Ragionevolezza e divisione dei poteri
Roberto Bin
Entrambe le relazioni, benché così diverse, toccano il problema del rapporto tra il giudizio di ragionevolezza e la teoria della divisione dei poteri. Robert Alexy, anzi, chiude il suo scritto sottolineando la continuità tra la teoria dei princìpi, che egli da tempo propone, e una teoria dell'argomentazione costituzionale che non si assegni solo compiti metodologici ed ermeneutici, ma si interroghi anche sul riparto di competenza tra il giudice di legittimità costituzionale e il legislatore democraticamente eletto. D'altra parte, è proprio nel diverso grado di legittimazione democratica degli apparati pubblici che Alessandro Pizzorusso riconosce il fondamento e la causa della differente intensità del "dovere di coerenza" che è proprio, a suo avviso, di chiunque eserciti pubblici poteri.
Il mio contributo è dedicato appunto al rapporto tra il giudizio di ragionevolezza e la divisione dei poteri. Il problema a cui vorrei offrire una risposta è se i giudizi basati sulla ragionevolezza, affermatisi in modo così intenso ed evidente nella giurisprudenza della Corte costituzionale, siano effettivamente un fenomeno inedito e deviante, al punto da modificarli, dai tradizionali tracciati che separano il ruolo del legislatore democraticamente eletto dal ruolo dei giudici - includendo tra questi anche la Corte costituzionale che, benché sia innegabilmente un giudice assai particolare, condivide con gli altri la netta e necessaria estraneità dal circuito della legittimazione democratica.
Per rispondere a questo quesito, prenderò le mosse da una definizione di 'giudizio di ragionevolezza' convenzionale e minima. Convenzionale perché mi occuperò dei tre contesti nel cui àmbito è generalmente riconosciuto che il giudizio di ragionevolezza operi in via principale, se non esclusiva: il giudizio di eguaglianza, il bilanciamento degli interessi e il giudizio di congruità tra la legge e il suo fine. Minima perché, almeno per il momento, non cercherò di modificare l'area così delimitata né nel senso di ampliarla ad ulteriori manifestazioni della ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale (per esempio, nei conflitti di attribuzione, nel giudizio sulla c.d. "leale cooperazione", nei giudizi di ammissibilità dei referendum ecc.) o fuori di essa, né per ridurla, ragionando sulla consistenza della tripartizione descritta per cercare schemi unitari più profondi.
A me sembra che la ragionevolezza non sia affatto un fenomeno nuovo. Al contrario, i tre contesti appena elencati sono omologhi ad altrettanti luoghi tipici della tradizionale interpretazione giuridica.
A) Che il giudizio di eguaglianza riproduca gli schemi logici del ragionamento per analogia è cosa ben nota: "il fondamento dell'analogia nel diritto è il nucleo razionale dell'idea della giustizia distributiva, cioè l'eguaglianza, che non soccorre solo nell'applicazione delle regole…ma anche nella loro produzione"[1]. La struttura trilaterale del giudizio di eguaglianza, da tempo proposta da Livio Paladin[2], ricalca perfettamente la struttura del giudizio di analogia se solo la depuriamo da un elemento: il richiamo, come vertice dell'ideale triangolo, del principio costituzionale di eguaglianza stesso. Questo aspetto della ricostruzione di Paladin - per altro nulla affatto essenziale - mi ha sempre lasciato perplesso[3]: infatti, se si esamina il "triangolo" attraverso cui si sviluppa il giudizio d'eguaglianza, il suo "vertice" non risulta occupato dal principio costituzionale d'eguaglianza. Esso non entra nello schema di ragionamento, non ne costituisce una componente, ma, semmai, ne è il fondamento, la giustificazione esterna, il pretesto formale della proposizione del giudizio alla Corte costituzionale, in quanto rappresenta il parametro costituzionale invocato da chi investe la Corte del caso. Ma il giudizio della Corte, per ciò che attiene alla sua struttura, si sviluppa a prescindere da ogni richiamo all'art. 3 Cost. Pone in raffronto - come Paladin spiega con grande chiarezza - una norma tratta dalle leggi ordinarie con un'altra norma ordinaria assunta a paragone, e si interroga sulla ragionevolezza della differenziazione o dell'equiparazione di trattamento.
Per rispondere a questo interrogativo la Corte deve assumere un punto prospettico da cui valutare la rilevanza delle somiglianze e delle differenze tra le fattispecie poste a confronto, e questo punto prospettico è dato dalla ratio legis: il legislatore ha disposto A (fattispecie presa come tertium comparationis) perché perseguiva X (ratio legis); dal punto di vista X risulta ragionevole discriminare (o assimilare il trattamento di) B (fattispecie impugnata)? Se si accerta che A e B sono accomunabili dall'eadem ratio, il triangolo si chiude, con la conseguenza che saranno dichiarate illegittime le eventuali differenziazioni poste dal legislatore, mentre "triangolo" non vi sarà neppure se la diversità di rationes delle due norme comparate impedisce di unire al "vertice" i due lati dello schema (con conseguente illegittimità delle eventuali parificazioni di trattamento che invece il legislatore abbia disposto).
Depurato dalla presenza - inutile, all'interno della struttura del ragionamento - del principio costituzionale di eguaglianza, lo schema triangolare si rivela perfettamente idoneo a rappresentare anche il ben più tradizionale ragionamento per analogia[4]. Nel triangolo dell’analogia[5] vi è lo stesso movimento ascendente dalla norma particolare al "suo" principio, alla sua ratio, e la ridiscesa dal vertice ad un altro punto, un'altra fattispecie giudicata, dall'angolo visuale della ratio, ragionevolmente simile: "è necessario che la somiglianza tra il caso previsto dalla disposizione di legge e quello non previsto consista nel fatto che entrambi i casi abbiano come termine comune di riferimento la 'ragion sufficiente' della disposizione stessa: ubi eadem ratio, ibi eadem juris dispositio"[6]. I ragionamenti analogici, come il giudizio d'eguaglianza, sono convincenti se gli aspetti che rendono i due termini di raffronto simili sono rilevanti: e vi è rilevanza se è sostenibile una relazione causale tra il motivo di somiglianza e le situazioni poste a confronto. Sono simili perché derivano dalla stessa causa, dalla stessa 'ragion sufficiente'[7]: "gli argomenti analogici possono essere probabili quando vanno dalla causa all'effetto o dall'effetto alla causa"[8].
B) Si potrebbe supporre che il bilanciamento degli interessi non possa rivendicare radici altrettanto profonde nei modi tradizionali del ragionamento giuridico, ma non è così. Non intendo appellarmi a fenomeni che pur risalgono nel tempo come il sindacato del giudice amministrativo sulla ponderazione degli interessi, i modi in cui il giudice civile può essere chiamato a verificare l'equilibrio delle prestazioni a cui si sono obbligate le parti contrattuali o le varie clausole equitative o indeterminate di cui è disseminata la legislazione, per ognuna delle quali può sorgere un problema di bilanciamento tra contrapposti interessi. Neppure mi riferisco alla indispensabile ponderazione degli interessi in gioco che è insita nella disciplina di pressoché ogni istituto giuridico[9], e che l'interprete deve ricostruire proprio per ricomporre la ratio delle disposizioni con cui ha a che fare, fino al punto di "scoprire" la regola del caso nel bilanciamento degli interessi (come suggerito dalla Interessenjurisprudenz). D'altra parte, la stessa "dottrina" del bilanciamento che la Corte costituzionale ha sviluppato in epoca relativamente recente nasce proprio dalla precedente esperienza di "interpretazione" delle disposizioni costituzionali e da una teoria interpretativa di tipo sistematico, per cui, come la Corte ha infinite volte ripetuto, ogni diritto, anche il più alto, nasce limitato e va inteso e apprezzato nel fascio complessivo degli altri diritti o dei diritti altrui[10].
Vorrei puntare più in alto, sino a sostenere che nella tradizionale teoria dell'interpretazione della legge è costantemente presente l'esigenza di un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti. Prendiamo il classico problema delle lacune del diritto (che ha poi una così stretta connessione, logica e storica, con quello dell'analogia): chi ne nega l'esistenza (e perciò riduce lo stesso àmbito di applicazione dell'analogia), finisce necessariamente con l'impostare il problema secondo un'ottica di bilanciamento degli interessi. Le esemplari pagine che Donato Donati[11] ha dedicato alla contestazione dell'esistenza delle lacune muovono, come è noto, dall'accreditamento di una norma generale esclusiva che limita la "forza di espansione logica" delle disposizioni legislative, contrapponendole un principio i "esclusione logica"[12]. Sul piano della teoria dell'interpretazione giuridica, questa impostazione porta a fissare un criterio generale che ripartisce in due l'arco delle possibilità dell'interprete di fronte ad una supposta "lacuna": o impiegare l'argumentum a simili, e procedere quindi per analogia (come richiesto da una supposta norma generale inclusiva[13]), o impiegare l'argumentum a contrario, e applicare quindi la (supposta) norma generale esclusiva[14]. Nella prima ipotesi, si è già detto del ruolo che vi svolge la ragionevolezza; nella seconda, quello cui è chiamato l'interprete è un giudizio di bilanciamento degli interessi. Sono in conflitto gli interessi che hanno ispirato la norma che regola e limita la sfera di libertà, e il principio di libertà implicito nella stessa norma generale esclusiva, per cui tutto ciò che non è vietato è permesso.
Certo Donati non avrebbe accettato di chiamare le cose così: ma quando l'interprete deve delimitare l'àmbito di applicazione di una norma limitatrice dei diritti, il suo primo compito è ricostruirne la ratio, e quindi gli interessi alla cui tutela la norma è predisposta, interessi antagonisti a quelli connessi alla libertà dell'individuo. L'opera di interpretazione della disposizione finisce perciò con implicare i test propri del giudizio di bilanciamento: la ricostruzione della ratio, un giudizio sulla congruenza tra la 'causa efficiente' della norma e lo strumento predisposto dal legislatore, una delimitazione dell'incisione della norma nella sfera degli interessi antagonisti, anche al fine di ridurre allo stretto necessario tale incisione e non sacrificare in toto la libertà individuale.
Ho scelto la teoria di Donati proprio perché essa è miglia e miglia lontana da una teoria del bilanciamento degli interessi: se avessi scelto le teorie della Interessenjurisprudenz o della freie Rechtsfindung avrei avuto gioco troppo facile. Quanto intendevo dimostrare è soltanto come i segmenti e i percorsi di cui si compone il giudizio di bilanciamento non siano affatto estranei ad alcuni segmenti e percorsi del processo di interpretazione giuridica tradizionalmente intesa. Potrei aggiungere che ogni volta in cui l'interprete sia indotto a riflettere sulla ratio di una norma si ritrova a ragionare e argomentare degli interessi che attorno ad essa si addensano e della loro equilibrata composizione. Sotto questo profilo mi sembrerebbe probabile che argomenti tradizionali, come l'argomento a fortiori, l'argomento della sedes materiae o l'argomento della lex specialis, proprio perché basati sulla delimitazione della ratio legis e mirano perciò al fine di ridefinire l'assetto degli interessi coinvolti, riproducano tratti salienti del giudizio di bilanciamento.
C) Quanto al giudizio sulla congruità del mezzo legislativo allo scopo, a me sembra che questa forma di "ragionevolezza", o forse più esattamente di razionalità, non abbia una sua specifica autonomia, ma sia parte inseparabile degli altri due. È sicuramente un segmento del giudizio di eguaglianza (la legge che è "irrazionale" non può giustificatamente discriminare le situazioni), ed è sicuramente un segmento del giudizio di bilanciamento (se la legge non riesce ad avvantaggiare l'interesse che vorrebbe promuovere, certo non può giustificarsi il fatto che danneggi l'interesse antagonista). Perciò spesso il giudizio della Corte costituzionale si ferma a questa prima tappa, senza bisogno di procedere oltre.
Sul piano dell'interpretazione, la mancanza di una ratio, ossia di una 'causa efficiente' - la cui ricostruzione comporta comunque che si percorra sempre questa tappa del ragionamento - avrà probabilmente delle conseguenze svalutative che si riflettono sulla portata prescrittiva della norma in questione. Se la portata dell’applicazione di una disposizione è funzione della capacità di estensione della sua ratio e se la ratio viene ricostruita dall’interprete come ‘causa efficiente’ della disposizione, la conseguenza di un’accertata irrazionalità di scopo della disposizione non potrà che indurre l’interprete a svalutarne la capacità regolativa, e restringerne al massimo il campo di applicazione. Forse l'argomento ab absurdo può costituire lo strumento retorico per quest’interpretazione svalutativa[15], così come costituisce – e lo vedremo in seguito – uno strumento acuminato per l’impugnazione delle leggi.
Ho cercato sin qui di mostrare che quanto oggi noi indichiamo come un fenomeno nuovo e inquietante, cioè il giudizio di ragionevolezza, si compone invece di strutture argomentative ben note alla tradizione ermeneutica dei giuristi, ne utilizzi segmenti di ragionamento ben collaudati e li componga secondo schemi certificati. È però vero che l’accettabilità di questi schemi ha rappresentato già in passato materia di conflitto nella comunità degli interpreti e tra i teorici dell’interpretazione: così è stato per l’analogia, sospesa tra gli argomenti “interpretativi” e quelli “produttivi”; così è stato per la stessa teoria delle “lacune” nell’ordinamento, contro cui scagliava i suoi strali critici Donati; per non dire della considerazione degli “interessi” nella giurisprudenza e degli stessi argomenti che sulla valutazione degli interessi si basano, come l’argomento teleologico, che è concorrente dell’argomento analogico[16]. Lo stesso argomento a contrario, che spinge l’interprete a considerare le conseguenze di una decisione giudiziaria e la sua possibile ingiustizia[17], conduce a operazioni che possono sembrare eversive rispetto alle attività strettamente interpretative.
Quale giustificazione può essere invocata a giustificazione di queste argomentazioni, così strettamente connesse, direi quasi propedeutiche, al giudizio di ragionevolezza? Il “presupposto di una intrinseca coerenza del sistema”[18] e le idee “mitologiche” della completezza e della razionalità del legislatore. In altra sede[19] ho sottolineato come la "completezza", la "coerenza", la "razionalità" del legislatore non siano certo criteri che attengono alla legislazione o al legislatore, ma, semmai, alle convenzioni che vigono nella comunità degli interpreti, e che vi sono accreditate perché ritenute premesse utili, anzi indispensabili, al lavoro che la comunità deve svolgere[20]. Non sono presupposti dell' ordinamento "positivo", quanto, piuttosto, solidi paradigmi della scienza giuridica: rappresentano "valori" condivisi dalla comunità degli interpreti, elementi basilari nella costituzione della loro matrice disciplinare. Insomma, sono princìpi regolatori supremi che guidano l'opera dell'interprete[21]; non però quella del legislatore:
I cittadini e i legislatori… non hanno bisogno di giustificare in termini di ragione pubblica il modo in cui votano, o di dare coerenza alle loro motivazioni e di inserirle, su tutto il ventaglio delle loro decisioni, in una visione costituzionale compatta. Ma il ruolo del giudice consiste proprio nel fare questo[22]
La differenza è fondamentale, perché "completa", "coerente", "razionale" e "univoca" potranno, forse dovranno essere attributi predicabili della norma, in quanto risultato del lavoro dell'interprete così come l'interprete lo intende, non già della disposizione, che è atto di potere[23]. Quando si afferma che l'ordinamento giuridico ha la pretesa della completezza e della coerenza, si dice cosa che, se riferita alla legislazione – specie quella italiana - non può che suscitare ilarità.
Ma l'interprete non può operare senza l'aspettativa[24] di trovare una risposta coerente, ragionevole, "accettabile"[25] ad ogni problema che gli venga posto. Si tratta di una vera e propria regola deontologica per il soggetto dell'interpretazione-applicazione del diritto, che da un materiale incoerente e forse contraddittorio deve trarre una soluzione univoca del problema, del "caso". È chiaro che è l'interprete ad "anticipare" (in senso ermeneutico) le qualità di completezza e di coerenza del testo su cui lavora. La personificazione del legislatore, e l'attribuzione alla sua opera di presunte caratteristiche che appartengono invece all'opera dell'interprete, sono dunque mosse compiute da quest'ultimo per cercare di deresponsabilizzare e desoggettivizzare alcuni elementi del proprio lavoro, quelli meno facilmente “accettabili”.
Cosa muta quando, nell’uso dello strumentario argomentativo della ragionevolezza, si passa dall’attività di interpretazione delle leggi, di cui ho parlato sinora, al giudizio di legittimità in relazione ad esse? A me sembra che la risposta possa essere questa: muta solo l’intensità, l’efficacia di alcuni strumenti, non la loro struttura.
Di fronte al “suo” caso, il giudice deve individuare la regola giuridica da applicare. Siccome il materiale legislativo, le disposizioni, possono essere incoerenti e incomplete, impiega una serie di strumenti, che la tradizione ha elaborato e gli ha trasmesso, per adempiere al compito di ridurre le antinomie e integrare le fattispecie. Da un lato, dunque, i classici criteri cronologico, gerarchico, della specialità ecc.; dall’altro gli strumenti dell’interpretazione sistematica, dell’estensione analogica, dell’interpretazione teleologica e il vasto strumentario argomentativi ereditato. Ma vi sono casi che non può risolvere da solo. In paesi come il nostro, in cui vale il principio della soggezione del giudice alla legge, il tenore letterale della disposizione può essere spesso un ostacolo non superabile con i soli mezzi dell’interpretazione: per esempio perché l’analogia è nel caso vietata, pur essendo evidente l’identitas rationis; oppure perché la disposizione non offre margini di modificazione del campo di applicazione, pur essendo evidente l’assurdità dell’applicazione della fattispecie al caso in questione; od ancora perché il ragionamento sistematico da solo non consente di superare l’antinomia, ecc. In questi casi "il comune interprete non è autorizzato ad integrare la legge, specie in mancanza di ogni appiglio normativo o letterale"[26]: prevarrebbe perciò il broccardo dura lex sed lex, se non esistesse lo strumento del ricorso alla Corte costituzionale.
Così come è positivamente costruito, il giudizio incidentale può essere legittimamente visto come strumento che serve essenzialmente ad agevolare l’opera del giudice e solo indirettamente alla protezione dei diritti. È lo strumento attraverso il quale il giudice può completare la sua opera e meglio soddisfare le regole di deontologia professionale, che gli prescrivono di ridurre l’ordinamento ad un sistema coerente, completo, univoco e razionale: ed è l’unico strumento che ha a disposizione per risolvere le antinomie tra le leggi e la costituzione rigida applicando il criterio gerarchico.
Perciò è psicologicamente comprensibile che il giudice veda nella costituzione la sede in cui i presupposti della coerenza, completezza ecc., che egli è solito ipostatizzare come qualità del legislatore, diventano prescrizioni dirette al legislatore stesso, e nella Corte costituzionale il loro custode. È una visione del tutto priva di fondamento?
Direi di no. Che l’art. 3.1, così come storicamente la Corte costituzionale lo ha interpretato, costituisca la base normativa del ragionamento per analogia, già è stato argomentato nel § 2. Ciò giustifica, mi pare, la comune opinione per cui coerenza e completezza dell’ordinamento siano princìpi “costituzionalizzati”, almeno nel senso che il legislatore non può irragionevolmente differenziare il trattamento di fattispecie simili (e viceversa) e non può irragionevolmente limitare la “naturale” espansione delle proprie disposizioni a tutte le situazioni sussumibili nella ratio di esse. Massime che trascrivono questi principi si trovano a dozzine nella giurisprudenza costituzionale.
Più difficile può sembrare rintracciare un fondamento costituzionale del bilanciamento degli interessi: ma è una difficoltà solo apparente, come cercherò di mostrare. La chiave me la offre ancora una volta Donati. Nel suo modello, ogni norma che restringe le libertà – ossia, come Donati ritiene, ogni norma tout court – trova una spinta antagonista nel generale principio di libertà (tutto ciò che non è espressamente proibito è permesso). Potremmo dire che tale affermazione prenda le mosse dall’ipotesi di un legislatore liberale e ne ipostatizzi quindi tale qualità, affiancandola a quelle delle coerenza, completezza ecc. Ma nel contesto della costituzione rigida italiana il discorso può arricchirsi di molti elementi ulteriori.
A me sembra infatti che il fondamento costituzionale del bilanciamento degli interessi possa essere individuato nel tratto della costituzione più svalutato dalla letteratura degli anni ’50 e ’60, cioè in quelle “illusorie formole di compromesso fra i partiti”[27] a cui si ridurrebbero le disposizioni costituzionali di principio. È perfettamente vero, infatti, che la costituzione italiana si è formata attraverso la giustapposizione di principi incompatibili, la sovrapposizione di affermazioni e contemporanee smentite, di finti compromessi tra posizioni inconciliabili. Ma questo non è affatto un difetto, bensì una caratteristica strutturale che accomuna la nostra alle altre costituzioni del dopoguerra (basti pensare a quanto sia stato criticato in Germania, da Forsthoff in poi, il preteso ossimoro sozialer Rechtsstaat): una caratteristica del tutto congrua rispetto alla funzione che la costituzione e le sue affermazioni di principio devono assolvere. E su questa funzione che occorre riflettere.
[1] L. GIANFORMAGGIO, Analogia, in Dig. disc. civ. I, 320 ss., 325, che conclude affermando a ragione che la giurisprudenza della Corte costituzionale sull'eguaglianza è il miglior esempio di ragionamento per analogia.
[2] Corte costituzionale e principio generale d'eguaglianza: aprile 1979 - dicembre 1983, in Scritti in onore di V. Crisafulli I, Padova 1985, I, 605 ss.
[3] Cfr. Diritti e argomenti, Milano 1992, 46 (nota 120).
[4] Che si tratti di un giudizio perfettamente sovrapponibili al ragionamento analogico, lo mostra la Corte stessa quando: a) dichiara l'infondatezza della questione perché l'estensione della classificazione legislativa è stata già compiuta dalla Cassazione in via di interpretazione (per esempio, sent. 136/1985, in "Giur.cost." 1985, I, 979 ss.); b) dichiara l'illegittimità della disposizione legislativa "nella parte in cui ...", esplicitamente riconoscendo che lo stesso risultato poteva essere (o era stato raggiunto) in via di interpretazione dal (o da altro) giudice di merito (per esempio, sent. 5/1986, in "Giur.cost." 1986, I, 41 ss.); c) dichiara di non poter modificare con sentenza additiva le classificazioni tracciate dal legislatore (perché riservate alla discrezionalità di questi), pur restando al giudice ordinario il compito di riequilibrarle operando in via di interpretazione (per esempio sent. 87/1986, in "Giur.cost." 1986, I, 485 ss.).
[5] Sulla riduzione dell'analogia giuridica a tre soli membri, rispetto ai quattro della retorica classica, cfr. G. TARELLO, L'interpretazione della legge, Milano 1980, 354.
[6] N. BOBBIO, L'analogia nella logica del diritto, Torino 1938, 104.
[7] In questi termini cfr. anche R. GUASTINI, Le fonti del diritto e l'interpretazione, Milano 1993, 433.
[8] I. M. COPI, C. COHEN, Introduzione alla logica, Bologna 19993, 472.
[9] Si riveda la “istruttiva … rassegna di una serie di norme [del codice civile] sotto il profilo degli interessi tipici che appaiono in esse valutati” proposta da E. BETTI, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Milano 19712, 291 ss.
[10] Sul passaggio da questa fase della giurisprudenza costituzionale alla "dottrina" del bilanciamento cfr. R. BIN, Diritti e argomenti cit., 56 ss.
[11] Il problema delle lacune dell'ordinamento giuridico, Milano 1910.
[12] Ibidem, 135.
[13] G. CARCATERRA, Analogia I, in Encicl.giur. II, 4, riconosce proprio nella norma generale inclusiva il principio generale che impone agli interpreti di procedere per analogia.
[14] Ibidem, 165.
[15] G. TARELLO, L’interpretazione cit., 370, ne parla infatti come di “una pluralità di argomenti sostanzialmente diversi caratterizzati dell’essere usati in forma negativa, ad excludendum”, piuttosto che di un argomento unitario.
[16] Cfr. G. TARELLO, L’interpretazione cit., 371.
[17] Cfr. C. PERELMAN, Logica giuridica nuova retorica, Milano 1979, 102
[18] E. BETTI, Interpretazione cit. 164.
[19] L’ultima fortezza, Milano 1996, 51 ss.
[20] Cfr. MacCORMICK, Coherence in Legal Justification, in Theorie der Normen. festgabe für Ota Weinberger zum 65. Geburstag, Berlin 1987, 37 ss., 45, che definisce "una pia illusione" la manovra retorica di attribuire alle intenzioni del legislatore i problemi con cui deve fare i conti l'interpretazione dei testi legislativi.
[21] BOBBIO, Le bon législateur, in Le raisonnement juridique, a cura di
H.Hubien, Bruxelles 1971, 843 ss.
[22] J. RAWLS, Liberalismo politico, Milano 1994, 201.
[23] Sulla distinzione tra disposizione e norma come contrapposizione tra atti di potere e atti retorici, cfr. R. BIN, La Corte costituzionale tra potere e retorica: spunti per la costruzione di un modello ermeneutico dei rapporti tra Corte e giudici di merito, in La Corte costituzionale e gli altri poteri dello Stato, Torino 1993, 8 ss.
[24] A. AARNIO, The Rational as
Reasonable, Dordrecht 1987, 190 e 222.
[25] Sulla identità di 'ragionevole' e 'accettabile', inteso il termine nel significato di corrispondente alle regole tradizionali dell'interpretazione, cfr. A. AARNIO, The Rational cit., 188.
[26] Così si esprime il GIP presso il tribunale di Bolzano nell'ord. 16 marzo 2000, n. 358 (G.U. n. 27 del 2000) riportata nel Taccuino della giurisprudenza costituzionale, "Quad. cost." 2000, 682.
[27] E. BETTI, Interpretazione cit., 313.