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Molti dubbi, un’unica certezza

 

Roberto Bin

 

1. Sulla rilevanza delle questioni.

Le questioni di legittimità costituzionale che qui stiamo discutendo in me sollevano molti dubbi.

Un unico aspetto mi sembra certo: la rilevanza. Intendo sia la rilevanza della questione sorta sul trattenimento coattivo, la cui sussistenza mi sembra indubitabile, che la rilevanza della questione che riguarda l’accompagnamento coattivo alla frontiera, che invece mi sembra non sussistere.

I dubbi che sorgono sulla prima questione sono frutto, a me pare, di un equivoco: l’equivoco di scambiare, nel lungo itinerario argomentativi che dottrina e giurisprudenza hanno percorso in tanti anni d’esperienza, il capo con la coda. È ben noto quanto sia complessa e oscillante la posizione della giurisprudenza costituzionale in materia di rilevanza e quanto sia divisa la dottrina a proposito. E non vi è dubbio che nell’una e nell’altra si possa rintracciare il filo di un ragionamento che, collegando la rilevanza all’influenza nel giudizio principale, all’”effetto” che il giudizio della Corte produce in esso, persino all’interesse concreto della parte, induca a dubitare che sia rilevante una questione sorta sull’applicazione della norma che - a seguito dell’emanazione dell’ordinanza di rinvio ed anche qualora la Corte rigettasse la questione stessa - diventerebbe non più applicabile nel giudizio principale. Ma gli esiti di questo lungo itinerario argomentativi perdono di vista quella che deve essere la premessa di qualsiasi ragionamento attorno alla funzione del sindacato di legittimità costituzionale.

La premessa è quella espressa con forza meravigliosa dalla sent. Marbury c. Madison: “se una legge contraddice la Costituzione; se entrambe si applicano a un caso particolare, così che il giudice deve o decidere il caso in conformità alla legge, trascurando la Costituzione, o in conformità alla Costituzione, trascurando la legge: allora il giudice deve decidere quale delle norme in conflitto disciplina il caso. È questa la vera essenza della funzione giudiziaria”. La questione è rilevante semplicemente perché il giudice si trova ad applicare una norma che sospetta essere incompatibile con la Costituzione: non può disapplicarla né, a maggior ragione, può disapplicare la Costituzione, e quindi deve paralizzarsi, sospendere il giudizio e investire la Corte della questione. Che poi l’ordinamento ricolleghi alla mancata conclusione in termini del giudizio principale effetti diretti e favorevoli alla parte, ciò non muta di un millimetro i termini del problema: la questione è rilevante e il dubbio “paralizzante” a prescindere da ciò che avviene a seguito dell’ordinanza e della sospensione del giudizio. La rilevanza della questione c’è in pieno: non occorre neppure richiamare la giurisprudenza della Corte costituzionale che nega che possano esservi sacche di esenzione dal controllo di costituzionalità, sacche che si formerebbero invece ad libitum se si consentisse al legislatore di rendere le leggi non impugnabili attraverso la previsione di congegni processuali che impediscano alle sentenze della Corte costituzionale di produrre effetti concreti nel processo a quo.

Dunque, per quanto la questione sollevata sia davvero spinosa, a me pare difficile che la Corte possa dichiararla irrilevante, negando platealmente giustizia (il che, su una questione così scottante, sarebbe davvero grave). Al contrario, non mi sembra che siano rilevanti le questioni che investono il provvedimento di espulsione. A parte il caso in cui la convalida del provvedimento di trattenimento coattivo sia decisa dal giudice contestualmente al ricorso contro il provvedimento d’espulsione (artt. 13.8 e 14.4 del decreto 286), la convalida è un procedimento del tutto autonomo che ha ad oggetto esclusivamente il provvedimento del questore. Altro è il provvedimento di espulsione e altre le forme di tutela processuale che in relazione ad esso sono disponibili. In sede di convalida del trattenimento coattivo (e sempre che questa non sia contestuale al rigetto del ricorso contro il decreto di espulsione) il giudice non può rimettere in discussione il provvedimenti di espulsione. Il richiamo ai “presupposti di cui all'articolo 13”, contenuto nell’art. 14.4, non può essere interpretato nel senso che al soggetto interessato sia data una seconda possibilità, oltre al ricorso previsto dall’art.13, di far valere gli eventuali vizi del decreto di espulsione: è un richiamo simmetrico a quelli, riferiti all’art. 14, che sono contenuti nei commi 3, 6, 7, 9, e 15 dell’art.13.

 

2. C'è "giudizio"?

La Corte potrebbe però liberarsi delle questioni sollevate negando che il giudizio di convalida disciplinato dall’art. 14 sia davvero un “giudizio”, nel senso di consistere in un’attività propriamente giurisdizionale nel cui corso sia consentito sollevare la questione di legittimità costituzionale. Il punto non mi sembrerebbe del tutto scontato,  data la natura assai ambigua del “giudizio” di convalida, che può apparire più un’attività interna a procedure di natura amministrativa che un attività propriamente “decisoria”: ha la forma ma non la sostanza della giurisdizione[1]. Ma la Corte potrebbe liberarsi della questione, dichiarandola inammissibile, solo se prima risolvesse il problema di merito, chiarendo se il trattenimento incida o meno sulla libertà personale: perché se la risposta a questo quesito dovesse essere positiva, le carenze strutturali del giudizio di convalida dovrebbero necessariamente portare alla dichiarazione di illegittimità del decreto legislativo per violazione della riserva di giurisdizione. Per cui la questione di merito non è evitabile e, per di più, toccare il problema della "cameralizzazione" della tutela giurisdizionale dei diritti significa affrontare un nodo estremamente intricato, anche se urgente visto il grande favore per il rito camerale che il legislatore sta sempre più frequentemente dimostrando anche laddove sono in gioco diritti individuali.

 

3. Espulsione e diritti costituzionali

 Benché la maggior parte delle opinioni espresse in questo seminario militino a favore della sussumibilità del trattenimento coattivo nelle limitazioni della libertà personale, questa conclusione non mi convince del tutto.

Bisogna liberarsi anzitutto dalle pregiudiziali ideologiche. Per quanto sia personalmente convinto dell'inutilità delle misure di contenimento dell'immigrazione e persino della loro giustificabilità morale, parto dal presupposto che lo Stato abbia il potere, ed anche l'obbligo assunto in campo internazionale, di regolare l'accesso degli "stranieri" - categoria per altro assai composita - nel proprio territorio: "lo Stato non può infatti abdicare al compito, ineludibile, di presidiare le proprie frontiere" (sent. 353/1997). L'espulsione è un atto conseguente.

Di per sé l'espulsione - salvo quando sia configurata come misura di sicurezza, a seguito di condanna penale (sent. 58/1995), figura non assimilabile all'ipotesi di espulsione "amministrativa" (ord. 328/1996) - non incide sulla libertà personale, ma semmai su quella di circolazione. Se non fosse così, la questione sarebbe da risolversi in radice nel senso della illegittimità del decreto legislativo, che non prevede che l'espulsione sia disposta da un'autorità giurisdizionale. Il problema non è stato invece neppure mai sollevato in relazione alla nuova disciplina, essendo evidentemente condivisa l'ipotesi che il diritto costituzionale inciso dal provvedimento prefettizio di espulsione sia semmai la libertà di circolazione, non tutelata con la previsione di una riserva di giurisdizione.

Discussa è invece la modalità dell'espulsione. Benché la questione di legittimità dell'accompagnamento coattivo alla frontiera non mi sembri, per le ragioni già esposte, che possa superare il filtro della rilevanza intesa in senso processuale, essa ha invece un certo rilievo per sviluppare il ragionamento successivo. Si contesta nelle ordinanze la legittimità dell'accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica senza che l'espulsione sia ordinata dall'autorità giudiziaria. Dunque, si contesta non tanto il provvedimento di espulsione (che potrebbe essere accompagnato dall'intimazione a lasciare il territorio italiano), ma la sua esecuzione coattiva: qui vi sarebbe il vulnus per la libertà personale.

Questa tesi mi pare non condivisibile. L'esecuzione forzata dei provvedimenti amministrativi non è affatto una figura assente dal nostro ordinamento; neppure lo è l'esecuzione degli obblighi di fare, che "deve produrre esattamente lo stesso risultato della spontanea ottemperanza"[2]: gli esempi che normalmente si fanno, a parte quelli attinenti al servizio militare, sono lo sgombero forzato, lo scioglimento delle riunioni ecc. Essa consiste in una "coazione fisica in personam" e incide perciò "necessariamente nella sfera della dignità e delle libertà individuali", sicché "viene ammessa assai raramente dalla legge e incontra rigorosi limiti nella Costituzione"[3]. Consiste essenzialmente nel "trasferimento del soggetto obbligato da un luogo ad un altro" ed è soggetta al principio per cui "la coazione non può andare oltre quel tanto che può condurre alla realizzazione del risultato indipendentemente da qualsiasi partecipazione della volontà" dell'interessato[4].

Insomma, l'esecuzione forzata di un provvedimento come l'espulsione non è affatto un monstrum nel nostro ordinamento, ma appartiene alle figure possibili e compatibili di esecuzione forzata dei provvedimenti amministrativi: lo sgombero coattivo delle case abusive della Valle dei Templi, documentato dai telegiornali, è un altro esempio dello stesso genere di fenomeni. È vero che essa deve pur sempre essere confrontata con la Costituzione, ma è anche vero che la valutazione della sua conformità alle norme costituzionali non può svolgersi secondo la logica tutto-o-niente, ma secondo quella della ragionevolezza, congruità e proporzionalità.

 

4. Ragionevolezza e alternative

"Il fatto è che la definizione del “diritto” non è come una pentola, rispetto alla quale un determinato fenomeno sta dentro o fuori, tertium non datur. Si comporta piuttosto come un ombrello durante un forte acquazzone: vi è un punto in cui la protezione è massima, e poi, via via che ci si allontana da esso, la tenuta diviene sempre meno efficiente; è persino difficile dire in che punto si è totalmente fuori dall’ombrello, anche perché in buona parte dipende dal vento". Ho cercato altrove[5] di sviluppare questa metafora,  certo un po' prosaica. Ma è calzante: come Crisafulli ci ha insegnato[6], talora tra libertà personale e libertà di circolazione vi è "una differenza quantitativa e di grado". È spesso difficile stabilire sotto quale dei due ombrelli ci si sta riparando.

Ciò impone di procedere con le tecniche del giudizio di ragionevolezza, e da questo non può essere esclusa anche la valutazione delle alternative. Quali sono le alternative all'espulsione coattiva? Che cosa si può fare di diverso quando né l'espulsione con intimazione né l'espulsione forzata sono praticabili, per esempio perché non sono note le generalità o la cittadinanza dello straniero o vi sono difficoltà di ordine pratico o diplomatico che si oppongono alla sua espulsione? È pensabile che il provvedimento di espulsione resti ineseguito ed inefficace, consentendo allo straniero di ritornare nella clandestinità? È preferibile che all'espulsione si proceda comunque, magari "caricando" gli stranieri su qualche vettore compiacente e non battente bandiera italiana, disinteressandosi di ciò che poi avviene di loro?

Il trattenimento coattivo presso i centri di accoglienza temporanea è una risposta a questi interrogativi. È una risposta che non piace a nessuno, anche perché è una risposta ad un problema la cui impostazione è - di questo resto convinto - sbagliata in radice. Ma può esser posta a carico della Corte costituzionale la soluzione di una questione politica (e ideologica) così intricata com'è quella della regolazione di un evento epocale qual è la migrazione verso i paesi più ricchi?

Il trattenimento nei centri di accoglienza è una misura che si colloca tra la libertà personale e la libertà di circolazione. Non dipende da un giudizio negativo sulla persona, tale da intaccare la sua dignità personale, come è stato ritenuto che fossero l'ammonizione (sent. 11/1956) o il rimpatrio obbligatori (sent. 2/1956): ma è certo fortemente limitativo della disponibilità della propria persona. Ma è un provvedimento preordinato all'esecuzione dell'espulsione imposto dalle difficoltà "tecniche" che ad essa si oppongono. L'aspetto più degradante, a ben vedere, non è tanto il trattenimento in sé (che probabilmente è percepibile come misura assai meno grave dell'espulsione), quanto lo sono le modalità con cui esso è attuato.

Ma se sono le modalità ad essere degradanti, e nei confronti di esse che bisogna agire. E forse questo rientra nelle responsabilità di "controllo" dei magistrati ordinari preposti al provvedimento di convalida: anzi, è proprio questo il significato dello stesso procedimento camerale di convalida, integrare con la garanzia della giurisdizione attività amministrative che "pesano" sulla sfera dei diritti. È il giudice che deve chiedere la motivazione dei provvedimenti, che deve valutare la loro fondatezza e limitare allo stretto necessario il sacrificio dei diritti individuali, negando le proroghe quando non siano necessarie. Bene fa il giudice a sollevare questioni di legittimità di tutte le specifiche disposizioni che gli impediscono in concreto di assolvere il suo ruolo, se ve ne sono. Ma non può alleggerire la propria responsabilità investendo la Corte costituzionale di una "questione" che in realtà, pur partendo dal concreto della sua gestione, tocca l'intera politica dell'immigrazione.

 

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[1] Cfr. le considerazioni d'insieme sui procedimenti camerali di COMOGLIO, FERRI, TARUFFO, Lezioni sul processo civile, Bologna 1998, 492 s.

[2] G. FALCON, Esecutorietà ed esecuzione dell'atto amministrativo, in Dig.disc.pubbl. VI, Torino 1991, 140 ss., 148, il quale traccia un elenco delle disposizioni legislative che prevedono ipotesi di esecuzione forzata.

[3] A.M.SANDULLI, Note sul potere amministrativo di coazione, in Riv.trim.dir.pubbl. 1964, 141 ss., 842.

[4] Ibidem, 843.

[5] Diritti e fraintendimenti, in Ragion pratica 2000, 15

[6] Libertà personale, Costituzione e passaporto, in Archivio penale 1955, II, 113 ss.