Prof. BIN
Premetto che nel
mio intervento si potranno ritrovare poche proposte e molti dubbi. I dubbi
nascono essenzialmente dal modo in cui viene attualmente impostato il problema
della riforma del sistema elettorale regionale, modo che non mi persuade
affatto. In particolare, non mi persuade la premessa che viene solitamente
assunta, e cioè che il risultato del referendum elettorale, che riguardava il
Senato, debba essere supervalutato nel suo significato, sino al punto di farne
la premessa necessaria di ogni ragionamento attorno al sistema elettorale per
le regioni. Non vorrei essere frainteso: credo che il referendum sia stato una
benedizione, ho molto sperato e continuo a sperare che abbia una sua
applicazione seria a livello nazionale, al quale era mirato; temo però gli effetti
di trascinamento inconsapevoli del referendum; perché l'effetto di trascinamento
porta a selezionare obiettivi che non sono obiettivi razionali ma solo
obiettivi simbolici; e questo è un paese che da troppi anni vive di obiettivi
simbolici.
Per almeno un
quinquennio abbiamo sopportato un dibattito di bassissimo livello sulle
riforme costituzionali, rispetto alle quali il vero obiettivo non era tanto la
riforma della Costituzione e delle sue istituzioni, ma lo sgombero
dell'inquilino che in esse da tempo si era installato e non se ne voleva più
andare. Allora, proprio come succedeva quando c'era l'equo canone, si è
pensato di ristrutturare la casa per cacciare l'inquilino. Poi si è scoperto
che per cacciare l'inquilino non occorreva ristrutturare la casa (tanto più
che il processo si profilava impossibile e pericolo, dato che lo stesso inquilino
si era messo alla testa dei ristrutturatori, ed anzi uno dei suoi principali
rappresentanti aveva già impugnato il piccone per iniziare la demolizione dei
muri portanti), ma bastava cambiare il contratto, e cioè il sistema elettorale.
Viviamo oggi un momento in cui lo strumento principale per la cacciata dell'inquilino si è rivelato essere il
sistema elettorale. Ma un punto è rimasto sinora in ombra totale: della casa
quando parleremo? Quando ci preoccuperemo di che cosa è la casa, di come è fatta
e a che cosa serve la casa? Finché la casa è lo Stato, su cosa sia la casa
abbiamo le idee abbastanza chiare: anche chi propugna il federalismo (che è a
sua volta, mi sembra, un obiettivo simbolico) sa che lo Stato non si estingue
con il federalismo, non è successo da nessuna parte, neanche nella prospettiva
estrema del federalismo jugoslavo (non quello attuale, ovviamente, ma quello di
Kardelj e di Tito), neanche allora ci si immaginava affatto l'estinzione
dell'apparato centrale. Ma quando si parla delle Regioni, il discorso della
casa si fa pregnante e prioritario.
I sistemi
elettorali non sono meccanismi del tutto neutri: ormai lo abbiamo imparato
tutti e oggi non c'è nessuno che parli di modifiche del sistema elettorale
senza riflettere sulle loro conseguenze più immediate, che sono quelle relative
alla forma di governo. Ma non è solo questa la variabile da considerare. I
sistemi elettorali sono macchine, le forme di governo sono formule e sono a
loro volta macchine. Le macchine non hanno fini in sé, le macchine svolgono
delle funzioni dirette verso alcuni obiettivi. Forse, allora, sarebbe anche
il caso di discutere verso quali obiettivi ci stiamo muovendo, quando si
inizia a proporre modifiche di sistemi elettorali. L'obiettivo è ovviamente
quello di una Regione che funzioni e che funzioni nella sua realtà: ma qual'è
la realtà delle Regioni? Non è fatta solo di sistema elettorale e di forma di
governo; è fatta di una serie di componenti che sono decisamente diverse da
regione a regione: la geografia politica, sociale ed economica, i rapporti con
gli enti locali, la storia dell'amministrazione locale, l'organizzazione dei
partiti. Non sono, questi, dati costanti nel nostro paese, ma anzi sono molto
diversificati: la Lombardia, per esempio, ha una storia e un'impostazione
dell'amministrazione locale, un rapporto tra capoluogo e provincia, una differenziazione
economica e culturale della società che è molto diverso, penso, dall'Emilia,
dal Friuli-Venezia Giulia, dalle Marche e così via.
L'unica certezza
che riesco a raggiungere in questo momento è legata a questa constatazione:
mi sembra impossibile, illogico, improduttivo pensare di imporre un sistema
elettorale unico a tutto il paese. Tutto all'opposto, se c'è una cosa da riformare,
sono proprio i blocchi che attualmente sono scritti in Costituzione e nelle
leggi e che congelano qualsiasi flessibilità dell'organizzazione politica
regionale, in modo che, finalmente, le regioni siano messe in grado di
scegliere formule di organizzazione delle istituzioni politiche adeguate alla
loro particolarità. Questo non significa ovviamente che la legge statale non
debba preoccuparsi di dettare una disciplina unitaria, e non solo di principio,
di alcuni profili del sistema elettorale regionale: ci sono principi e regole
che vanno messi in legge perché attengono alla garanzia dei valori costituzionali,
di eguaglianza e di libertà di voto, del diritto elettorale attivo e passivo,
e così via.
Direi, anzi, che
c'è un'altra esigenza che dovrebbe essere assicurata prioritariamente dalla
legge statale, quella di un equilibrato rapporto tra Regione e amministrazioni
locali. Mi preoccupa molto una scelta tra sistemi elettorali fatta senza
valutare questo che secondo me è uno dei dati prioritari da considerare, il
rapporto che si intende instaurare tra Regione e amministrazioni locali. Ci
sono Regioni (e sono forse la maggioranza) che hanno già dall'origine un
difficile rapporto con l'amministrazione locale: un sistema elettorale che, in
nome di una riacquistata efficienza della Regione, risultasse però
eccessivamente riduttivo delle differenziazione di interessi esistenti nel
sistema degli enti locali sarebbe secondo me una sciagura per la stessa funzionalità
della Regione. Riusciamo ad immaginare, per esempio, quali risultati può
provocare l'imposizione di un sistema maggioritario in una Regione in cui la
frammentazione geografico-politica condanni una Provincia o grossi Comuni alla
perpetua emarginazione, all'essere sempre minoranza o a doversi
"omogenizzare"?
Insomma, credo che sia necessario una legge
dello Stato che: a) sblocchi, a livello costituzionale, i vincoli che
impediscono alle regioni di scegliersi la forma di governo e sblocchi, a
livello legislativo, la corazza del sistema elettorale regionale unico; b)
fissi i principi fondamentali del "diritto elettorale"; c) stabilisca
forme di partecipazione degli enti locali alla formazione della legge regionale
cui è demandato il compito di mettere a punto il sistema elettorale (non vedrei
male anche un principio per cui la legge elettorale debba essere approvata con
referendum indetto, per esempio, a livello provinciale, visto che ci dice la
scienza politica che è la Provincia, e non certo la Regione, la vera unità
politica locale). Trovo corretta l'idea che la legge statale, anche per
sdrammatizzare il pericolo di inerzia del legislatore locale o di eventuali
abrogazioni (anche referendarie) della legge regionale elettorale, detti una
disciplina completa di un sistema elettorale, sufficientemente equilibrato, con funzione meramente suppletiva, di
riserva, restando alle Regioni assegnato il compito di disegnare la propria
organizzazione elettorale, che è legata necessariamente - su questo non ci
sono dubbi ormai - alla propria forma di governo.
Con ciò si sono
esauriti i miei punti fermi. Dicevo all'inizio che il problema di riformare il
sistema elettorale è complicato dalla quantità di variabili importanti di cui
tener conto. La prima variabile, secondo me, ma sempre trascurata, è il ruolo
che la Regione deve avere. Mi domando se si possa ancora immaginare, come negli
anni '70, una Regione che persegue, come nel suo Statuto c'è scritto, fini di
partecipazione e di programmazione, dotandola di un sistema elettorale di
tipo maggioritario o che, comunque, impiegando meccanismi che, come i premi di
maggioranza, tendano a rafforzare il governo a danno delle rappresentanze.
Credo che questa sia un'insensatezza; i casi sono due: o si abbandona il sistema
maggioritario o si abbandona l'idea che la Regione si organizzi essenzialmente
per funzioni di programmazione e di partecipazione. Le due cose non mi sembra
possano stare insieme.
Ci sono due
modelli, che posso immaginarmi, di organizzazione dei fini regionali. Da un
lato una Regione che si doti di un sistema maggioritario (bisognerebbe poi vedere
con quale calibratura del tasso di maggioritario e dei residui di
proporzionalismo: ma questo appartiene all' alchimia, non alla scienza). Ne
consegue, perché su questo non mi pare si possano avere dubbi, una forma di
governo che sarà tendenzialmente di tipo presidenziale, o comunque con un
esecutivo eletto direttamente e così via. Questa Regione si troverà a
colloquiare con altri due livelli di governo locale (e forse con un governo
nazionale) che saranno retti da sistemi analoghi, con tutte le aspettative che
questo innesca. Il sistema maggioritario sviluppa notoriamente una carica di
localismo accentuata. Dove va a scaricarsi questa carica di localismo? Dovrebbe
scaricarsi sul livello di governo che ha le competenze, e, siccome il sistema
maggioritario accentua l'efficienza decisionale, se quel livello di governo è
titolare delle competenze, il sistema maggioritario innesca un circolo
virtuoso. Ma come si fa a ripartire le competenze tra Regione, Provincia e
Comune, se tutte e tre hanno lo stesso tipo di strutturazione, lo stesso tipo
di aspettative dell'elettorato? Quali tensioni si creano, per esempio, tra il
Comune che gestisce i servizi e la Regione che eroga il finanziamento per i
servizi? Questa non è solo una questione di estetica costituzionale, è un
problema anche di funzionamento del circuito della responsabilità politica e
della rappresentanza, perché se scegliamo un sistema maggioritario l'abbiamo
fatto perché questo consente di raggiungere un'immediata identificazione delle
responsabilità, responsabilità che andrebbe tra l'altro collegata, in un
sistema ottimale, anche a un potere di imposizione fiscale (uno scambio di
"bollette": la bolletta fiscale e la bolletta elettorale). Ma se poi
questo ente locale non ha la pienezza delle sue competenze in materia, come si
fa a far valere i meccanismi della responsabilità? Questo è un dato da tenere
presente. Se la sanità, per esempio, continua ad essere ripartita tra Regione,
Comune e Stato, non serve a nulla che tutti tre i livelli si siano uniformati
al sistema maggioritario, perché non si guadagna un millimetro in termini di
individuabilità delle responsabilità: ogni livello dirà che la colpa del risultato
è dell'altro. Questo non garantisce responsabilità, non garantisce efficienza,
continua semplicemente a coprire la confusione. Immaginiamo poi quale
radicalizzazione dei conflitti può provocare questa continua rotta di
collisione: da un lato, il sistema di elezione diretta tende ad attenuare i
collegamenti e le mediazioni "di partito" trasversali rispetto ai
livelli di governo, nella stessa ragione con cui tende a rafforzare il
collegamento diretto tra eletto ed elettore; dall'altro, lo stabilizzarsi di
differenze di colorazione politica tra le aree geografiche di cui si compone la
Regione comporterebbe il sommarsi dei conflitti tra livelli di governo con la
concorrenza tra forze politiche.
Se la Regione va
anch'essa, quindi, verso un modello maggioritario, mi sembra che, anzitutto,
debba rassegnarsi all'idea di togliere dagli Statuti questa frase poetica
sulla Regione fatta per la programmazione, per le deleghe e per la
partecipazione: non si può avere capacità decisionali "forti" e
competenze decisionali "deboli", e di conseguenza ci sarà una certa
tendenza delle Regioni a voler amministrare direttamente almeno alcuni
settori. L'unica ripartizione intelligente sarebbe una ripartizione verticale
delle funzioni, per cui Regione, Provincia e Comune si ripartiscono blocchi di
funzioni, di ciascuno dei quali uno solo, alla fine, sarà il titolare
effettivo - il Comune il territorio, la Provincia l'ambiente e la sanità e
alla Regione l'economia, per esempio. La difficoltà è ovviamente quella di una
separazione di queste funzioni, ma questo può essere l'unico risultato che
consenta a tre livelli, omogenei come sistemi elettorali, forme di governo e
aspettative dei cittadini, di convivere senza avere un continuo scaricamento
reciproco di barile.
L'altro modello è
invece una Regione che resti ancorata alla sua tradizione (quella ufficiale)
e sia cioè una Regione che voglia essere rivolta a programmazione,
partecipazione, rappresentanza politica a livello nazionale degli interessi
della comunità. Sia ben chiaro che io non credo né che tali funzioni siano
"deboli" in assoluto (obiezione di Vandelli), né che questo modello
sia necessariamente destinato a fallimento (obiezione di Barbera). Non è
affatto un ruolo svalutabile quello di una Regione che decida (perché, insisto,
la decisione di quale modello assumere dovrebbe essere compiuta da ogni singola
Regione) di essere, non un concorrente dei comuni e delle province sul piano
dell'amministrazione operativa, ma l'ente che si preoccupa della politica
generale, che è in grado di porsi come interlocutore credibile della Comunità
europea, di sviluppare una politica economica da rappresentare agli organi
nazionali, di essere protagonista nelle sedi istituzionali (Parlamento incluso,
se si darà corso all'ipotesi del Senato delle Regioni) di scelte
corrispondenti agli interessi della propria collettività. Sarebbe ora di
riflettere su dove e come si formano oggi le decisioni fondamentali per la politica
economica di una Regione e come la Regione sia attrezzata ad essere lì
protagonista. Che poi questa vocazione originaria della Regione sia stata
tradita e quel modello non si sia realizzato è fuori discussione, e spiega
perché l'istituzione-Regione goda di così poco credito. Ma i fallimenti di ieri
non giustificano oggi nuovi vaticini. Quei fallimenti sono dovuti
all'inadeguatezza "culturale" della classe politica regionale che è
stata, e non, si spera, una costante del futuro su cui costruire profezie.
Comunque, trovo
che in una Regione che scelga questo secondo modello, non c'è nessun motivo per
optare per un sistema elettorale di tipo maggioritario, né per la forma di
governo presidenziale o comunque ad esecutivo forte e "legittimato dal
basso". Una Regione del genere si pone sostanzialmente come il Parlamento
dei Comuni e delle Province; è una Regione che lavora con un'effettiva, e non
solo fittizia, politica legislativa di deleghe, che non amministra, che
conferisce la responsabilità dei servizi, delle prestazioni agli enti locali
e si occupa di organizzare la partecipazione e la grande legislazione. Una
Regione del genere secondo me è tendenzialmente una Regione che si deve dotare
di un sistema proporzionale, anzi (per ripetere le espressioni usate da
Pasquino nella relazione scritta che ha lasciato) di un sistema proporzionale
che vada a rappresentare tutte le nicchie della società; è una Regione che
esalta la partecipazione, che differenzia il suo ruolo proprio perché si
differenzia come tipo di rappresentanza, che non si fa travolgere da un effetto
di trascinamento del sistema maggioritario, perché avere quattro livelli del
sistema maggioritario forse non ha senso. Pensiamo che il paese cui spesso
guardiamo come modello di sistema maggioritario, cioè la Francia, a livello
regionale ha il sistema proporzionale. Tutti dicono: . Ma questo non significa
niente, bisogna vedere che cosa vogliono fare le Regioni, questa secondo me è
la prima cosa cui pensare.
Il fatto che ci sia
un sistema proporzionale non significa che debba essere un sistema dominato
dalle segreterie dei partiti: questo non mi sembra sia logicamente una
conseguenza. Ci possono essere ottime leggi proporzionali che, tramite un
sistema di elezioni primarie, per esempio, favoriscono proprio la
partecipazione e la rappresentanza delle nicchie, ma non affatto il predominio
delle burocrazie di partito (che della partecipazione e della rappresentanza
sono esattamente l'antitesi). Né il sistema proporzionale e la pluralità delle
forze rappresentate mina l'esigenza di un esecutivo forte. Forse ci si può anche non preoccupare di avere un
esecutivo forte per il semplice fatto che l'esecutivo non ha da avere funzioni
forti. Se si tratta di definire obiettivi e strategie di politica economica da
sostenere a Roma o a Bruxelles, se si tratta di elaborare un piano territoriale
dove siano scritte le scelte di fondo in merito alla destinazione del
territorio, se si tratta di decidere la ripartizione delle risorse tra zone e
attività, quello che è richiesto non è un esecutivo forte, ma una buon
funzionamento della rappresentanza: e qualsiasi sconto si ottenga in termini di
rappresentanza, sperando di guadagnare in termini di efficienza della
decisione, poi si è condannati a risarcirlo con penale quando si passi
all'attuazione delle scelte compiute. Come riuscirebbe un esecutivo regionale
"forte" ad imporre determinate scelte al Sindaco eletto direttamente
nel capoluogo, se non con la persuasione? L'esecutivo della Regione deve avere
funzioni forti oppure no? Questa, secondo me, è la vera opzione.