo consultivo del Governo: si riunisce per impulso governativo, l’agenda è fissata dal Governo che ne determina l’ordine del giorno; è presieduta dal rappresentante del Governo, che ne dirige i lavori. Ciò significa che il corretto funzionamento della Conferenza non è assistito da precise garanzie legali (costituzionali o legislative che siano), ma è affidato alla “volontà collaborativa” del Governo: essa assomiglia di più agli Stati generali dell’Ancient régime che ad un organo di concertazione che deve costituire lo snodo sicuro di un moderno sistema istituzionale multilivello.
La tendenziale subordinazione al Governo si manifesta anche nelle modalità con cui è organizzata, o meglio “dis-organizzata”, l’attività delle conferenze. Mentre il d.lgs. 281/1997 prevede dei tempi “in uscita” per la pronuncia del parere o dell’intesa da parte delle conferenze sugli atti normativi del governo (20 o 30 giorni), non disciplina i tempi “in entrata” che il Governo deve rispettare per non mortificare il ruolo delle regioni e degli enti locali. Succede pertanto che il Governo presenti schemi di decreto legislativo, di regolamento o di disegni di legge alle conferenze “tardivamente”, inserendoli contestualmente nell’ordine del giorno della discussione successiva, con il risultato che le conferenze hanno un brevissimo lasso di tempo per analizzare lo schema e formulare le loro osservazioni. La prassi è aggravata dal fatto che gli ordini del giorno delle conferenze tendono a divenire sempre più fitti (si è arrivati a contenere fino ad 80 punti di discussione per seduta). Il duplice effetto dato dalla presentazione tardiva e dal cumulo di questioni da analizzare produce talvolta ritardi nella formulazione dei pareri facendo scattare il meccanismo del “silenzio assenso” o, comunque, non consentendo una stesura accurata del parere. Vi sono stati episodi incresciosi in un passato ancora recente, quando per esempio il Governo sottopose alle regioni il cosiddetto decreto ambientale con solo quindici giorni di preavviso, nonostante la sua mole, senza fornire gli allegati tecnici e rifiutando qualsiasi rinvio della Conferenza Stato-Regioni in cui si sarebbe inderogabilmente dovuto esprimere il parere: fu inviato in Conferenza un rappresentante del Governo palesemente impreparato ad affrontare il dibattito, incerto persino sulla data di scadenza della delega legislativa che il Governo intendeva esercitare con “assoluta urgenza” e del tutto all’oscuro di quanto la giurisprudenza costituzionale aveva già ampiamente stabilito come principi cui devono essere ispirati gli interventi normativi in materie che, come l’ambiente, sono connotate dalla natura “trasversale” e dall’intreccio di molte competenze. Il risultato è stato lo scontro politico con le regioni con l’inevitabile strascico giudiziario.
Il d.lgs. 281/1997 ha portato ad un rapporto ambiguo tra sistema delle conferenze e Governo centrale. Da un lato le conferenze – che devono essere sentite praticamente su tutta l’attività normativa del Governo, sia primaria che secondaria, che interessi le autonomie – hanno un peso quantitativo che però, dall’altro lato, non risponde ad un ruolo qualitativo dato che non si apprestano adeguati strumenti perché la loro attività sia incisiva e possa essere svolta in condizioni di lavoro adeguate. Il risultato è che la qualità del coordinamento risulta in mano alla buona volontà del Governo di volta in volta in carica. Non a caso vi sono state significative oscillazioni nel modo in cui i diversi Governi dell’ultimo decennio hanno tenuto in considerazione la posizione delle conferenze[30]. Non si tratta di valutazioni che dipendono dal livello di pax partitica raggiunta con conferenze di analogo colore politico – visto che in genere le posizioni espresse dai Presidenti di Regione sono sufficientemente indipendenti da logiche di appartenenza politica o da diktat di partito – ma di valutazioni concernenti il grado di rispetto istituzionale che il Governo centrale ha manifestato verso le posizioni di tali organi. Così durante la XIII legislatura esisteva un alto livello di armonia che aveva portato a ravvisare nella Conferenza Unificata quasi una terza Camera, in quanto i suoi pareri si erano in via convenzionale trasformati in vincolanti sia per il Governo, che per il Parlamento (in relazione ai disegni di legge di iniziativa governativa che avevano ottenuto il placet delle conferenze). Nel corso dalla XIV legislatura, viceversa, sono stati asprissimi gli scontri in sede di conferenze e molto frequenti le iniziative del Governo adottate a prescindere dalle posizioni ivi espresse. Nella XV legislatura i rapporti sono ripartiti con una sorta di patto di distensione istituzionale. Tali rocambolesche evoluzioni dimostrano che le conferenze devono sperare di trovare Governi sensibili alle istanze territoriali, diversamente il loro ruolo, pur non potendo essere del tutto ignorato, risulta fortemente compromesso, frammentario e scarsamente produttivo. D’altra parte, il difetto è strutturale: la posizione dominante che esercita il Governo centrale, da cui dipende l’impulso, la convocazione e l’agenda della Conferenza, non può che riflettere l’asimmetria di posizione che contrappone il soggetto che è titolare delle funzioni decisionali e il soggetto che, in posizione ausiliare, ad esse concorre solo in funzione consultiva. Questa asimmetria cozza ormai con quella spinta “paritaria” che la riforma del Titolo V non solo ha programmaticamente (e un po’ velleitariamente) enunciato nel nuovo testo dell’art. 114, ma che è penetrata in tutto il sistema delle relazioni centro-periferia così come è scritto nelle disposizioni dell’art. 117 Cost. nonché nell’interpretazione che di esso ha offerto la Corte costituzionale. Anche in presenza di Governi attenti alle istanze regionali, le insufficienze del sistema non possono che emergere di continuo.
Un altro difetto che viene frequentemente imputato alle conferenze è quello della loro crescente tendenza ad esprimersi su mere questioni tecnico-amministrative, trasformandosi in apparati burocratici lontani dalle grandi decisioni politiche. L’accusa va, invero, temperata: le conferenze presiedono alla cruciale ripartizione dei fondi per la sanità e di molte altre risorse, esprimono il loro parere sulle politiche finanziare e fiscali del centro, siglano patti di solidarietà tra regioni, partecipano all’attività normativa del Governo, procedono alle nomine in importanti organismi ecc. Che cos’è, se non attività politica, la decisione sulla borsa e sulle norme[31]? Né, d’altra parte, si deve sottovalutare l’importanza delle attività cosiddette tecnico-amministrative. Il Bundesrat tedesco – per muoverci sotto l’egida di un modello ammiratissimo – le svolge da sempre e forse uno dei motivi di successo dei coordinamenti intergovernativi rispetto alle Seconde Camere sta proprio in questo, ossia nel fatto che sono coinvolti anche in tale tipo di decisioni.
Con queste premesse va, comunque, riconosciuto che le conferenze sono in sofferenza sotto il profilo dell’incidenza in decisioni di alta politica. Come meglio vedremo nel successivo paragrafo, bisognerebbe operare per non paralizzare il resto dell’attività e per non allungare eccessivamente i tempi di adozione delle decisioni tecniche che oggi spesso soffocano l’attività quotidiana delle conferenze.
Proprio in quanto manca in capo ad esse un’investitura ufficiale quali organi preposti a concordare le grandi decisioni politiche, il sistema non funziona come dovrebbe funzionare in uno Stato policentrico e multilivello, ma il Governo continua a restare dominus delle grandi scelte di indirizzo politico, anche se poi spesso queste sono in concreto inattuabili senza l’attiva collaborazione e condivisione da parte delle regioni. Si pensi a tutta la vicenda che ha accompagnato la legge-obiettivo, nota anche come legge Lunardi sulle grandi opere (l. 443/2001). Il Governo della XIV legislatura, che aveva posto il tema dell’implementazione delle opere pubbliche nel proprio programma, ha tentato di procedere autonomamente nella gestione di tale politica, incurante del nuovo Titolo V, scontrandosi inevitabilmente con l’opposizione delle regioni. La Corte ha puntualmente ribadito l’obbligo del Governo di coinvolgere queste ultime con procedure cooperative. Per inciso si osservi che spesso le sentenze della Corte, pronunciate nel corso di conflitti di attribuzione, hanno imposto la cooperazione in decisioni amministrative concrete, quali l’allocazione di un impianto, la fissazione di un tracciato viario e via enumerando. Si tratta di un chiaro esempio dell’intreccio indissolubile tra decisione di alta politica e sua attuazione concreta, fase, quest’ultima, altrettanto cruciale. La vicenda segnalata dimostra come la realizzazione pratica di tale politica sia stata caratterizzata da disfunzionalità e ritardi proprio in quanto non è attualmente chiaro il ruolo delle conferenze nelle scelte decisionali. Né tale ruolo è ricostruibile dalle pur copiose sentenze manipolative che la Corte costituzionale è andata elaborando per sopperire alle incertezze legislative, poiché esse da sole non bastano a tracciare regole certe sull’intensità del parere o dell’intesa o del tipo di procedura cooperativa richiesta nel caso concreto.
In conclusione, appare evidente che per quanto a suo tempo il d.lgs. 281/1997 abbia rappresentato un importante avanzamento nel processo di consolidamento delle conferenze, esse non possono continuare a reggersi su tale assetto normativo, che in ultima istanza rinvia alle prassi e agli equilibri contingenti il loro pieno e ottimale funzionamento.
Prima di affrontare la questione di come i difetti sopra enucleati possano essere risolti, appare utile ripercorrere l’esperienza di altri ordinamenti per rilevare eventuali esperienze di successo da imitare o difetti da correggere in vista di una riforma delle conferenze italiane.
5. Alla ricerca di best practices nel diritto comparato.
Quello delle conferenze, pur se forse non ancora definibile come un modello compiuto, è un assetto, un sistema, un modus operandi che “circola”[32]. Tutti gli Stati composti – che sia o no presente una Camera delle Regioni – hanno un coordinamento di tipo intergovernativo e organico; e non è vero che a questo sono riservate mere questioni amministrative, essendo, viceversa, spesso coinvolto in scelte di natura politica che gli conferiscono un ruolo rappresentativo del sistema territoriale. La fenomenologia dei raccordi intergovernativi è, com’è noto, prometeica, con forme di cooperazione orizzontali o verticali, multilaterali o bilaterali, settoriali o generali, a tre punte o a due punte, forti o deboli, formali o informali, che spesso si susseguono nel tempo dentro uno stesso ordinamento[33]; ma dietro tale carattere cangiante è possibile scorgere i tratti di un emergente modello che avrebbe bisogno di essere razionalizzato per dispiegare al meglio le proprie potenzialità. Di seguito analizzeremo le caratteristiche dei principali sistemi delle conferenze a livello comparato sotto il profilo delle fonti, natura, organizzazione, funzioni e atti prodotti.
Per quanto concerne le fonti del coordinamento intergovernativo, queste, com’è noto, sono generalmente di natura informale. Talvolta le conferenze vengono ad esistenza quasi spontaneamente, sulla base di un mero accordo verbale tra gli esecutivi regionali centrali[34]. Talvolta l’accordo istitutivo viene scritto e da esso traspaiono notevoli intenti regolatori: è il caso del Foundation Agreement 2003 che istituisce in Canada il Council of the Federation quale organo di raccordo orizzontale[35] e del Memorandum of Understanding 1999 che istituisce nel Regno Unito il Joint Ministerial Committee, conferenza per il coordinamento verticale. Si tratta di atti di soft law che tuttavia si presentano strutturati come vere e proprie norme di hard law, con tanto di articoli e commi. In pochi casi le conferenze sono legificate (Spagna, Italia) o addirittura costituzionalizzate (India). Va, invero, rilevato che il dato dell’informalità non necessariamente incide sulla resa di tali istituzioni: tra gli assetti intergovernativi di maggior successo si annoverano, ad esempio, quelli canadese e australiano che non hanno mai conosciuto forme di legificazione; tuttavia è vero che negli ordinamenti con tradizioni federali più deboli l’informalità fa sì che le conferenze risultino in balia del Governo centrale. Significativo, infine, è osservare come in molti ordinamenti si assista con sempre più frequenza alla richiesta quanto meno di legificazione – se non di costituzionalizzazione – di tali assetti, a riprova del loro rapporto sempre più “concorrenziale” con le Seconde camere.
Per quanto concerne la natura istituzionale delle conferenze, in genere quelle dotate di un minimo di formalizzazione si presentano “incardinate” presso il Governo centrale, di cui spesso condividono uffici e sede e da cui sono presiedute e convocate. Nessuna conferenza presenta una posizione istituzionalmente autonoma[36]: alcune si atteggiano a consultive cabinet del governo centrale (Regno Unito) altre vengono più genericamente investite della funzione collaborativa tra livelli di governo e sono addirittura convocate soltanto su iniziativa centrale, senza che sia previsto un numero di incontri minimo (Spagna). A nessuna è esplicitamente riconosciuto il ruolo di organo di rappresentanza territoriale, pur se di fatto esse canalizzano i diversi interessi territoriali e si presentano come loro cassa di risonanza. Per inciso si osservi che la rappresentanza che tali organi producono non è generalmente la somma degli interessi egoistici delle singole regioni, ma è ascrivibile all’intero “sistema-regioni” o addirittura al “sistema-Paese”: al loro interno sembra compiersi una sorta di “trasfigurazione” e logiche meramente corporative tendono a comporsi in vista di un superiore interesse comune e generale. Proprio per questa ragione accade spesso che i rappresentanti dei territori in cui sono presenti forti sentimenti nazionalistici, non essendo la partecipazione a tali organi obbligatoria, disertino gli incontri e cerchino piuttosto forme di coordinamento meramente bilaterale con il centro (Quebec, Catalogna, Paesi baschi).
Per quanto concerne l’organizzazione interna, una tendenza comune è rilevabile nel fatto che man mano che crescono le decisioni delle conferenze si ravvisa una tendenza alla settorializzazione dei ruoli al loro interno. Questa può aver luogo in tre modi: o creando dentro una Conferenza unitaria comitati specializzati che curino gli aspetti tecnici della questione per poi riferire al plenum; o facendo operare la stessa Conferenza in format settoriali, dando vita a specifiche sessioni per materia[37]; o, infine, moltiplicando le conferenze, costituendone tante, di natura permanente, quante sono le materie che richiedono una trattazione specialistica. Questi accorgimenti evitano che l’organo di coordinamento risulti affogato da questioni burocratico-amministrative e consentono una più efficiente distribuzione del lavoro. Tuttavia è importante rilevare che assetti impostati sul mero coordinamento settoriale del terzo tipo descritto e privi di un coordinamento unitario non funzionano efficacemente. È il caso spagnolo che è stato costruito esclusivamente su 30 conferenze settoriali per materia, senza la previsione di una Conferenza Stato-Regioni di portata generale[38]. Ben più efficace si è rivelato, invece, il sistema australiano dove le circa 40 conferenze settoriali esistenti (Ministerial Councils) sono comunque coordinate da una Conferenza unitaria, il Council of Australian Governments, preposto alle scelte di macro politica e ad assicurare una certa omogeneità tra le scelte delle singole conferenze. Il profilo della settorializzazione dei compiti sarebbe un dato da recepire nell’assetto italiano. La Conferenza Stato-Regioni già conosce “sessioni” monografiche per le questioni comunitarie o per la sanità, ma la norma è la presenza di ordini del giorno estremamente eterogenei dove vengono affastellati argomenti diversissimi. Stabilizzare un’organizzazione dei lavori per sessioni e sottocommissioni servirebbe a sfumare quell’accusa di “parerifici” mossa agli organi e a rendere più funzionali i lavori. La distribuzione dei compiti dovrebbe però avvenire senza perdere i momenti di coordinamento unitario e generale.
Un importante elemento dell’organizzazione verte intorno alla frequenza degli incontri. In genere, a livello comparato, questi hanno cadenza semestrale o trimestrale[39]. Il caso italiano con le riunioni bisettimanali rappresenta, dunque, un’eccezione che ne dovrebbe esaltare la presenza nei processi decisionali del Governo. Invero la periodicità diradata delle altre conferenze ha molteplici spiegazioni: talvolta essa è patologica dipendendo da una debolezza intrinseca degli organi e dal fatto che il Governo tenda a non convocarli (Spagna); talvolta, invece, il dato si spiega più semplicemente con il fatto che tali organi non sono consultati sui singoli atti normativi del Governo, ma soltanto su scelte di macro-politiche che presuppongono incontri più dilazionati (Regno Unito); nei sistemi dove coesiste un assetto accentrato con uno settoriale, infine, il dato è parziale perché, in realtà, le conferenze settoriali si riuniscono con molta più frequenza, cosicché alle conferenze “accentrate” rimangono da gestire soltanto le questioni di alta politica (Australia).
Riguardo la presenza nei vari sistemi delle conferenze del livello di governo locale, va rilevato che l’esperienza italiana non rappresenta più un unicum visto che sia l’Australia che il Sudafrica hanno previsto forme di coinvolgimento degli enti locali e che le grandi città del Canada stanno premendo per ottenere tale riconoscimento. Questo tuttavia ha luogo soltanto all’interno di organi comuni di raccordo anche regionale, non esiste pertanto un dialogo autonomo quale la nostra Conferenza Stato-Città, anche se va rilevato che i sindaci delle principali aree urbane canadesi lo stanno da tempo rivendicando. Ad ogni modo il generale dato comparato spinge a valutare con favore l’ipotesi di sopprimere la Conferenza Stato-Città per conservare la sola Conferenza Unificata in modo che gli interessi locali si esprimano affianco a quelli regionali[40].
Sempre sul versante dell’organizzazione interna va segnalata anche a livello comparato la presenza di uffici di segreteria che offrono supporto logistico. In genere la Segreteria è composta da personale delle amministrazioni centrali, ma vi sono anche esperienze che prevedono personale regionale. Se manca una segreteria ad hoc, si tende ad utilizzare altri uffici del Governo centrale[41]. La Segreteria cura la verbalizzazione delle sedute, la pubblicazione degli atti e, in genere, un sito ufficiale sull’attività degli organi[42]. Alcune Segreterie curano, infine, la stesura di compendi annuali della attività delle conferenze, strumenti molto utili per avere il polso del funzionamento di tali organi[43]. La presenza di una Segreteria e di un personale tecnico che supporti l’attività delle conferenze si rivela indispensabile anche per sopperire al deficit di pubblicità e di trasparenza di tali organi. Il dato comparato ci dimostra che, a parte qualche eccezione, tipica soprattutto del Canada, in cui gli incontri tra gli esecutivi vengono filmati e trasmessi dai media, in genere gli incontri delle conferenze avvengono a porte chiuse. Questo dato, sarebbe a nostro avviso da conservare perché salva gli organi da un’eccessiva esposizione nella dialettica partitica; tuttavia ciò non giustifica che il reperimento degli atti di alcune conferenze sia spesso estremamente difficoltoso e che gli accordi che stravolgono le “liste” costituzionali delle competenze non escano dai cassetti dei Premiers centrali o regionali. Se la pubblicità delle sedute va evitata, la pubblicità degli atti è indispensabile e potrebbe essere affidata proprio alla cura delle Segreterie[44].
Per quanto concerne le procedure di voto con cui le conferenze arrivano alla decisione, anche a livello comparato si registra la regola convenzionale dell’unanimità delle posizioni espresse dai consessi. Va, inoltre, segnalato che, talvolta, i raccordi funzionano anche senza alcune componenti del sistema dei territori. Soprattutto negli Stati dove sono presenti forti sentimenti nazionalisti si è spesso assistito ad una sorta di politica della “sedia vuota” (praticata ad esempio dal Quebec, dalla Catalogna e dai Paesi Baschi) che però non ha paralizzato il resto della cooperazione, ma ha tutt’al più imposto un surplus cooperativo, di natura bilaterale, in capo allo Stato centrale.
Riguardo al tipo di atti prodotti nei vari sistemi delle conferenze, le tipologie variano enormemente. Non sempre essi sono tipizzati e assumono così svariate denominazioni. In genere quasi tutti sono ascrivibili all’ampio genus della soft law e nessuna deliberazione si concreta in poteri di veto, comportando piuttosto condizionamenti politici. [45]. Tra le conferenze spagnole si segnala l’attività del Consejo de politica fiscal y financiera, che produce accordi sul sistema finanziario, che spesso vengono recepiti integralmente nelle leggi finanziarie e di bilancio. Il Joint ministerial Committee britannico si limita ad emettere accordi per la gestione comune di alcune politiche. Nel Memorandum of Understanding del 1999 si precisa che le sue determinazioni non sono assolutamente vincolanti per nessuno dei suoi membri essendo lo stesso un foro di discussione politica[46].
In Canada si incontrano dichiarazioni di intenti, agende con obiettivi di lungo periodo, agreements scritti relativi a politiche comuni, progetti di riforma. In Australia il livello di tipizzazione è maggiore e si rinvengono due categorie di atti: i Comunicati e gli Intergovernmental agreements. I primi vengono prodotti a conclusione di ogni incontro per dar conto dei risultati raggiunti ed in genere esprimono accordi o posizioni raggiunte su macro politiche e su piani nazionali di grandi riforme. I secondi sono accordi formalizzati, che si caratterizzano generalmente per contenere obblighi di procedere a future attuazioni legislative e procedure per la risoluzione delle dispute. La peculiarità di tali accordi è che sono azionabili innanzi alle cortiPer quanto riguarda le funzioni svolte, le conferenze a livello comparato adottano generalmente decisioni su questioni di macro politiche, ma soltanto indirettamente influiscono nel processo di produzione normativa a livello centrale. Nessuna, infatti, opera come le conferenze italiane fornendo pareri su singoli atti normativi, mentre è molto frequente assistere a situazioni in cui gli accordi siglati nelle conferenze vengono poi integralmente recepiti in atti normativi del Governo. Gli argomenti trattatati interessano tutte le materie, ben aldilà delle liste costituzionali, a conferma di come i meccanismi cooperativi operino in direzione della gestione integrata delle competenze.
Una funzione che è riconosciuta a diverse conferenze straniere è quella di risolvere le dispute che sorgono tra amministrazioni e tra livelli di governo, in ottemperanza della clausola per cui il ricorso al contenzioso giurisdizionale deve essere visto come extrema ratio. Si tratta di una pratica piuttosto utile anche perché spesso accompagnata da regole procedurali dettagliate sul come gestire la composizione della controversia (Regno Unito). Tale attività è di fatto svolta anche dalle conferenze italiane, ma si tratta di un effetto indiretto che dipende dalla loro capacità di istituire un clima cooperativo.
Nonostante per molti aspetti il sistema italiano si presenti più strutturato ed organizzato rispetto agli ordinamenti descritti – anche se alcuni di essi sono sicuramente più forti quanto a capacità persuasiva e di pressione politica nei confronti del Governo centrale – vi sono alcune best practices che si potrebbero assimilare: un’articolazione interna dei lavori tramite appositi comitati per materia o sessioni monografiche, senza però perdere il carattere unitario del coordinamento; la preposizione ufficiale a partecipare a funzioni di indirizzo politico tramite la compartecipazione alle decisioni sulle macro-politiche, attività già oggi di fatto svolta, ma che andrebbe valorizzata anche con una separazione delle riunioni di ordinaria amministrazione e di scelte di alta politica; la preposizione a risolvere le dispute tra i livelli di governo; un miglioramento della pubblicità degli atti affidata alla Segreteria; la stesura di compendi annuali dell’attività che consenta una più facile presa in visione degli atti prodotti[47].
6. Una proposta di riforma legislativa della Conferenza Stato-Regioni
La stagione delle grandi revisioni costituzionali sembra ormai archiviata – o almeno così si spera. Per quanto la Camera delle Regioni continui a rappresentare l’aspirazione massima del regionalismo, tutti sono ormai consapevoli che – dopo il fallito referendum costituzionale del 25 giugno 2006 – la sua realizzazione è procrastinata sine die. A questo punto le strade che restano per risolvere la questione della rappresentanza territoriale al centro restano due: sfruttare il dormiente art. 11 della l. cost. 3/2001 e istituire la Commissione bicamerale per le questioni regionali integrata o procedere in via legislativa alla riforma dell’attuale sistema conferenze per risolvere i problemi di funzionamento sopra esposti, concentrando definitivamente e unicamente su questi organi la rappresentanza territoriale.
La seconda strada appare la più opportuna anche perché la presenza della Commissione bicamerale integrata aprirebbe un altro vaso di Pandora nel già intricato scenario della rappresentanza territoriale, ponendo problemi di non poco conto. Essendo pur sempre un organo del Parlamento, innesca la “mistica parlamentare” con tutte le sue inquietudini: chi è rappresentato nella Commissione, gli esecutivi regionali o anche le assemblee elettive? E gli enti locali come selezionano la loro rappresentanza in un organo parlamentare? E come si vota? E con quale incidenza sui lavori parlamentari? E come se ne organizzano i lavori? E come evitare che la Commissione, essendo comunque un organo parlamentare, cada nella sovraesposizione mediatica e partitica tipiche del Parlamento? Insomma, si riproducono in sedicesimo tutte le questioni che hanno tormentato ogni progetto di “regionalizzazione” del Senato. Inoltre avremmo comunque uno sdoppiamento delle sedi di rappresentanza territoriale: resterebbe da definire come si coordinino la Commissione e le conferenze; il rischio di posizioni diverse tra Commissione e conferenze, perché forte sarebbe il rischio che si delegittimino a vicenda, visto che non ci sarebbe più un organo chiamato ad esprimere in via definitiva la volontà del fronte regionale[48].
L’idea portante di questo scritto è che convenga abbandonare, almeno per il momento, qualsiasi progetto che cerchi nel Parlamento la sede di rappresentanza territoriale e di cooperazione tra i livelli di governo. Tuttavia è evidente che il sistema delle conferenze, per le ragioni sopraesposte non riuscirà a svolgere adeguatamente il ruolo di fulcro della rappresentanza territoriale senza alcune incisive riforme[49].
L’obiettivo primario di tali riforme dovrebbe tendere alla definitiva rottura del rapporto di subordinazione con il Governo. Il funzionamento delle conferenze deve essere “oggettivo”, garantito cioè a prescindere dagli umori politici del Governo e dallo stato dei rapporti politico-istituzionali tra Stato e Regioni. Il che significa che il sistema delle conferenze deve perdere la configurazione di organo ausiliario che esprime pareri obbligatori sulle decisioni del Governo – che il Governo sembra spesso considerare un aggravio procedurale da cercare di aggirare – per diventare la sede di concertazione delle politiche pubbliche. Se di “concertazione” deve trattarsi, le conferenze devono essere lo strumento con cui i rappresentanti territoriali assumono un ruolo sostanzialmente paritario rispetto al Governo. Per ottenere questo risultato, le vie da seguire possono essere diverse. Ci concentreremo da prima sulla rappresentanza regionale in sede di Conferenza Stato-Regioni, per poi affrontare quello della riforma della rappresentanza degli enti locali in sede di Conferenza Stato-Città e Unificata.
Un primo punto dovrebbe consistere nello “scardinare” o quantomeno allentare la collocazione della Conferenza Stato-Regioni presso il Governo, al fine di costituirla come organo istituzionalmente autonomo, con una propria sede, esplicitamente investito della funzione di rappresentanza territoriale. L’idea espressa dalla Corte costituzionale nella sent. 116/1994, per cui la Conferenza non è un organo “né del governo, né dei territori” bensì “della comunità nazionale” appare ancor più valida dopo la riforma costituzionale del 2001: prendendo sul serio il “nuovo” art. 114, si potrebbe anche dire che essa è un organo “della Repubblica” e non di uno o dell’altro dei suoi “componenti”. Esprime il momento dell’unità, della cooperazione “paritaria”, non quello della subordinazione politica.
Diverse potrebbero essere le strategie per affrancare le regioni dalla posizione di “ausiliarietà” che esse rivestono attualmente nella Conferenza. Una soluzione potrebbe essere quella di istituzionalizzare la “Conferenza dei Presidenti delle Regioni” (che di fatto già precede le riunioni della Conferenze Stato-Regioni e Unificata) come organo decisionale cui partecipano i soli rappresentanti delle regioni, mentre i rappresentati del Governo vi sono “invitati”. La Conferenza dei Presidenti è, infatti, attualmente una mera associazione di diritto privato: la sua istituzionalizzazione quale organo autonomo consentirebbe ad essa di disporre della propria agenda e dell’ordine del giorno, di discutere e votare, di dotarsi di un proprio regolamento interno che conferisca una qualche “certezza” alle procedure di deliberazione. Ma certo in questa ipotesi si attenuerebbero i rapporti con il Governo, che rischierebbe di perdere gli strumenti necessari per riunire la Conferenza quando gli è necessaria e per assicurarsi il rispetto dei tempi decisionali. Naturalmente sono inconvenienti superabili attraverso un’attenta regolazione legislativa, ma non c’è dubbio che questo assetto, che ci allontanerebbe dall’esperienza attuale, potrebbe non essere il più adeguato alla situazione italiana. Una “Conferenza delle Regioni” avrebbe indubbiamente un suo preciso senso se il problema centrale del nostro assetto di governo fosse quello di un accentuato e persistente conflitto di interessi tra le regioni (come è di recente accaduto in Canada che ha, non a caso provveduto all’istituzione del Council of the Federation nel 2003): in un simile scenario avrebbe certo una grande utilità l’istituzione di una sede deputata ad ospitare i rappresentanti delle regioni al fine di facilitare la mediazione e la composizione dei contrasti esistenti tra loro e presentare poi al Governo un’opinione unitaria. È il modello “Consiglio dei ministri” della Comunità europea; almeno in origine era la ratio che aveva presieduto all’istituzione degli antecedenti del Bundesrat. Ma non sembra corrispondere alla realtà italiana, almeno a quella attuale e ai suoi sviluppi prevedibili. Da noi l’asse del conflitto non passa tra le regioni[50] quanto piuttosto tra esse e le amministrazioni statali: data la premessa, perciò, la istituzionalizzazione della “Conferenza delle Regioni” rischierebbe di provocare risultati controproducenti, perché la posizione definita formalmente dalle regioni in Conferenza sarebbe difficilmente negoziabile in seguito con il Governo, per cui la contrapposizione tra i due livelli di governo diverrebbe più difficilmente superabile.
Conviene perciò immaginare una riformulazione dell’assetto della Conferenza Stato-Regioni che non si allontani troppo da quello attuale. In tal senso si potrebbe sicuramente riformulare la previsione relativa all’incardinamento dell’organo presso la Presidenza del Consiglio, quasi che si trattasse di una delle sue tante sottoarticolazioni amministrative: si dovrebbe invece riconoscere esplicitamente in capo alla Conferenza il ruolo di rappresentanza territoriale e di mediazione di questa con le istanze governative e ribadire il carattere assolutamente paritario delle due istanze governativa e regionale.
A tal fine occorre che sia assicurata la codecisione del programma delle attività della Conferenza e del suo ordine del giorno: deve essere data la possibilità alle regioni di inserire i temi di loro interesse nell’agenda della Conferenza, anche perché si fornirebbe così un canale istituzionale alla “sussidiarietà ascendente”, ossia alla ricerca, anche da parte delle regioni stesse, di momenti di coordinamento nazionale. La Presidenza della Conferenza dei Presidenti e la Presidenza del Consiglio dei ministri dovrebbe concordare, dunque, sia il programma di lavoro a breve-medio termine sia il calendario e gli ordini del giorno delle sedute della Conferenza.
Nulla di rivoluzionario, come si vede, dato che ciò in qualche misura già avviene (l’art. 2.4 del d.lgs. 281/1997 già prevede, infatti, che la Conferenza dei Presidenti possa richiedere al Presidente del Consiglio dei ministri di sottoporre alla Conferenza Stato-Regioni oggetti di interesse regionale), ma sarebbe bene che alcune norme di legge rendessero “regolare” ciò che oggi è condizionato dal clima dei rapporti politici.
Si potrebbe forse osare di più: l’istituzione di una co-presidenza renderebbe anche esteriormente visibile la posizione di parità istituzionale tra Governo e sistema delle autonomie. Il ruolo del Presidente in organi collegiali è d’altra parte centrale per regolare la discussione e il dibattito, per cui disporre meccanismi di co-presidenza – o eventualmente di turnazioni nel ricoprire la carica – potrebbe, oltre che rivestire la sopra richiamata valenza simbolica, anche consentire una più adeguata proiezione delle ragioni territoriali.
La posizione istituzionalmente autonoma, dovrebbe essere accompagnata anche da una revisione delle norme relative al personale tecnico che cura le istruttorie degli atti che poi passano all’esame della Conferenza. Attualmente dei 44 funzionari dipendenti della Conferenza 30 sono statali e soltanto 14 regionali: ciò produce delle inevitabili conseguenze al momento dell’istruttoria degli atti sottoposti al parere dell’organo con tendenza a una maggiore proiezione di logiche governative. Per evitare tale effetto dovrebbe quanto meno essere inserita la regola di un pari equilibrio dei dipendenti.
Indispensabile sarebbe, in ogni caso, che la legge chiarisse di che cosa deve occuparsi la Conferenza Stato-Regioni e in che modo lo deve fare. Il d.lgs. 281/1997 non è certo un esempio di chiarezza per questo aspetto, ma non c’è dubbio che il tema sia assai difficile e periglioso. Da un lato c’è il problema della diversa intensità del vincolo che il Governo subisce a seguito di una delibera della Conferenza; dall’altro c’è il problema di quale consenso sia necessario perché la Conferenza possa esprimersi validamente. Il primo problema è strettamente collegato al secondo e questo si lega ad un terzo nodo: quale “forza” abbiano le delibere della Conferenza per le Regioni che non abbiano dato ad esse il loro consenso.
La Conferenza produce intese, accordi, pareri e atti “di indirizzo” (l’art. 2.8 del d.lgs. 281/1997 ne elenca una serie). Per nessuno di questi atti l’unanimità è strettamente necessaria: se la Conferenza è debitamente convocata e presieduta, non v’è ragione che i rappresentanti delle regioni non possano votare formalmente in Conferenza Stato-Regioni (così come possono aver fatto già nella preliminare Conferenza dei Presidenti). Ovviamente un voto formale spesso non sarà necessario, in quanto il portavoce delle regioni esprime una posizione comune (raggiunta nella Conferenza dei Presidenti) che il Governo può avere interesse ad accogliere senza particolari verifiche: ma il problema è che cosa accada quando Governo e Regioni esprimono posizioni inconciliabili. In questo caso non appare affatto inopportuno che sia previsto un voto formale, dal cui esito può derivare una diversa “intensità” del vincolo che si produce per il Governo (quando il voto ovviamente si esprima su una sua proposta). Si potrebbe stabilire, per esempio, che un voto negativo unanime dei Presidenti regionali non potrebbe essere superato dal Governo neppure ricorrendo alla clausola d’urgenza (art. 2.5 del d.lgs. 281/1997); oppure che un voto negativo espresso a maggioranza assoluta (o qualificata) obblighi comunque il Governo a riformulare la sua proposta.
In sintesi si potrebbe prevedere che la Conferenza esprima:
- intese nei casi previsti dalla Costituzione o dalle leggi dello Stato, nonché quando lo Stato promuova il coordinamento delle attività delle regioni in materie di competenza concorrente o residuale (sent. 303/2003). In questi casi le intese sono necessarie (con valvola di sfogo in caso di estrema necessità ed urgenza, purché le regioni non abbiano espresso il dissenso all’unanimità) e obbligatorie per tutte le parti: anche se assunte a maggioranza (qualificata) esse vincolano le regioni dissidenti;
- accordi per ogni altra forma di coordinamento politico o amministrativo, promosso dallo Stato o dalle regioni (per esempio, con un accordo si potrebbe risolvere, in via generale, il conflitto insorto in relazione ad una legge regionale o statale, individuando la soluzione concordata cui anche le altre regioni possono fare riferimento). Gli accordi non sono necessari, ma sono obbligatori quanto le intese se vengono approvati;
- pareri su specifici atti sottoposti dallo Stato alle regioni;
- nomine o designazioni
Quanto alle modalità deliberative, nel caso di intese e accordi le soluzioni possono essere molte e variegate. Si può prevedere, per esempio che:
a) le intese e gli accordi sono raggiunti, sbloccando quindi la decisione del Governo, se esprime il suo consenso, oltre al Governo, la maggioranza delle regioni presenti; ma che esse siano obbligatorie per tutte le regioni se approvate a maggioranza qualificata (per esempio, dei 3/5 delle regioni presenti), e sempre che non manifesti in tempo utile il suo dissenso più di una percentuale significativa (per esempio, 2/5) delle regioni che hanno diritto a farne parte
b) che il parere si considera positivo se esprime il suo consenso la maggioranza delle regioni presenti; ma se le regioni si esprimono negativamente con maggioranza qualificata, il Governo sia tenuto a riformulare la proposta.
Questa regola dovrebbe essere però bilanciata da un’altra, cioè che non possono essere sottoposte alla Conferenza questioni che riguardano solo una o alcune regioni: norma che sembrerebbe scontata, ma così non è dato che la legge 15/2005 ha introdotto la regola opposta per cui i conflitti tra amministrazioni non composti attraverso la “conferenza di servizi”, se il “motivato dissenso” è espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute e della pubblica incolumità (o se è espresso da una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza), devono essere portati alla Conferenza Stato-Regioni (o alla Conferenza Unificata). Si finisce così con imporre la volontà maggioritaria di soggetti estranei al thema decidendum ad enti dotati di autonomia politica anche quando si tratti di questioni che interessano direttamente ed esclusivamente il territorio di quegli enti (ipotesi che sembra essere radicalmente esclusa dalla Corte costituzionale nella sent. 408/1998, che appunto nega che la Conferenza possa deliberare su qualsiasi argomento, anche d’interesse esclusivo di una o più regioni o di parte di esse). La questione è evidentemente molto delicata quando si tratti, per esempio, di scelte relative alla localizzazione di impianti o di opere pubbliche. Per queste tematiche sarebbe necessario mettere a punto norme assai attente, che consentano alla Conferenza di raggiungere le intese necessarie senza essere paralizzata dal gioco dei veti incrociati.
Se le intese, gli accordi e i pareri sono approvati con consenso condizionato, come accade con notevole frequenza, essi si considerano raggiunti solo se il Governo dichiara di accettare le condizioni espresse. In ogni caso deve essere prescritto che del parere della Conferenza debba esser dato conto nella relazione tecnica che accompagna la proposta dell’atto governativo che ne è oggetto.
Come evidenziato in precedenza tra le difficoltà di funzionamento delle conferenze si segnala con sempre maggiore frequenza la grande mole di questioni tecniche sulle quali è richiesto ad esse di esprimersi, che ritarda i tempi delle pronunce. Si sta attualmente rafforzando l’apporto tecnico all’istruttoria degli atti sottoposti alla Conferenza Stato-Regioni. L’introduzione nell’ordine del giorno, seguendo il modello dell’istruttoria svolta dal Coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti) per conto del Consiglio dell’Unione europea, di una parte “b” in cui si elencano gli argomenti “da intendersi già discussi salvo richiesta di dibattito” (cui si contrappone la parte “a” che elenca gli oggetti che devono essere effettivamente discussi) appare un’innovazione assai utile e significativa del buon regime che si va stabilendo nelle “riunioni tecniche” che preparano le sedute della Conferenza. Se si raggiungesse l’obiettivo di una migliore programmazione delle sedute, forse si potrebbe anche meglio “specializzare” le sedute della Conferenza, in modo da riunirvi i rappresentanti “politici” del Governo e delle regioni competenti per materia, ancora una volta sul modello del Consiglio dell’Unione europea e degli altri sistemi delle conferenze operanti a livello di diritto comparato.
7. Il nodo della rappresentanza degli enti locali
Resta infine da affrontare la questione del rapporto tra rappresentanza regionale e rappresentanza locale. Com’è noto il sistema delle conferenze dà grande spazio anche alla presenza degli enti locali al centro: è una formula tutta italiana che tuttavia comincia ad avere eco anche in altri Stati (Australia, Sud Africa, Canada). Tale modello triadico Stato-regioni-enti locali – che si riflette perfettamente nelle tre conferenze esistenti – è contrario alla modellistica tradizionale federale, che invece prevede un solo raccordo bilaterale con le regioni. Ma anche in questo caso restare schiavi di un modello statico rischia di impedire la considerazione di profondi rivolgimenti verificatisi nel sistema. L’idea di una razionalizzazione che parta dall’eliminazione della rappresentanza locale al centro – dopo 10 anni di presenza – e quindi dalla soppressione della Conferenza Stato-Città e Unificata, con conservazione della sola Stato-Regioni, appare quantomeno politicamente impraticabile. Aldilà della sua realistica ineluttabilità, la presenza degli enti locali potrebbe essere non solo “tollerata”, ma apprezzata: la tradizione comunale italiana, i processi di crescente urbanizzazione, la pari dignità istituzionale di cui all’art. 114 Cost., il principio di sussidiarietà, il costituzionalismo multilivello, sono tutti elementi che rendono opportuno, almeno in certi casi, un dialogo a tre. Anche su tale fronte, dunque, conviene partire dalla situazione esistente, senza operare grandi rivolgimenti e conservando l’ispirazione di fondo impressa dalla l. 59/1997 e dal successivo d.lgs. 281/1997.
Tuttavia va necessariamente e seriamente affrontato il tema della composizione della rappresentanza locale, che deve essere razionalizzata. La Conferenza Stato-Città riceve da tempo critiche di antidemocraticità[51] dovute al fatto che i suoi membri sono designati dall’ANCI e dall’UPI, associazioni di diritto privato, a cui peraltro non aderiscono tutti gli enti locali. È una rappresentanza d’interessi di tipo sindacale, non una rappresentanza dei territori: ciò falsa l’intero assetto della Conferenza unificata, perché è del tutto illogico che nello stesso consesso stiano i rappresentanti di comunità territoriali, democraticamente eletti, e i rappresentati “sindacali” di interessi di categoria: che essi siano sindaci o presidenti di provincia, quindi rivestano a loro volta una carica elettiva, non ha alcuna rilevanza, poiché essi siedono nella Conferenza non in quanto eletti dalla loro comunità territoriale, ma in rappresentanza della categoria di enti che li ha designati. La dimensione degli interessi è totalmente diversa, perché le regioni si dividono tra loro per ragioni attinenti all’indirizzo politico dei loro rappresentanti o alle specificità dei territori, mentre i rappresentanti degli enti locali ragionano esclusivamente in difesa dell’interesse astratto della categoria di enti che essi rappresentano. Regioni e Governo contrattato obiettivi politici che possono articolare in modo molto differenziato, sul territorio nazionale, l’intervento pubblico di cui si discute, e possono portare a concordare divisioni dei compiti anche in deroga all’astratto assetto costituzionale (a ciò può portare il ragionare in termini di sussidiarietà); ma si trovano di fronte chi è “legittimato” esclusivamente a difendere le astratte attribuzioni di tutti i comuni o di tutte le province. È davvero singolare che questo scarto di prospettive non venga avvertito dal Governo stesso, che ovviamente si avvantaggia della perenne concorrenza che si innesca tra le regioni e le amministrazioni locali nell’inseguimento delle competenze. Non si avverte neppure che l’immissione di questo tipo di rappresentanza di interessi viola lo stesso principio di sussidiarietà, che indica la prevalenza delle considerazioni in concreto attorno alla adeguatezza dei soggetti rispetto alle valutazioni in astratto attorno a competenze predefinite: anzi, in questi anni ha condotto ad una profonda corruzione del suo significato.
Tutti sanno che il principio di sussidiarietà indica l’esigenza che l’amministrazione sia collocata al livello più vicino al cittadino, a condizione però che sia un livello efficiente: la realizzazione di un asilo nido, per esempio, non può essere decisa a Bruxelles o a Roma, e neppure dalla Regione, perché entra in quella organizzazione dei servizi sociali alla persona che richiede una conoscenza diretta delle specifiche esigenze locali, del tessuto urbanistico, del piano del traffico ecc.. Quello che spesso però si dimentica è che la sussidiarietà riguarda esclusivamente i diritti del cittadino, non le prerogative degli enti che lo governano: essa porta “in basso” le funzioni se e solo se quel livello di amministrazione è efficiente, è concretamente adeguato; per cui sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione – ma, aggiungerei, anche vigilanza ed efficace potere sostitutivo – sono principi che si saldano e non possono essere divisi. A sua volta, però, l’adeguatezza degli enti e la conseguente loro differenziazione (non tutti i comuni sono in grado di esercitare le attribuzioni in questione, ma solo quelli che hanno una certa dimensione organizzativa) è una valutazione che non può compiersi in astratto, ma richiede considerazioni in concreto, calibrate sulle specifiche realtà, le tradizioni amministrative, le risorse organizzative, le modalità di gestione comune che il territorio e le infrastrutture consentono. Insomma, è lo stesso principio di sussidiarietà a prescrivere che il suo completamento, ossia l’adeguatezza e la differenziazione, venga sottratto a decisioni centralizzate, assunte ragionando “per categorie”. Invece è proprio così che sono portate a ragionare le rappresentanze “sindacali” degli enti locali: esse sono fattori di centralizzazione di valutazioni che non devono essere assunte al centro, custodi di “uniformità” laddove va praticata “differenziazione”, propugnatori di valutazioni “astratte” dell’adeguatezza degli enti, laddove sarebbe richiesta una valutazione “in concreto”. Come tutte le organizzazioni nazionali d’interesse, anche l’Anci e l’Upi sono, per loro stessa vocazione, fattori di centralizzazione delle decisioni e di uniformità delle soluzioni: per questo sono spesso degli “alleati oggettivi” delle componenti più centralistiche del Parlamento e dello stesso Governo.
Ma vi sono alternative, modi diversi di individuare chi è chiamato a rappresentare gli oltre 8.000 comuni e il centinaio abbondante di province italiane? L’obbligo costituzionale di istituire in ciascuna Regione un Consiglio delle autonomie locali – obbligo a cui ha ormai adempiuto la maggior parte delle regioni – suggerisce la soluzione. Potrebbero essere tali organi a scegliere il loro rappresentante presso la Conferenza. Si otterrebbero dei vantaggi “di sistema” notevoli: vediamo quali.
Innanzitutto avremmo finalmente capito a che titolo quei rappresentanti siedono in Conferenza, che cosa essi rappresentino. Essi rappresentano il territorio della Regione, ossia la stessa dimensione d’interessi rappresentata dal Presidente della Regione. Le due rappresentanze si integrerebbero differenziandosi esclusivamente per questo, che il Presidente della Regione guarda essenzialmente al problema politico e alla dimensione della legislazione, il rappresentante delle autonomie locali ha presente soprattutto la dimensione applicativa, operativa, dell’amministrazione. Un connubio, come si vede, che è pieno di significato: nessuno potrebbe dubitare che sia utile che nella concertazione tra Stato e Regione sia presente anche chi dovrà tradurla in provvedimenti amministrativi o servizi pubblici.
In secondo luogo avremmo forse risolto così anche il problema di mantenere in piedi tre diverse conferenze. Benché il Governo sia oggi orientato a semplificare il quadro attuale istituendo un’unica Conferenza Stato-Istituzioni territoriali[52], senza trasformare il “senso” della rappresentanza degli enti locali a questo risultato non si può arrivare. La sent. 408/1998 pone, infatti, un limite, che è diventato più severo dopo la riforma del Titolo V. In quella sentenza infatti si indicava la condizione di legittimità della Conferenza unificata nel fatto che essa non si prospettava come “un organismo indifferenziato, nel cui ambito i rappresentanti regionali mescolassero il loro voto con quello degli altri rappresentanti, così che non emergesse distintamente il punto di vista delle regioni: in tal caso non si sarebbe potuto, a rigore, parlare di uno strumento di raccordo fra lo Stato e le regioni, idoneo a verificare le convergenze fra i due interlocutori, ma piuttosto di un organismo misto avente altre caratteristiche e altra utilità”. Ma il ragionamento della Corte muoveva da un presupposto, che l’intera manovra legislativa “Bassanini” operasse in presenza del “vecchio” art. 118 Cost., il quale attribuiva allo Stato il potere di distribuire discrezionalmente le funzioni amministrative tra le regioni e i due livelli di enti locali. In questa prospettiva anche l’unificazione delle due conferenze assumeva un senso preciso, rilevando in fondo solo che la volontà delle due componenti non si confondesse.
Oggi, dopo la riforma, lo Stato non ha più quel potere. Anche se il disegno di legge licenziato dal Governo (e noto come “Codice delle autonomie”) non sembra accorgersene a pieno, lo Stato può soltanto indicare le “funzioni fondamentali” degli enti locali (ex art. 117.2, lett. p) e conferire le “proprie” funzioni amministrative, non certo quelle che le regioni possono vantare nelle materie di competenza concorrente o residuale. Ciò si riflette anche sul funzionamento delle conferenze, dato che il Governo non dovrebbe più portare in Conferenza unificata questioni che non attengano alle funzioni amministrative dello Stato ma alle materie di competenza regionale[53]. A quale difficoltà il disegno di legge vada incontro lo dimostra la disposizione che vi è stata inserita per indicare in quali casi la Conferenza si riunisce nella sezione riservata alla sola rappresentanza delle regioni (in ossequio proprio al principio posto dalla sent. 408/1998): ad essa sono demandate unicamente “le questioni che incidano esclusivamente su competenze legislative delle regioni”. Sembra emergere la singolare idea che la tutela costituzionale delle attribuzioni regionali si limiti soltanto alla funzione legislativa, scissa (in che modo ciò sia possibile non lo si dice) e contrapposta alle funzioni amministrative che invece starebbero fuori da quella tutela: siccome così non è, ecco che oggi si fa estremamente attuale il rischio – contro cui si esprimeva la sent. 408/1998 – che si realizzi nella Conferenza “una commistione delle rappresentanze” che sarebbe lesiva delle prerogative regionali.
Tale pericolo sarebbe fugato se la rappresentanza degli enti locali venisse ricondotta ai “territori”, sicché fosse la comunità regionale nel suo insieme ad essere rappresentata dal Presidente della Regione e da un rappresentante dei governi locali: visto che il Consiglio delle autonomie si raccorda generalmente con l’esecutivo regionale, potrebbe istituirsi un raccordo previo e permanente a livello di singole regioni delle posizioni che i due livelli di governo adotteranno in Conferenza, il che costituirebbe un rafforzamento politico degli stessi leader delle amministrazioni locali. Resterebbe poi al rappresentante eletto dal Consiglio delle autonomie anche il compito di farsi difensore delle autonomie locali nel loro complesso contro il rischio – tutt’altro che irrealistico – del “centralismo regionale”. Naturalmente si potrebbe obiettare che in questo modo non tutte le categorie di enti locali troverebbero rappresentanza nella Conferenza, forse sarebbe più difficile rappresentare le Province o i comuni minori. Ma questa obiezione muove proprio dal presupposto sbagliato, che in Conferenza Stato-Territori non siano questi ad essere rappresentati, ma le istanze “sindacali” delle singole categorie di enti!
Modificando nel senso descritto la composizione “locale” della Conferenza Stato-Città verrebbe ad attenuarsi anche un altro radicatissimo sospetto che porta a criticare la costruzione di un organo misto: quello del pericolo di lotte intestine tra il fronte regionale e quello locale. La negazione della presenza degli enti locali al centro, oltre che essere riportata alle tradizioni federali e ad un diffuso (anche se ormai non più univoco) dato comparato, è infatti spesso sostenuta per evitare una paralisi della rappresentanza territoriale che si scatenerebbe per le continue lotte tra i due fronti. Questa argomentazione in parte è debole perché lotte intestine, in realtà, potrebbero sorgere anche tra le stesse regioni – ad esempio per un clevage nord-sud, ricche-povere, con un certo tipo di risorse o no e via enumerando – e perchè le poche esperienze che abbiamo in tal senso – quella italiana e quella australiana – ci dimostrano che i fronti locale e regionale oltre a litigare, sanno anche fare fronte comune. Ad ogni modo de-sicandalizzare la rappresentanza locale contribuirebbe a far sentire i rappresentanti locali promananti dai Consigli delle autonomie inseriti in un sistema, incrementando una sorta di lealtà e appartenenza istituzionale e favorendo in tal modo comportamenti più responsabili e meno corporativi.
Un’ultima riflessione merita, infine, l’opposizione alla rappresentanza locale fondata sull’argomento che tale livello di governo non sia investito, al contrario delle regioni, del potere legislativo[54]. La sacralità della legge è un mito a cui non è più lecito aggrapparsi. Se si discute di riparto finanziario, di livelli delle prestazioni, di programmazione delle infrastrutture, quale sia la parte della legge e quale quella dell’amministrazione è l’ultimo dei problemi da considerare. Soprattutto dopo che la riforma costituzionale ha scisso i piani della legislazione e della amministrazione, sarebbe addirittura sconveniente che le leggi si producessero ignorando le esigenze della loro attuazione amministrativa. Del resto, il coinvolgimento nel potere normativo centrale secondo le modalità che sono state proposte in questo scritto, ossia, senza radicali poteri di veto e al di fuori del circuito camerale-parlamentare, consente di superare ogni residua obiezione. Mentre ancora una volta – se non bastasse – il modello Camera delle regioni si rivelerebbe del tutto inidoneo a soddisfare una necessità evidente del nostro sistema multilivello, quale il coinvolgimento degli enti locali.
8. Il declino delle Assemblee elettive tra miti fuorvianti e rimedi possibili
Proporre di abbandonare il progetto di regionalizzazione del Senato e sostituirlo con il potenziamento delle forme di concertazione tra esecutivi suscita sempre la stessa obiezione: così si sviliscono ancora di più le istituzioni parlamentari, destinandole a diventare sedi di mera ricezione e attuazione di decisioni assunte fuori dal circuito rappresentativo. Ecco che allora si intravede in questa proposta un passo ulteriore sulla strada dell’emarginazione delle assemblee elettive, già duramente colpite da tutte le misure di rafforzamento degli esecutivi intervenute in questi ultimi anni attraverso la riscrittura delle leggi elettorali, i vincoli imposti agli Statuti regionali o la prassi instauratasi nel sistema politico. Ecco che progetti di coordinamento intergovernativo vengono considerati espressione di un federalismo maggioritario ed efficientista, quasi che insistere su modelli come la Camera delle Regioni, che hanno ampiamente dimostrato di non funzionare, fosse comunque preferibile all’idea di “tradire” lo spirito del parlamentarismo. La difesa del ruolo del Parlamento e delle Assemblee regionali finisce così col porsi come il principale motivo antagonista rispetto ai progetti di revisione del sistema delle conferenze.
Una prima argomentazione opponibile ai critici del cosiddetto federalismo maggioritario è il fatto che la presenza degli esecutivi regionali al centro, lungi dal favorire fantomatiche alleanze antidemocratiche, tende nei fatti ad operare come “contrappeso” alla centralità dell’esecutivo centrale[55]. Esecutivi regionali forti riequilibrano in qualche modo la divisione dei poteri, incrinata dalla penalizzazione del Parlamento, e introducono una forma suppletiva di checks and balances. Essi, infatti, rappresentano spesso una sorta di spina nel fianco del Governo, comunque tenuto a contrattazioni con tale fronte, mentre altrimenti sarebbe lasciato libero di decidere qualsiasi tipo di politica. Quindi paradossalmente le conferenze, proprio perché più resistenti rispetto alle Seconde camere alla penetrazione di logiche partitiche e perché composte da soggetti “forti” in grado di “impegnare” la Regione e di far applicare – tornati a casa – le decisioni ivi raggiunte, si rivelano un efficace rimedio allo strapotere del Governo centrale. Ma anche volendo contestare tale fatto, vi sono ragioni più profonde che spingono a dare un’altra lettura, non antidemocratica, del coordinamento intergovernativo.
Il declino delle assemblee elettive è spesso guardato con un approccio catastrofista, che caratterizza, peraltro, molti orientamenti delle scienze contemporanee e che ben si sposa con una visione antistorica dello sviluppo dei sistemi costituzionali. L’eclissi del parlamento, considerato il cuore stesso della democrazia, sembra rendere inevitabile la deriva autoritaria: il rafforzamento degli esecutivi e dei loro leader appare perciò un’operazione che mette in pericolo la democrazia stessa, il sistema rappresentativo, i diritti politici del cittadino-elettore. Ciò induce ad atteggiamenti di pura conservazione o di restaurazione, anziché alla ricerca di strategie per rilanciare il ruolo delle assemblee elettive, adeguandolo alle esigenze di un sistema istituzionale efficiente ed equilibrato. Ciò che si vorrebbe conservare o restaurare appartiene però alla mitologia piuttosto che alla storia dei sistemi costituzionali. Una più attenta analisi storiografica, non infettata da pregiudiziali ideologiche, ci può venire in aiuto.
Nel DNA dei primi Parlamenti non predomina affatto la funzione legislativa, bensì quella di controllo e di rappresentanza delle esigenze sociali[56]. Può essere che i Parlamenti dell’800 avvertissero la centralità del loro ruolo nella legislazione, ma ciò non è la conseguenza del supposto miglior equilibrio tra i poteri, quanto piuttosto del ridotto ruolo che la legislazione stessa svolgeva nella conduzione dello Stato. È chiaro infatti che in uno Stato “minimo”, qual era lo Stato ideale del mondo liberale, le leggi non avevano il carattere “strumentale” e “provvedimentale” che hanno assunto in epoca più moderna. Ma quella mitica stagione della centralità parlamentare è durata molto meno della stagione della crisi del parlamentarismo. Del resto, a dire il vero, “fare le leggi” non è mai stata una prerogativa esclusiva del Parlamento – si pensi per esempio al modo con cui si sono sempre formati i codici o alla diffusione dei poteri normativi di emergenza – ma è indubbio che il tasso elevato di tecnicità e di strumentalità (rispetto ad obiettivi di politica economica e finanziaria soprattutto) ha allargato enormemente la quantità delle leggi e ha spostato il peso della loro elaborazione verso l’esecutivo. Questo è un processo storico che si è affermato in tutto il mondo moderno sin dai primi decenni del ‘900 e che certo non può essere invertito per il solo fatto di bloccare la strada al coordinamento tra i diversi livelli di governo. La stessa comunitarizzazione (e internazionalizzazione) della politica economica e monetaria ha rafforzato il ruolo degli esecutivi nazionali, processo solo in parte riequilibrato dallo sviluppo delle istituzioni parlamentari europee. Paradossalmente, benché sia usuale ripetere che le istituzioni comunitarie sarebbero affette da un grave “deficit democratico”, l’evoluzione del proprio ruolo che il Parlamento europeo è riuscito ad imporre di fatto, ben prima di ottenerne il riconoscimento giuridico nella revisione dei Trattati, dovrebbe essere oggetto di riflessione da parte di chi ha a cuore il rilancio del sistema parlamentare italiano.
Naturalmente la riflessione sulla crisi (ormai secolare) delle istituzioni parlamentari e sulle possibilità di recuperarne il ruolo, sicuramente fondamentale in una democrazia rappresentativa, richiederebbero ben altra sede: si dovrebbe partire da un’analisi spietata della capacità delle attuali assemblee di svolgere con efficacia la loro funzione primaria, quella di “rappresentare” la società, di intercettarne le domande, di interpretarne i bisogni reali, di conoscerne le implicazioni e valutare le soluzioni alternative, temi così complessi – intrecciati come sono alla decadenza dello Stato dei partiti – che in questa sede non è possibile neppure sfiorare. Ci limiteremo perciò a prendere in considerazione solo il problema di come “bilanciare” il rafforzamento del ruolo decisionale degli esecutivi, in presenza di una sistema delle conferenze adeguatamente potenziato, attraverso un proporzionale rafforzamento del ruolo di controllo delle assemblee.
Una prima strada, percorribile senza gravi difficoltà, punta a rafforzare il raccordo tra la Conferenza, nella sua componente “autonomistica”, con il Parlamento. Anche in questo caso ci vengono in aiuto prassi già esistenti. Ad oggi, per circa 60 volte il Parlamento ha convocato in audizioni membri della Conferenza Stato-Regioni affinché esprimessero il parere del sistema-regioni su determinate riforme legislative. Si potrebbe pensare di consolidare e “normalizzare” (attraverso norme dei regolamenti interni) tale prassi, in modo da assicurare un raccordo più stabile tra le due istituzioni. Il dialogo con il Parlamento è, in effetti, un’esigenza avvertita dalle stesse regioni, ed è il motivo principale del credito di cui ancora gode il modello della “Camera delle Regioni”. Si potrebbero immaginare diverse soluzioni: per esempio che i portavoce della Conferenza Stato-Regioni siano consultati regolarmente, anche su loro richiesta, dalle Commissioni e che queste richiedano il parere scritto sulle leggi in discussione. Senza correre il rischio di trasformare la Conferenza in una nuova Camera delle regioni, essa potrebbe inserire, tramite i portavoce, l’opinione delle autonomie nei lavori parlamentari. Allo stesso tempo, le Camere otterrebbero in tal modo il vantaggio di inserirsi attivamente nella dialettica tra Governo e autonomie territoriali.
Una seconda via punta invece a rafforzare il raccordo tra assemblee elettive. Anche i Consigli regionali rischiano l’emarginazione a causa dell’intensificazione delle prassi di concertazione in Conferenza. In effetti tutti i “nuovi” Statuti regionali si sono preoccupati di cercare qualche rimedio: ma la fantasia degli “statuenti” regionali è stata davvero scarsa, ad ulteriore conferma che la crisi del ruolo delle assemblee non è imputabile in toto all’esecutivo! Si sono delineate procedure che impongono al Presidente di Regione di riferire all’Assemblea e di tenerla costantemente informata delle decisioni adottate in sede di Conferenza ed eventualmente di ricevere da essa direttive circa la posizione da assumere nella concertazione con il Governo: una soluzione, come si vede, molto appiattita sui moduli tradizionali di relazione tra esecutivo e assemblea, moduli assai poco soddisfacenti in termini dell’effettività del controllo parlamentare che essi assicurano. La stessa previsione che sia l’Assemblea a dettare direttive politiche alla Giunta, per guidarne i comportamenti in Conferenza, è un sintomo di quanto sia sterile l’immaginazione degli “statuenti”: chi potrebbe mai impedire ad un’assemblea elettiva di dettare indirizzi politici all’esecutivo che essa potrebbe (magari a caro prezzo) sfiduciare? Ma poi, sono mai serviti questi atti d’indirizzo, anche quando i Consigli regionali non erano sotto il ricatto della clausola simul stabunt simul cadent?
Un aspetto merita attenzione: se il rafforzamento degli esecutivi è conseguenza del loro coordinamento, la situazione non può essere riequilibrata per iniziativa di una singola assemblea, ma solo dal loro coordinamento. È il “sistema delle assemblee parlamentari” che deve bilanciare il “sistema delle conferenze”. Ancora una volta è nelle istituzioni comunitarie che si può reperire qualche spunto. Si potrebbe infatti istituire una procedura di collegamento tra Camere e Assemblee regionali che si ispiri al modello della procedura di early warning prevista dal Protocollo 2 del Trattato costituzionale europeo. È un sistema di allarme precoce che scatta prima dell’emanazione dei provvedimenti, per verificare il rispetto del principio di sussidiarietà (ma non necessariamente limitato a questo). Potrebbe essere attivato in via sperimentale, anche semplicemente attraverso una norma dei regolamenti parlamentari, come “snodo” di procedimenti legislativi particolarmente impegnativi, quale la legge finanziaria o le leggi (e i decreti legislativi) che modificano profondamente il sistema dei poteri regionali e locali. Il disegno di legge (o lo schema di decreto legislativo) potrebbe essere trasmesso tempestivamente alle assemblee regionali, fissando un termine entro il quale esse possono esprimere un parere in merito. Attraverso l’istruttoria compiuta dalla Commissione bicamerale per gli affari costituzionali, le Camere sarebbero in grado di conoscere le opinioni delle assemblee regionali e di farle pesare nella discussione. Si potrebbe anche prevedere – come nel citato Protocollo - che se una certa quota, non irrisoria, di assemblee regionali esprime un giudizio negativo sul testo o su sue singole parti, la Camera richieda al Governo di riformulare la sua proposta.
L’apporto delle assemblee regionali contribuirebbe così a rafforzare la funzione di controllo delle assemblee parlamentari e queste potrebbero dar peso alla voce di quelle: entrambe potrebbero poi sfruttare la dialettica che si crea tra Governo e rappresentanti territoriali (quella nuova e diversa forma di checks and balances cui si accennava dianzi) per potenziare il loro ruolo di controllo “arbitrale”. Sperimentato il meccanismo, una legge quadro potrebbe finalmente intervenire vincolando il Governo a sottoporre alle Camere e, tramite esse, alla assemblee regionali gli schemi di delibera particolarmente rilevanti che sono frutto delle intese nelle conferenze.
Naturalmente, si dirà, tutto ciò rischierebbe di appesantire i tempi decisionali, ma non è detto che sia così. In ciò ci vuole saggezza: si tratta di selezionare le procedure particolarmente significative e magari anche di attivare meccanismi agili, che intercettino soltanto le questioni davvero interessanti. Per esempio, si potrebbe individuare un Ufficio di rappresentanza delle assemblee regionali – magari rivedendo l’assetto di organi già operanti, sia pure non brillantemente, nel sistema, quali la Conferenza dei Presidenti delle Assemblee regionali o il Congresso delle Regioni[57] – cui vengano presentate tutte le proposte corrispondenti ai criteri di selezione prefissati e che ha il potere di reagire in termini brevissimi (una settimana, per esempio) decidendo se una proposta sia da sottoporre a procedura di early warning: le altre, scaduto il termine, potrebbero riprendere il loro iter godendo di una sorta di “silenzio assenso”.
Ci vuole saggezza e moderazione, capacità di vedere l’obiettivo e centrarlo, senza arenarsi in inutili battaglie ideologiche. Chi volesse rilanciare il ruolo delle assemblee elettive su una considerazione dovrebbe attentamente riflettere: il rilancio del ruolo delle assemblee elettive passa anche attraverso la loro capacità di non apparire quale un inutile intralcio, ma di porsi come macchine capaci di lavorare con intelligenza e professionalità. I compensi che percepiscono i loro membri giustificano largamente questa aspettativa.
[1] Sul tema cfr. R. Bin¸ I criteri di individuazione delle materie e M. Belletti, I criteri seguiti dalla Consulta nella definizione delle competenze di Stato e Regioni ed il superamento del riparto per materie, in Le Regioni 5/2006; F. Benelli, La “smaterializzazione” delle materie, Milano, 2006.
[2] Sulla genesi paragovernativa del Bundesrat: L. Violini, Bundesrat e camera delle Regioni, Milano, 1989, 17 ss.; B. Pezzini, Il Bundesrat della Germania federale, Milano, 1990, 3-27; H. Klein, Il Bundesrat della Repubblica federale di Germania: la “seconda camera”, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1983, 3 ss.
[3] L. Violini, Bundesrat e camera delle Regioni, cit., 28.
[4] Secondo quanto disposto dall’art. 10 della Costituzione imperiale, B. Pezzini, Il Bundesrat della Germania federale, cit., 7.
[5] BVerfGE, 37, 363, dove si legge: “in conformità alla regolazione della Costituzione, il Bundesrat non è la seconda camera di un organo legislativo unitario, che – insieme alla prima camera – parteciperebbe essenzialmente al procedimento legislativo”. Per un’analisi della sentenza F. Palermo, Germania e Austria: modelli federali e bicamerali a confronto. Due ordinamenti in evoluzione tra cooperazione, integrazione e ruolo delle seconde camere, Trento, 1997, 306 ss.
[6] H. Klein, Il Bundesrat della Repubblica federale di Germania: la “seconda camera”, cit., 18.
[7] Sulla genesi paragovernativa del Senato americano: J. Yarbrough, R.E. Morgan, American Federalism: Lessons from the Founding, in R. Martucci (a cura di), Constitution & Rèvolution aux Etats-Unis d’Amerique et en Europe (1776-1815), Macerata, 1995, 70 ss.; R. Toniatti, Costituzione e direzione della politica estera negli Stati Uniti d’America, Milano, 1983, 341 ss.; A. La Pergola, Residui “contrattualistici” e struttura federale nell’ordinamento degli Stati Uniti, Milano, 1969, 154 ss.
[8] R. Toniatti, Costituzione e direzione della politica estera negli Stati Uniti d’America, cit., 343.
[9] In questo modo scriveva James Madison a Jefferson (lettera del 24 ottobre 1787), aggiornandolo sui lavori della Convenzione, a proposito del dibattito sul Senato: “In forming the Senate, the great anchor of the Government, the questions as they came within the first object turned mostly on the mode of appointment, and the duration of it. The different modes proposed were, 1. by the House of Representatives 2. by the Executive, 3. by electors chosen by the people for the purpose. 4. by the State Legislatures. On the point of duration, the propositions descended from good-behavior to four years, through the intermediate terms of nine, seven, six, and five years” (corsivo aggiunto).
[10] R. Toniatti, Costituzione e direzione della politica estera negli Stati Uniti d’America, cit., 341-342.
[11] Sul funzionamento del sistema canadese considerato “la patria” del coordinamento intergovernativo cfr. infra il § 5.
[12] Per una ricostruzione dei primi raccordi intergovernativi canadesi K. Brock, Executive federalism: beggar thy neighbour?, in F. Rocher, M. Smith, New trends in Canadian federalism, Peterborough-Ontario, 2003, 67 ss.; D.V. Smiley, Canada in question: federalism in the Seventies, Toronto, 1976, 92 ss.
[13] Segnatamente, il Report of the Royal Commission on Dominion-Provincial relations (1940), Ottawa, 1957, vol. II, 68-72, proponeva la creazione di una Dominion-Provincial Conference permanente. Per inciso si osservi che il Senato canadese non ha mai svolto funzioni di rappresentanza territoriale per cui da sempre il federalismo canadese viaggia sui binari della rappresentanza degli esecutivi e del dialogo con il Governo.
[14] D. Elazar, American federalism: a view from the State, New York, 1984, 180 ss.
[15] J.O. Araujo, El sistema politico de la Constituciòn española de 1931, Palma, 1991.
[16] L’assenza di una “dichiarazione dei diritti” nella Costituzione americana venne infatti giustificata da Hamilton ragionando sulla rigorosa delimitazione dei poteri conferiti all’Unione, che impedisce ad essa di “occuparsi” dei diritti: “Perché mai ‘dichiarare’ che determinate cose ‘non si devono fare’ quando comunque ‘non esiste il potere di farle’?”. Una Dichiarazione dei diritti potrebbe perciò fornire “appigli” alla interpretazione estensiva dei poteri federali (Il Federalista, n. 84). Quante volte argomenti consimili sono affiorati nel dibattito europeo attorno alla “Carta dei diritti”?
[17] Com’è noto il test per entrare nel novero degli Stati federali varia parzialmente da studioso a studioso, prevedendosi da un minimo di tre a un massimo di dieci requisiti. In genere si propende per un’individuazione di cinque attributi essenziali: l’esistenza di una costituzione scritta; l’esistenza di istituzioni legislative; una separazione costituzionale delle competenze legislative; la presenza di una Camera delle Regioni; la presenza di un arbitro dei conflitti di natura giurisdizionale. Per un approfondimento sui test del federalismo B. Baldi, Stato e territorio. Federalismo e decentramento nelle democrazie contemporanee, Roma-Bari, 2003, 35-36; D.I. Duchacek, Comparative federalism: the territorial dimension of politics (1970), Lanham, 1987, 188-276.
[18] Si pensi ai casi di Cameroun, Pakistan, Rodasia e Nyasaland, R.L. Watts, Comparing federal systems, Montreal-Kingston, 1999, 92 ss.
[19] K.C. Wheare, Del governo federale (1963), Bologna, 1997, 163-165.
[20] Sul punto cfr. infra il § 8.
[21] P. Ciarlo, Governo forte versus Parlamento debole: ovvero del bilanciamento dei poteri, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 2002, 17 ss., 28-32.
[22] Sulle difficoltà a tener distinte logiche territoriali e partitiche all’interno delle Seconde camere federali S. Vassallo, Come le Seconde camere rappresentano i “territori”. Le lezioni dell’analisi comparata, in S. Ceccanti, S. Vassallo (a cura di), Come chiudere la transizione. Cambiamento, apprendimento e adattamento nel sistema politico italiano, Bologna, 2004, 339 ss., 344.
[23] Sulla distinzione tra i due concetti A. Scalone, Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, Milano, 1996.
[24] La bibliografia sulla possibilità di rimuovere i problemi del bicameralismo perfetto tramite la Seconda Camera regionale è vastissima, ex plurimis: P. Aimo, Bicameralismo e regioni. La camera della autonomie: nascita e tramonto di un’idea. La genesi del Senato alla Costituente, Milano, 1977; L. Paladin, Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo. Il caso italiano, in Quaderni costituzionali, 1984, 219 ss.; S. Vassallo, Come le Seconde camere rappresentano i “territori”. Le lezioni dell’analisi comparata, cit., 342 ss.
[25] Nella dottrina italiana – vista anche l’irreversibilità dell’esperienza delle conferenze e la presa di coscienza della necessità di un dialogo con il Governo – si sta diffondendo l’idea che tale aut aut non sia affatto necessario e che sia possibile sdoppiare i binari della rappresentanza territoriale allocandola su due livelli, da un lato il Parlamento con la Camera delle Regioni o in alternativa con la Commissione bicamerale integrata, dall’altro il Governo con le attuali conferenze. Come meglio vedremo nel § 6, lo sdoppiamento delle sedi della rappresentanza territoriale è assolutamente da evitare in quanto foriero di incertezze e implicante un potenziale indebolimento interno della stessa rappresentanza territoriali. Esso, infatti, incrinerebbe la presenza di un organo in grado di esprimere in via definitiva la volontà regionale e di dar vita ad un compatto e omogeneo sistema-regioni.
[26] F. Palermo, Germania e Austria: modelli federali e bicamerali a confronto. Due ordinamenti in evoluzione tra cooperazione, integrazione e ruolo delle seconde camere, cit., 309, che osserva, altresì, come “lo spazio decisionale del Parlamento si concentra di fatto nella camera bassa”, 510.
[27] Per brevità espositiva, nel presente lavoro vengono confutati soltanto alcuni degli argomenti pro-Camera delle Regioni, ma essi sono, come noto, vastissimi. Per una disamina di altri motivi a favore della Camera delle Regioni si vedano, ex plurimis, U. Allegretti Per una Camera territoriale: problemi e scelte, in Le Regioni, 1996, 423 ss.; U. Allegretti, Perché una camera regionale per l’Italia, in Democrazia e diritto, 2003, 115 ss.; B. Caravita Di Toritto, Perchè il Senato delle Regioni, in Quaderni costituzionali, 2000, 636 ss.; per una confutazione più diffusa I. Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni. Istituzioni e prassi della rappresentanza territoriale, Napoli, 2006, 181-277.
[28] Ex plurimis si vedano le critiche avanzate da R. Bin, Le deboli istituzioni della leale cooperazione (nota a Corte cost. 507/2002), in Giurisprudenza costituzionale, 2002, 4184 ss.; F. Merloni, Il paradosso italiano: “federalismo” ostentato e centralismo rafforzato, in Le Regioni, 2005, 469 ss.; F.S. Marini, La “pseudocollaborazione” di tipo organizzativo: il caso della Conferenza Stato-Regioni, in Rassegna Parlamentare, 2001, 649 ss.; P. Caretti, Gli “accordi tra Stato, Regioni e autonomie locali”: una doccia fredda sul mito del “sistema conferenze” (nota alla sent. 437/2001), in Le Regioni 2000, 1169 ss.
[29] Per un giudizio positivo sul funzionamento delle conferenze F. Pizzetti, Il sistema delle conferenze e la forma di Governo italiana, in Le Regioni, 2000, 481 ss.; I. Ruggiu, Conferenza Stato-Regioni: un istituto del federalismo “sommerso”, in Le Regioni, 2000, 853 ss.; G. Carpani, La Conferenza Stato-Regioni. Competenze e modalità di funzionamento dall’istituzione ad oggi, Bologna, 2006.
[30] Per i dati relativi alla attività delle conferenze nell’ultimo biennio cfr. V. Tamburrini, La Conferenza Stato-Regioni nel biennio 2005-2006, Capitolo X del Quarto Rapporto annuale sullo stato del regionalismo in Italia dell’ISSiRFA, in http://www.issirfa.cnr.it/3861,908.html, che dà conto anche dei problemi di funzionamento che le conferenze hanno registrato. Sul punto si veda, altresì, R. Carpino, Evoluzione del sistema delle conferenze, in Le istituzioni del federalismo, 2006, 13 ss.
[31] Sul punto concorda G. Carpani, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 193.
[32] Sulla circolazione degli istituti del diritto G. Rolla, Esportazione, imposizione, sostituzione e circolazione di modelli costituzionali, in R. Orrù, L.G. Sciannella (a cura di), Limitazioni di sovranità e processi di democratizzazione. Atti del convegno dell’Associazione di diritto pubblico comparato ed europea, Teramo, 27-28 giugno 2003, Torino, 2004, 315 ss.
[33] Ad esempio in Canada il sistema delle conferenze – da sempre emblema del coordinamento intergovernativo per la sua forza decisoria – ha visto un consistente susseguirsi di organi a partire dal lontano 1868: la Dominion-Provinces Conference del 1868, la Annual premiers Conference, organo orizzontale operante dal 1960; la First Minister Conference organo verticale operante sin dagli anni ’30, che dal 2003 ha cessato le sue riunioni ufficiali trasformandole in First Ministers Meeting informali. Attualmente la cooperazione ha assunto una forte impronta orizzontale per il tramite del Council of the Federation istituito il 5 dicembre 2003. Sull’evoluzione di altri sistemi delle conferenze G. Iovinella, Il sistema delle conferenze in Germania, Austria, Spagna e Italia. Note sui raccordi para-costituzionali tra Stato e autonomie politiche territoriali, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 5-6/2005.
[34] È il caso della First Minister Conference canadese.
[35] L’organo riunisce le 10 province canadesi, compreso il Quebec che a lungo era restato fuori dai circuiti cooperativi, e i 3 Territori del Nord. Per maggiori dettagli sul suo funzionamento si veda il sito ufficiale www.councilofthefederation.ca.
[36] Se non, chiaramente, quelle preposte al solo coordinamento orizzontale che, tuttavia, affrontano soltanto un aspetto della cooperazione, quello relativo ai rapporti interregionali.
[37] Si prenda ad esempio il Joint Ministerial Committee britannico che ha visto la creazione al suo interno di sotto-comitati settoriali composti dai ministri regionali e centrali competenti per materia e chiamati a discutere questioni settoriali. Esistono, infatti, diversi format: povertà, economia, sanità, ambiente. In altri assetti, tra cui lo stesso sistema italiano, si ravvisano “sessioni” speciali sulle questioni comunitarie, sulla salute, sull’ambiente e via enumerando. In altri ordinamenti, come quello tedesco o spagnolo, piuttosto che alla creazione di sub-comitati si assiste alla creazione di vere e proprie conferenze settoriali autonome.
[38] L’aspirazione del sistema spagnolo è verso una Conferenza dei Presidenti che è stata simbolicamente convocata due volte dal Governo Zapatero, ma non è stata ancora istituzionalizzata né è operativa. L’approvazione del nuovo Statuto catalano il 19 luglio 2006 ha, inoltre, sancito uno spostamento del sistema spagnolo verso il bilateralismo. Lo Statuto, infatti, istituisce una Commissione mista bilaterale Stato-Catalogna quale perno del coordinamento.
[39] Per esempio il Council of the Federation canadese si è riunito quattro volte nel 2004, due nel 2005, quattro nel 2006. Le convocazioni del Council of Australian governments devono essere almeno annuali. Dal 1992 ad oggi tale frequenza è stata rispettata e, talvolta, aumentata a due incontri l’anno per un totale, allo stato, di 18 incontri. Il Joint ministerial committee britannico, invece, presenta un andamento recessivo. Il Memorandum of Understanding prevede come minimo una riunione annuale, ma negli ultimi anni gli incontri hanno avuto luogo con una media di 20 mesi, in quanto la cooperazione si è incentrata in circuiti informali quali telefonate o contatti personali.
[40] Tale disegno è presente anche nello schema di Disegno di legge delega per l’istituzione e la disciplina della Conferenza Stato-Istituzioni territoriali per la leale collaborazione tra Governo, regioni, Province Autonome ed enti locali presentato dalla Ministra per gli affari regionali Lanzillotta al Consiglio dei ministri il 22 dicembre 2006 e attualmente in attesa del parere della Conferenza Stato-Regioni.
[41] Il Council of Australian governments per esempio non ha una Segreteria autonoma e utilizza il Commonwealth-State Relations Secretariat presso il Department of the Prime Minister. Il Joint ministerial Committee britannico è affiancato da un Joint Secretariat composto sia da impiegati statali che delle amministrazioni devolute. Gli uffici sono collocati nelle rispettive capitali con la possibilità di accentrare la Segreteria nel caso che la mole di lavoro aumenti. Il Joint Secretariat ha il compito di diffondere le informazioni tra livelli di governo, gestire il funzionamento sia del Joint ministerial committee nel suo plenum, sia nei suoi format settoriali. Le funzioni sono simili a quelle della Segreteria della Conferenza Stato-Regioni italiana, con l’aggiunta della predisposizione del tavolo per la risoluzione delle dispute.
[42] Tra i siti ufficiali si veda quello del Council of Australian governments, www.coag.gov.au e del Council of the Federation canadese www.councilofthefederation.ca. Mentre il Joint Ministerial Committee è privo di un sito ufficiale e i dati sul suo funzionamento sono reperibili in www.scottish.parliament.uk; www.dca.gov.uk.
[43] Per un’analisi più approfondita su tutte le deliberazioni e le riunioni del sistema delle conferenze australiane si veda il report Commonwealth-State Ministerial Councils: a Compendium-July 2006 in http://www.coag.gov.au/compendium/compendium.doc
[44] Sul ruolo della Segreteria della Conferenza Stato-Regioni G. Carpani, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 47-53.
[45] Allo stato se ne contano 9. Per maggiori dettagli www.coag.gov.au/guide_agreements.htm
[47] In effetti, il sito ufficiale delle conferenze italiane (www.regioni.it) è ben curato e se pensiamo che in alcuni ordinamenti il coordinamento intergovernativo si svolge a livello totalmente informale, senza alcun tipo di pubblicità (Sud Africa), il nostro è un assetto avanzato, tuttavia relazioni ufficiali a cadenza annuale servirebbero a rendere il sistema più fruibile e trasparente.
[48] A favore di una rappresentanza impostata sul doppio binario della Commissione bicamerale integrata e delle conferenze si esprimono, ex plurimis, N. Lupo, L’integrazione della Commissione parlamentare per le questioni regionali e le trasformazioni della rappresentanza, in G. Volpe (a cura di), Alla ricerca dell’Italia federale, Pisa 2003, 137 ss.; R. Bifulco, Conferenza Stato-Regioni, in S. Cassese (a cura di), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 1229 ss., 1237; G. Carpani, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 147-154.
[49] Per una disamina di altre proposte di riforma volte a rinforzare il sistema delle conferenze G. Carpani, La Conferenza Stato-Regioni, cit., 191-213.
[50] Non che i conflitti tra Regioni non siano presenti, tuttavia essi vengono facilmente smussati all’interno della già operante Conferenza dei Presidenti. Persino il cleavage Nord-Sud, regioni ricche e povere ha sempre trovato una soluzione. Spesso è proprio la necessità di presentarsi unanimi e, pertanto, più forti dinnanzi al Governo a ricompattare il fronte regionale.
[51] G. Mor, Tra Stato-regioni e Stato-città, in Le Regioni, 1997, 516 ss.
[52] È quanto dispone lo schema di Disegno di legge delega per l’istituzione e la disciplina della Conferenza Stato-Istituzioni territoriali per la leale collaborazione tra Governo, regioni, Province Autonome ed enti locali del 22 dicembre 2006.
[53] Cfr. R. Bin, Il Codice delle Autonomie e i nodi irrisolti, in Le Regioni 6/2006.
[54] Si vedano sul punto le osservazioni di R. Bifulco, In attesa della Seconda Camera federale, in M. Olivetti, T. Groppi (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V, Torino, 2001, 211 ss., 218, in riferimento alla Commissione bicamerale integrata: “ci si chiede quale sia il titolo sulla cui base viene permesso agli enti locali di partecipare, sebbene in forma indiretta, all’esercizio della funzione legislativa”.
[55] Sostiene tale lettura P. Ciarlo, Governo forte versus Parlamento debole: ovvero del bilanciamento dei poteri, cit., 28 ss.; P. Ciarlo, Parlamento, Governo e Fonti normative, in Diritto Amministrativo, 1998, 363 ss.
[56] Sul punto A. Tomkins, What is Parliament for?, in N. Bamforth, P. Leyland, Public law in a Multi-layered Constitution, Oxford-Portland, Oregon, 2003, 53 ss., osserva che “storicamente la principale funzione del Parlamento non era legiferare, ma dare il proprio consenso alla Corona per alzare le tasse” o informarla delle principali lamentele e rivendicazioni da parte di particolari interessi; “l’idea del Parlamento come il principale legislatore è un invenzione tardo vittoriana. Come molte invenzioni vittoriane il XX secolo ha ossificato un semplice carattere contingente in una tradizione consolidata… Si è posta eccessiva enfasi sulle funzioni legislative del Parlamento a scapito di altri ruoli costituzionali che lo stesso può ricoprire”, 55. In ragione di ciò l’autore suggerisce: “dovremmo abbandonare la nozione che il Parlamento è principalmente un legislatore. Dovremmo invece guardare al Parlamento come un controllore del governo”, 54 (trad. nostra).
[57] Per maggiori dettagli sul funzionamento e le caratteristiche di tali recenti forme di raccordo tra i Consigli regionali www.parlamentiregionali.it.