Roberto Bin

 

La funzione amministrativa

 

La mia relazione non ha l’ambizione di toccare tutti i profili della ricaduta sulle funzioni amministrative che potrà avere la riforma del Titolo V°. Mi limiterò a formulare alcuni interrogativi che mi appaiono prioritari e ad abbozzare per ciascuno una traccia di risposta. L’ultimo interrogativo lo è solo formalmente: rappresenta piuttosto il tentativo di abbozzare una prospettiva d’insieme dei rapporti “sistematici” che potrebbero (e a mio avviso dovrebbero) costituirsi tra la Regione e i “suoi” enti locali.

 

1. Parallelismo vs. sussidiarietà? - Comune è l’affermazione che il nuovo testo del Titolo V°, introducendo il principio di sussidiarietà come criterio di allocazione delle funzioni amministrative, abbia scalzato il principio del parallelismo delle funzioni legislative e amministrative, che era stato in precedenza uno degli assi ordinatori della ripartizione delle attribuzioni. Ma il principio del parallelismo e il principio di sussidiarietà sono davvero in antitesi, incompatibili al punto che l’affermarsi del secondo comporti il superamento del primo? Ritengo di no, perché i due princìpi non sono affatto complanari. Stanno su piani diversi: si differenziano per origine, per funzione, per àmbito e per “valore” protetto.

A) Il principio di parallelismo è un principio di origine giurisprudenziale, elaborato dalla Corte costituzionale sulla base degli artt. 117 e 118 Cost. del testo costituzionale originale. La sua funzione è stata di fornire alla Corte stessa un criterio per la (ri)definizione delle funzioni legislative regionali, ed estenderle anche laddove lo Stato deleghi alle regioni esclusivamente funzioni amministrative: al punto che il parallelismo delle funzioni ha potuto indurre la Corte ad accreditare la formazione, per l’evoluzione della legislazione statale, di “nuove materie” di competenza legislativa regionale[1]. L’àmbito di applicazione del principio di parallelismo è stato esclusivamente quello della delimitazione delle attribuzioni delle Regioni, non toccando affatto il diverso aspetto delle funzioni degli enti locali: infatti il “parallelismo” è tranquillamente convissuto con un sistema di accentuato conferimento agli enti locali (sprovvisti, com’è ovvio, di potestà legislativa) delle funzioni amministrative in materie di competenza legislativa regionale[2]. Il principio di parallelismo è un principio di secondo livello che coniuga il più generale principio di legalità con il fenomeno delle deleghe di funzioni statali alle regioni, imponendo agli organi amministrativi (regionali) di agire, anche quando esercitino funzioni delegate, sulla base di una disciplina legislativa[3].

 

B) Il principio di sussidiarietà, invece, è un principio di politica legislativa, rivolto al legislatore tanto statale che regionale. La sua funzione è di indicare una generale e generica preferenza per il conferimento legislativo delle funzioni amministrative al livello più basso della piramide politico-amministrativa, quello comunale: sempre che non vi siano ragioni valide per richiamarne l’esercizio ad un livello più elevato. Esso si applica in generale a tutti i livelli di governo. Si potrebbe definire come un principio di secondo livello che esprime l’esigenza di bilanciare due princìpi più generali, il principio di autoamministrazione delle collettività locali e il principio di efficienza (o “adeguatezza”).

 

Non vi sono perciò ragioni per ritenere che i due princìpi, di parallelismo e di sussidiarietà, stiano necessariamente in posizione di contrasto o di incompatibilità: tanto è vero che la stessa Corte costituzionale, giudicando della c.d. “legge Bassanini I”, ha considerato compatibili il “vecchio” principio costituzionale del parallelismo con il “nuovo” principio, ora costituzionalizzato, di sussidiarietà[4]. Quello che probabilmente si può invece affermare è che i due princìpi rappresentano la chiave di volta degli archi di sostegno di due sistemi costruttivi alternativi e non sommabili: l’uno si basa su una ripartizione delle funzioni preventiva e tendenzialmente rigida, tracciata attraverso limiti di legittimità controllabili dal giudice costituzionale (che perciò si inventa il principio di parallelismo per consolidare il sistema), l’altro si basa invece su una procedura cooperativa di contrattazione e di accordo su chi assume l’esercizio dei singoli compiti, procedura ovviamente affidata ai soggetti e ai metodi della politica (a cui infatti il principio di sussidiarietà indirizza il suo programma). Come sempre avviene, il legislatore ricorre all’enunciazione esplicita di un principio solo quando non sa tradurlo in norme operative: ma il principio, quando è solo enunciato, sta in potenziale e necessario conflitto con le altre norme del medesimo testo, fatte per “implementare” non quel principio, ma gli altri princìpi, già consolidati. Questa è la situazione che la riforma del Titolo V rischia di realizzare, accostando l’enunciazione di un principio – la sussidiarietà – non adeguatamente strumentato con un sistema di regole che ad altri princìpi (tra cui c’è pure il parallelismo delle funzioni) si ispira.

 

2. La potestà regolamentare: un nuovo parallelismo? - Il quadro si complica per un’altra previsione contenuta nel nuovo Titolo V°: quella che sembra enunciare il principio di parallelismo tra funzione legislativa e funzione regolamentare. È espresso nell’art. 117.6: “La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia”. Ma la portata di questo principio è tutt’altro che chiara. Su un primo versante bisogna intendere in che cosa consista la possibile “delega” alle Regioni; sull’altro versante, bisogna capire in che cosa consista la “potestà regolamentare” che gli enti locali hanno “in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.

2.1. Quanto al primo profilo, prima facie sembrerebbe doversi intendere che la “funzione” che lo Stato può delegare alle Regioni sia proprio quella regolamentare. Ma ha senso un’ipotesi di questo tipo? Per quale motivo lo Stato dovrebbe rinviare alle Regioni la disciplina secondaria di una materia di sua competenza esclusiva, (magari contestualmente conferendo le relative funzioni amministrative agli enti locali, in nome del principio di sussidiarietà)? Molto più produttivo mi sembrerebbe ritenere che quel “salva delega” sia riferito alle vecchie “deleghe” di funzioni amministrative di cui al vecchio art. 118.2. Così le cose ritornerebbero un po’ più in ordine: lo Stato può delegare alle Regioni determinate “sue” funzioni amministrative, ed allora viene meno il suo monopolio normativo sulla materia “esclusiva”, ben potendo (e spesso dovendo, per rispetto del principio di legalità) la Regione dettare una propria disciplina per l’esercizio di quelle funzioni. Proprio qui sorge però un problema ulteriore: è davvero necessario che la Regione provveda a tale disciplina con “regolamento”, o lo può fare anche con “legge”? Non è un profilo trascurabile, perché sia il principio di legalità, sia lo stesso Statuto regionale, possono opporsi ad una disciplina regolamentare della funzione delegata, e richiedere invece una disciplina di rango legislativo. Se accettassimo questa prospettiva, avremmo di fatto restaurato il principio di parallelismo delle funzioni che, non a caso, proprio dall’esigenza della legalità ha tratto origine e nutrimento. La disposizione dell’art. 117.6 andrebbe letta allora in questi termini: lo Stato può emanare regolamenti soltanto laddove abbia potestà legislativa esclusiva e soltanto se non decida di delegare le funzioni amministrative alle Regioni; in quest’ultima ipotesi, perde il potere regolamentare e si espande conseguentemente il potere normativo (se in forma di legge o di regolamento sarà lo Statuto regionale, oltre alle circostanze, a determinarlo).

2.2. Quanto al secondo profilo, difficile è determinare quale estensione possa avere la “potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite” intestata agli enti locali. Sembra quasi trattarsi, ancora, di un’estensione proprio del principio del parallelismo: l’ente che è titolare di una funzione amministrativa è titolare anche del potere normativo relativo alla disciplina organizzativa e di esercizio della stessa; ossia, corollario necessario, l’ente che conferisce, esercitando la propria potestà legislativa, l’esercizio di una funzione amministrativa si spoglia anche del potere di disciplinarne in via esclusiva l’organizzazione e l’esercizio (l’eccezione al monopolio regolamentare dello Stato nelle materie di sua competenza legislativa esclusiva, di cui si ho appena discusso, è quindi applicazione di questo principio). “In via esclusiva” è un doveroso complemento di limitazione: è fuori discussione, mi pare, che la delega o l’attribuzione di funzioni amministrative ad altri enti non comporti la perdita di ogni potestà di disciplina organizzativa o di esercizio da parte dell’ente che se ne spoglia: cosa debba o possa essere regolato dal livello più alto e che cosa debba o possa essere regolato dal livello più basso è uno degli aspetti che vanno determinati ragionando in termini di sussidiarietà, e non attraverso categorie precostituite. Per cui su questo versante è facile prevedere un notevole tasso di conflittualità.

 

3. Funzioni fondamentali, funzioni proprie, funzioni conferite, funzioni attribuite: solo questione di nomi? – Il rovo terminologico che il nuovo Titolo V° ha creato a proposito delle funzioni dei Comuni e degli altri enti locali ha consigliato l’impiego di grosse cesoie. La tesi che sembra di gran lunga prevalente tra i primi commentatori suggerisce di distinguere solo due categorie: infatti le funzioni “fondamentali” (di cui alla lettera p dell’art. 117.2) e le funzioni “proprie” (di cui all’art. 118.2) sarebbero la stessa cosa. Le funzioni “conferite” (art. 118.2) sarebbero invece quelle “aggiunte” dalle leggi statali e regionali: “conferite” e “attribuite” sarebbero poi la stessa cosa (che l’art. 118.1 sembri usare i due termini in opposizione deriva forse soltanto da una scelta “stilistica” del legislatore, una delle poche invero).

Forse c’è lo spazio però per un’altra lettura, un po’ più sottile: “attribuite” sarebbero soltanto le funzioni “proprie” degli enti locali, diverse quindi da quelle “delegate”; “attribuite” sarebbero necessariamente tutte le funzioni dei Comuni, ai quali non è consentito di “delegare” funzioni ulteriori, dato che esse sono in principio tutte di loro spettanza. In altre parole, lo stato iniziale sarebbe che tutte le funzioni amministrative hanno un unico titolare, il Comune, cui sono “attribuite” dalla Costituzione stessa; poi, per ragioni di adeguatezza, alcune funzioni potrebbero essere “conferite” agli altri enti, su su sino allo Stato. Allo Stato sarebbe riservato il compito di definire le funzioni “fondamentali”, che spettano ad ogni ente di un determinato livello; rispetto a queste funzioni (si pensi, per esempio, ai servizi anagrafici) non potrebbe operare il principio di differenziazione, il quale invece potrebbe agire sulle funzioni “proprie” dei singoli enti, riservate ai soli enti “adeguati”. Avremmo quindi:

1.     funzioni fondamentali: attribuite dalla legge dello Stato, per esse vale il principio di eguaglianza tra gli enti dello stesso livello

2.     funzioni proprie: attribuite dalla legge dello Stato o dalla legge regionale, possono essere “differenziate”, in base al principio di adeguatezza, tra gli enti dello stesso livello

3.     funzioni conferite: sono il risultato del “moto ascendente” della sussidiarietà, ossia sono le funzioni che, “per assicurarne l’esercizio unitario” (art. 118.1) possono essere “sottratte” ai Comuni (cui, in principio, tutte le funzioni amministrative sono attribuite) e collocate a livello più alto

La questione potrebbe apparire solo terminologica, e in parte sicuramente lo è. Ma c’è un aspetto che si nasconde in essa e che riveste grande importanza. Si tratta di determinare l’àmbito in cui opera il “principio” di differenziazione - che più di un “principio” a me sembra essere uno degli strumenti della “adeguatezza”, che per altro non è che il “moto ascendente” della “sussidiarietà”: si tratta infatti di escludere dall’esercizio (e forse dalla titolarità) di certe funzioni attribuite ad un certo livello di governo quegli enti che, per dimensione o per altro, non siano ritenuti “adeguati”. Possono essere “differenziate” le funzioni fondamentali?

Funzioni che siano “fondamentali” per un certo tipo di ente (per i Comuni, per esempio, perché è essenzialmente di loro che si parla) e al contempo “differenziate” (quindi attribuite soltanto ad una parte degli enti appartenenti a quel “tipo”, per esempio soltanto ai Comuni di dimensione demografica superiore ad una certa quota) mi parrebbero al centro di un ossimoro irrimediabile. Però, se si accetta l’impostazione terminologica qui proposta, ne deriva la conseguenza che la “riserva” alla legge dello Stato, di cui all’art. 117.2, lett. p), dovrebbe riguardare un nucleo assai ristretto di funzioni: quelle che costituiscono la proiezione dell’organizzazione delle funzioni di interesse statale (i “Compiti del comune per servizi di competenza statale, come di esprime l’art. 14 del T.U. sugli enti locali), nonché quelle che sono imprescindibili, connaturate e connotanti il ruolo dei diversi livelli del governo locale.

Difficile immaginare come potrebbe essere formulato questo elenco, se non nei termini assai vaghi con cui lo traccia l’attuale Testo unico. Ma è illusorio porsi il problema come se fosse davvero una questione di elenchi. La porta della lettera p) potrebbe socchiudersi per far passare le innumerevoli disposizioni, più o meno consapevolmente inserite nelle leggi di settore, che affideranno, fuori da un quadro unitario, singoli compiti a questo o quell’ente locale: o almeno questa sarà la tesi del Governo, che pretenderà di definire “fondamentale” ogni compito conferito all’ente locale, così giustificando l’incursione legislativa nella materia. È ovvio che sarebbe una degenerazione del quadro costituzionale (assai poco ortogonale, per altro) tracciato dal nuovo Titolo V. In principio, infatti, “leggi statali di settore” potrebbero esserci solo nelle materie enumerate come competenza “esclusiva” dello Stato dall’art. 117.2: in quanto tali, di poco o nessun interesse (sempre ragionando per princìpi) per le Regioni. Il problema si riformula quindi in un altro quesito: lo Stato può individuare, con singole leggi di settore, le funzioni fondamentali degli enti locali anche fuori dalle materie di sua competenza esclusiva?

Qui non si tratta – si badi – di interpretare poteri e limiti della legge statale in àmbito di legislazione concorrente: nessuno troverebbe da obiettare se il legislatore statale ponesse, come “principio fondamentale della materia”, qualche indicazione generale sull’obbligo di “conferimento” delle funzioni agli enti locali da parte della legge regionale, così come aveva fatto a suo tempo la legge Bassanini. Il problema è un altro: si tratta di interpretare il “modo”, e quindi la misura in cui lo Stato può esercitare la sua potestà esclusiva, fissata dalla lett. p). Se si ammettesse che le funzioni “fondamentali” possano essere previste, non solo con leggi generali, ma anche con singole leggi di settore, vuoi perché chiamate a dettare i “princìpi fondamentali” della potestà concorrente, vuoi perché si preoccupano di garantire il ruolo degli enti locali nelle materie non elencate (e perciò di competenza regionale), la potestà legislativa regionale subirebbe una compressione enorme. Come si potrebbero disciplinare, per esempio, le funzioni amministrative “fondamentali” dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane in materia urbanistica, senza dettare al contempo una disciplina fortemente condizionante le scelte del legislatore regionale? Laddove la legge statale definisse il livello di esercizio di una certa funzione, avrebbe rivendicato a sé qualsiasi ulteriore valutazione circa la sussidiarietà, la differenziazione e l’adeguatezza: la legge regionale ne verrebbe definitivamente esclusa.

 

4. Una riforma costituzionale a “federalismo vigente”? – Quando fu varata la riforma Bassanini si parlò di “riforma federale a costituzione vigente”: diffusa è perciò l’opinione che la riforma costituzionale del Titolo V andrebbe letta anzitutto come “copertura” di quanto introdotto già, a livello di normazione ordinaria, dalla legge Bassanini. Essa era ispirata dai princìpi di sussidiarietà, adeguatezza ecc., che ora trovano riconoscimento costituzionale. Oltre alla spiegazione “storica” degli eventi, questa ricostruzione ci può fornire anche una chiave interpretativa del sistema normativo? Forse sì.

La legislazione ordinaria precedente, si potrebbe argomentare, ha già “attuato” le nuove previsioni. Il T.U. delle leggi sull’ordinamento locale (D.Lgl. 267/2000) fissa già le “funzioni fondamentali” dei Comuni e delle Province. Le fissa – è vero - in modo piuttosto equivoco: a parte le funzioni che derivano ai Comuni dalla figura del “Sindaco quale ufficiale del Governo” (art. 14), sia le funzioni comunali (“Spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale, precipuamente nei settori organici dei servizi alla persona e alla comunità, dell'assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico, salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze”: art. 13.1), sia quelle delle Province (che, in una serie di settori, consistono nelle “funzioni amministrative di interesse provinciale che riguardino vaste zone intercomunali o l'intero territorio provinciale”, a cui si affiancano compiti, per altro importanti, di programmazione e coordinamento: art. 19) sono costruite secondo uno schema ricorsivo, poiché l’atto che definisce le attribuzioni in attuazione dei princìpi di sussidiarietà ecc., richiama come elemento della definizione gli stessi meccanismi intrinseci al principio di sussidiarietà ecc (salvo quanto…).

A loro volta i decreti attuativi della legge Bassanini, e le leggi regionali che sono seguite, hanno fissato le funzioni “proprie” degli enti locali. È vero, il percorso ha invertito la successione temporale degli eventi, dato che ciò che doveva avvenire prima (la fissazione dei princìpi costituzionali) è avvenuto per ultimo, e ciò che doveva avvenire per ultimo (la determinazione delle funzioni “proprie”, da affiancare a quelle “fondamentali”) è avvenuto per primo: ma alla fina il sistema si è saldato, e potrebbe funzionare senza ulteriori interventi legislativi di riordino delle funzioni.

Ma se ulteriori interventi legislativi ci dovessero essere, chi avrebbe il potere di compierli? Stando alla ricostruzione che ho qui proposto, la risposta non potrebbe che essere la seguente: allo Stato, per ciò che riguarda le funzioni “fondamentali” (quindi, modifiche o integrazioni del Testo Unico); alle Regioni per quanto riguarda le funzioni “proprie” (quindi, modifiche o integrazioni alle leggi Bassanini e alle leggi regionali conseguenti), salvo ovviamente per le materie su cui lo Stato vanta potestà esclusiva ex art. 117.2. Resta aperta la questione delle funzioni da attribuire alle Città metropolitane, ma, non essendo chiaro neppure chi dovrebbe istituirle, ogni altra questione mi sembrerebbe prematura.

 

5. Dal “variabile livello degli interessi” alla “sussidiarietà”: che cosa cambia? – La preesistenza di un assetto legislativo delle attribuzioni amministrative degli enti locali tende a smorzare le differenze tra il principio di sussidiarietà, predicato dall’attuale testo costituzionale, e il criterio del “variabile livello degli interessi” che caratterizzava il precedente assetto (almeno secondo l’interpretazione della Corte costituzionale). L’unica differenza concettuale che si riesca ad avvertire tra i due criteri è questa: che il principio di sussidiarietà parte dalla premessa che tutte le funzioni amministrative sono in principio attribuite al Comune, salvo quelle che un’esplicita disposizione di legge attribuisca ad un livello superiore per ragioni attinenti l’adeguatezza o per l’esigenza di assicurarne l’esercizio unitario; nell’assetto precedente non valeva questa apparente attribuzione monistica delle competenze, perché le regioni erano intestatarie delle funzioni amministrative “parallele” a quelle legislative, gli enti locali di quelle attinenti agli “interessi esclusivamente locali”, lo Stato tanto delle funzioni in materia regionale il cui esercizio non fosse “frazionabile”, quanto di ogni altra funzione pubblica, non altrui intestata. Quindi, la clausola residuale che oggi sembra operare, in nome del principio di sussidiarietà, a favore del Comune, ieri operava invece a favore dello Stato, in nome del principio di sovranità.

Differenza non da poco, certo, anche perché ogni spostamento delle funzioni dal “luogo” in cui esse sono originariamente allocate è suscettibile di un giudizio da parte della Corte costituzionale da svolgersi in termini di ragionevolezza. Mentre ieri la Corte doveva valutare la sussistenza di valide motivazioni dell’attrazione verso il centro di funzioni rientranti nelle materie di competenza regionale, o dell’esercizio da parte delle regioni di funzioni esclusivamente locali, oggi tutte le disposizioni che sottraggono l’esercizio di funzioni amministrative alla loro sede “naturale”, il Comune, dovrebbero essere suscettibili di uno strict scrutiny che verifichi la sussistenza di validi motivi.

Tuttavia, se è vero che partiamo da un quadro legislativo che già distribuisce capillarmente le funzioni amministrative tra i diversi enti, è evidente che l’impatto di una trasformazione di così enorme portata sul piano dei princìpi subisce una notevolissima attenuazione nella sua operatività concreta. Infatti allo strict scrutiny sarebbero sottoponibili solo le leggi (statali e regionali) che togliessero ai Comuni le funzioni di cui già oggi sono intestatari, in base alla legislazione vigente; mentre appare più ardua l’impugnazione di leggi che perpetuassero, rinnovandola, la disciplina di funzioni che sono già in capo ad enti diversi. C’è naturalmente chi sostiene, e vi sarà senz’altro chi sosterrà in futuro, che la riforma del Titolo V° comporti una radicale modificazione dell’assetto effettivo delle funzioni amministrative: negando quanto qui sostenuto, si proporrà una lettura del tutto diversa del principio di sussidiarietà, magis ut valeat, nella convinzione che l’art. 118.1 Cost. (“Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che…”) rappresenti una norma attributiva munita di diretta applicabilità, capace quindi di abrogare tutte le diverse precedenti disposizioni legislative che diversamente distribuivano le competenze. Un vero terremoto che tuttavia ha un non trascurabile freno: un principio che si vorrebbe dotato di tanta forza tellurica sarebbe stato lasciato dal legislatore costituente del tutto privo di strumenti efficaci per propagare la sua scossa. In che modo i Comuni, privi di legittimazione processuale davanti alla Corte costituzionale, potrebbero far valere questa diretta e generale attribuzione di funzioni? Attraverso il contenzioso amministrativo?

 

6. La sussidiarietà orizzontale: chi disciplina le funzioni degli enti funzionali? – Le aporie della lettura magis ut valeat dell’art. 118.1 si manifestano con particolare evidenza a proposito della c.d. “sussidiarietà orizzontale”. Espressa dal nuovo testo costituzionale nei termini classici delle norme programmatiche (“Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà: art. 118.4), la clausola acquista significati del tutto diversi secondo l’interpretazione che si dia dell’art. 118.1.

Nella lettura, per così dire, “debole” che si è proposta in questa sede, il quadro normativo attuale non resterebbe “scosso” dalla riforma: le attuali competenze degli enti funzionali, fissate per legge, resterebbero ferme e sarà compito della legislazione futura ampliare – laddove opportuno – ma anche restringere – se necessario - le loro attribuzioni; mentre, per ciò che riguarda il ruolo della “autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati”, al suo eventuale potenziamento potrà provvedere anche il regolamento dell’ente locale, trattandosi di una modalità di esercizio delle funzioni amministrative.

Nella lettura magis ut valeat dell’art. 118.1 la situazione che dovremmo registrare sarebbe paradossale: se l’art. 118.1 comportasse un’attribuzione diretta di tutte le funzioni amministrative ai Comuni, questo coinvolgerebbe anche le attribuzioni attuali degli enti funzionali, che verrebbero prosciugati (salvi quelli esplicitamente protetti da altre norma costituzionali, come le istituzioni di alta cultura, le università ecc.). Quindi sarebbe necessario un nuovo atto di conferimento agli enti funzionali. Ma chi lo potrebbe emanare? Non certo il Comune, perché privo di potere legislativo (mentre la legge sarebbe certamente indispensabile per conferire funzioni pubbliche ad un ente): e quindi sarebbero nuovamente la legge statale e quella regionale, ciascuna per il suo àmbito di competenza, a dover rimontare in piedi il sistema delle autonomie funzionali e ribadirne le funzioni, sottraendole nuovamente ai Comuni. Nel frattempo?

Merita però notare a margine che il destino degli enti funzionali è di essere disciplinati dalla legislazione regionale. L’elenco delle materie “esclusive” dello Stato non sembra ricco di agganci per mantenere in piedi enti locali funzionali o istituirne di nuovi; molto più promettente è l’elenco delle materie di competenza concorrente. Facile è dunque prevedere che la lobby degli enti funzionali cercherà di reincarnare tali enti nei “princìpi fondamentali” della legislazione di settore, riservata allo Stato: per una volta Regioni, Comuni e Province si ritroveranno sullo stesso fronte di lotta, contestando la natura di “principio” delle disposizioni che vorranno imporre la sopravivenza (o magari il potenziamento) degli enti locali funzionali.

 

7. Verso un “sistema amministrativo regionale”? – Il T.U. delle leggi sull’ordinamento locale intitola l’art. 4 “Sistema regionale delle autonomie locali”. È un’intitolazione “programmatica”, che infatti promette molto di più di quanto sia concretamente strumentato nell’articolo (ennesima variante del principio di sussidiarietà come guida all’azione della Regione; ennesima variante del principio di leale cooperazione nei rapporti tra Regione e enti locali). Tuttavia la riforma del Titolo V° mi sembra spingere con forza nella direzione della costruzione di un sistema amministrativo regionale assai più fortemente coeso che nel passato. Gli elementi significativi sono diversi:

a) Difesa processuale delle attribuzioni “costituzionali” dei Comuni. Non v’è dubbio che lo Stato possa impugnare la legge regionale per violazione del principio di sussidiarietà, ossia per aver sottratto al Comune (o alla Provincia) funzioni che la legge regionale o la stessa legge statale gli (o le) avevano conferito: è quanto accaduto anche in passato (per esempio, in materia di varianti agli strumenti urbanistici[5]). Ma può la Regione agire contro la legge Statale che “espropri” il Comune (o la Provincia) di competenze ad esso (od essa) attribuite? La risposta è facile quando si tratti di materie non enumerate nella potestà esclusiva dello Stato: qualsiasi intervento legislativo statale (che non sia “di principio” e nel solo caso di potestà concorrente) colpirebbe non soltanto l’autonomia dell’ente locale, ma anche la competenza legislativa della Regione; la saldatura tra gli interessi sarebbe automatica. Più difficile (ed anche più improbabile) è l’ipotesi che si tratti di materie ricadenti nella potestà esclusiva dello Stato: qui - benché nel merito la risposta potrebbe forse essere per lo più negativa, salvo nei casi di macroscopiche violazioni della sussidiarietà (saremmo fuori quindi dallo strict scrutiny) – sul piano della legittimazione processuale si potrebbe discutere. Per argomentare una risposta positiva si dovrebbe infatti espandere la portata di quanto la Corte ha stabilito in passato a proposito della Regione come “ente esponenziale” della comunità regionale, l’esigenza di tutela della quale “va dunque al di là della salvaguardia della competenza legislativa regionale stabilita per territorio e per materie ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, e si ricollega alla natura della regione di ente politico esponenziale della comunità regionale, il cui fondamento e la cui garanzia sostanziale di fronte allo Stato e ai poteri del legislatore nazionale sta piuttosto nell'art. 5 della Costituzione stessa[6]. Una prospettiva importante anche sotto il profilo sistematico, perché ridarebbe una parvenza di “statuto costituzionale” alle attribuzioni degli enti locali, che altrimenti avrebbero in Costituzione un riconoscimento solo di nome, privo di qualsiasi effettiva strumentazione processuale. Forse – se è lecito un suggerimento – potrebbero gli Statuti regionali introdurre qualche norma a proposito, magari “proceduralizzando” l’attivazione processuale della Regione, disciplinando l’iniziativa dei soggetti interessati, in caso di lesione delle attribuzioni delle loro attribuzioni.

b) Vigilanza e controlli. L’abrogazione espressa dell’art. 130 Cost. ha comportato, per interpretazione ormai unanime mi sembra, la eliminazione dei controlli preventivi di legittimità sugli atti degli enti locali. Alcune Regioni stanno predisponendo leggi con norme transitorie sui controlli e sulla vigilanza, soprattutto per offrire certezza agli amministratori locali, giustamente assai preoccupati della situazione confusa che si è venuta a creare. Da un lato l’eliminazione dei controlli è un trend legislativo che ha ormai una certa età e sembra ispirato ad una visione dell’amministrazione “responsabile” del tutto condivisibile; dall’altro, l’eliminazione di quella forma di controllo preventivo e generale di legittimità non fa venire a meno tutte le altre forma di controllo che la legislazione ha previsto, legittime “purché … sia rintracciabile in Costituzione un adeguato fondamento normativo o un sicuro ancoraggio a interessi costituzionalmente tutelati[7]. Che vi sia l’esigenza di riordinare il sistema dei controlli superstiti e delle forme di vigilanza è fuori discussione. Ma chi ne ha la competenza legislativa? Rientrano anche i controlli e la vigilanza nelle “funzioni fondamentali” di cui all’art. 117.2, lett. p)? Ne dubito: tuttavia la legislazione statale può introdurre tra i “princìpi fondamentali” della legislazione concorrente anche forme specifiche di controllo e di vigilanza; sicuramente lo dovrà fare per ciò che attiene la “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. Si tratta però di legislazione di principio, che rinvia alle Regioni la disciplina di dettaglio. A loro volta le regioni avranno il potere di individuare altre forme di vigilanza e di controllo, laddove sia motivabile l’”ancoraggio costituzionale”. Insomma, l’intero sistema della vigilanza e dei controlli (incluso la sostituzione amministrativa, della quale l’art. 120.2 Cost., nel testo riformato, disciplina - in modo assai confuso – solo il versante statale) deve essere ridisegnato dalle leggi Regionali, introducendo tutte le innovazioni che non siano in contrasto con gli eventuali “princìpi fondamentali” fissati dalle leggi statali nelle varie materie. Un ottima occasione di cementare il “sistema amministrativo regionale”, da sfruttare, anche in questo caso, già nella fase di riscrittura degli Statuti regionali.

 c) Armonizzazione dei bilanci e coordinamento della finanza. Credo che su questo terreno le Regioni possano giocare una carta importante nella costruzione del sistema amministrativo. Si tratta di creare una perfetta compenetrazione tra gli strumenti di bilancio e di programmazione finanziaria delle Regioni e i bilanci degli enti locali, in modo da consentire ad essi di trovare nei bilanci regionali la certezza delle coperture finanziarie per i programmi pluriennali. Anche in questo caso i vincoli da parte della legislazione statale retrocedono ai soli “princìpi fondamentali”, lasciando ampio spazio all’innovazione da parte delle Regioni. Resta invece alla Regione il compito di disciplinare i propri strumenti di programmazione finanziaria facendone un punto di riferimento per tutto il sistema regionale. Il che significa abbandonare la vecchia logica per cui i bilanci si articolano secondo la struttura burocratica della Regione ed optare con coerenza per un’articolazione per progetti e per programmi, in cui anche gli enti locali possano riconoscere le basi finanziarie della loro programmazione. E ancora una volta gli Statuti possono essere la sede in cui anticipare i princìpi programmatici del sistema.

 d) Il Consiglio delle autonomie locali. Anche l’esplicita previsione del Consiglio nell’ultimo comma dell’art. 123 del nuovo testo del Titolo V segna la conclusione di una sequenza di previsioni analoghe. È evidente che il sistema amministrativo regionale non può essere realizzato senza un consenso “proceduralizzato” degli enti locali. Ma è anche evidente che i modi in cui costruire il Consiglio, la sua collocazione istituzionale, le sue competenze, gli effetti dei suoi pareri ecc. sono argomenti di cui dovranno occuparsi gli Statuti regionali e che stanno fuori dal raggio della mia relazione.

 

8. Che fine ha fatto la “funzione di indirizzo e coordinamento”?[8]Nel nuovo testo della Costituzione è assente qualsiasi accenno alla funzione di indirizzo e coordinamento. Un “silenzio significativo”, secondo buona parte della dottrina, di segno assai diverso dal silenzio della Costituzione del ’48: allora era comprensibile che il problema fosse ignorato, mentre non lo è oggi, dopo trent’anni di giurisprudenza costituzionale sull’argomento. Per di più dal nuovo testo è stato deliberatamente espunto ogni riferimento agli interessi nazionali e al controllo di merito sulle leggi regionali. Quindi la conclusione prevalente è che si sia chiuso ogni spazio per un esercizio autonomo della funzione di indirizzo e coordinamento: autonomo nel senso di non tradotto e diluito nelle specifiche riserve di competenza dello Stato (per esempio, i “livelli essenziali”, le “norme generali”, il “coordinamento informatico” di cui, rispettivamente, alle lett. m, n e r dell’art. 117.2, i “princìpi fondamentali” di cui all’art. 117.3, i meccanismi perequativi dell’art. 119 e – ma su questo punto cruciale le opinioni divergono fortemente – le ipotesi di intervento sostitutivo del Governo ex art.120), le quali andrebbero considerate quindi come “titoli esclusivi” su cui soltanto si potrebbe basare l’intervento statale a protezione dell’interesse nazionale.

La giurisprudenza costituzionale ha però sin dall’inizio fondato il “limite” degli interessi nazionali e la funzione di indirizzo coordinamento (che ne è il “risvolto positivo”, come la definì la “storica” sent. 39/1971) sul principio di prevalenza delle “esigenze di carattere unitario”, che “trovano formale e solenne riconoscimento nell'art. 5 della Costituzione” (ancora sent. 39/1971). Questo articolo non è stato toccato dalla riforma e quindi i princìpi che esso incorpora restano accreditati. Naturalmente ciò non significa che, insieme al principio, resti “pietrificato” anche tutto l’arsenale di strumenti con cui in passato esso è stato fatto operare. Bisogna considerare infatti se e come la riforma del Titolo V abbia strumentato quel principio, individuati modi nuovi per soddisfare le “esigenze unitarie” poste dall’art. 5. Una riforma costituzionale di raggio così vasto, se presa sul serio, deve portare ad una cesura netta con il passato. Siccome questa cesura non può “tagliare” i problemi, negando che essi sopravvivano, proviamo a cercare nel nuovo testo elementi utili alla loro soluzione. A ben vedere, elementi non mancano:

 

a)     il fatto che il legislatore costituzionale abbia cancellato tutti i riferimenti all’interesse nazionale contenuti nel testo originale della Costituzione non significa necessariamente che abbia ignorato il problema: semplicemente ha cancellato le “vecchie” soluzioni che si sono rivelate insoddisfacenti. Il meccanismo del “giudizio di merito”, che il Parlamento avrebbe dovuto svolgere sulle leggi regionali, era la traduzione in meccanismi procedurali del principio di supremazia dello Stato (e dei suoi interessi politici) sulle Regioni. Che il Governo fosse chiamato ad esercitare il controllo e l’iniziativa a difesa della superiorità sia dell’ordinamento giuridico dello Stato che dei suoi interessi politici, era perfettamente coerente con l’impianto, che era gerarchico come lo può essere un ordinamento che contrappone il generale (l’ordinamento e gli interessi nazionali) al particolare (l’ordinamento e gli interessi regionali). Tutto il sistema ruotava attorno a questo asse: si prenda ad esempio il meccanismo del controllo preventivo delle leggi regionali, contrapposto all’impugnazione successiva delle leggi statali; la totalità dei “vizi” deducibili dal Governo di fronte alla Corte costituzionale, contrapposta alla sola difesa delle proprie attribuzioni consentita alle Regioni; la cura degli interessi generali presupposta nell’impugnazione statale, contrapposta alla richiesta alla Regione di dimostrare (anche per opera) il proprio concreto interesse al ricorso ecc. Tutto questo oggi non c’è più: è stato cancellato dalla riforma.

 

b)    Non è vero che il nuovo testo del Titolo V abbia pretermesso volutamente ogni riferimento all’interesse nazionale: semplicemente ha cancellato l’ordinamento gerarchico di cui si è detto. Ma il “variabile livello degli interessi”, non più ordinato in gerarchia, è oggi ben presente nel testo costituzionale, tradotto nel principio di sussidiarietà, richiamato di continuo dalla riforma. ‘Sussidiarietà’ significa appunto questo: che le funzioni non sono assegnate una volta per tutte in base a criteri astratti, ma collocate al livello di governo più vicino possibile agli amministrati, purché “adeguato”. “Sussidiarietà”  e “adeguatezza” (che l’art. 118.1 Cost. opportunamente associa) viaggiano insieme come le due cabine di una funivia, equilibrando i propri pesi. Essi richiedono che la scelta di dove allocare le competenze sia compiuta secondo una valutazione concreta della dimensione degli interessi: le “antiche” distinzioni tra interessi frazionabili e interessi non frazionabili, nonché tra interesse nazionale, regionale e “esclusivamente locale”, sono quindi, non superate, ma riassunte nei concetti di sussidiarietà e di adeguatezza. È però avvenuto questo, che la ripartizione per livelli di interesse è stata sottratta ad una logica di tipo gerarchico: “sussidiarietà” ed “adeguatezza” esprimono una logica di tipo paritario. Opportunamente, dunque, l’art. 120.2 associa il “principio di sussidiarietà” al “principio di leale collaborazione”, offrendoci la chiave per continuare.

 

c)     La legge costituzionale di riforma inizia con quella criticatissima disposizione che dice: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Cercando di dare un significato giuridico a questa disposizione, tale da portarci un po’ più in là della mera elencazione di una serie disomogenea di enti, si è detto che in essa si può scorgere una chiara carica paritaria, per cui lo Stato non è più entità sovrapposta alle altre, ma pari ordinata ad esse. Ma sembra lecito compiere un passo ulteriore: non è lo Stato a “comprendere” gli altri livelli di governo; essi e lo Stato sono tutti compresi nella Repubblica. Qui, dunque, le considerazioni svolte nei due punti precedenti si saldano dialetticamente. Lo Stato partecipa alla Repubblica in posizione di parità, e non più di supremazia gerarchica,  rispetto agli altri enti; la tutela degli interessi nazionali e delle esigenze unitarie della “Repubblica” non è parte delle caratteristiche di supremazia dello Stato, ma deve essere frutto dell’unico modo in cui dei soggetti di pari grado possono decidere, attraverso l’accordo, la “leale cooperazione”.

 

9. La “Repubblica”: chi è? - Se la linea interpretativa che ho tracciato è credibile, essa ci porta finalmente ad una conclusione assai distante dal punto da cui abbiamo preso le mosse. L’apparente disinteresse del legislatore costituzionale per le esigenze unitarie e di coordinamento, che sono fortemente sentite in ogni sistema costituzionale moderno, non deve necessariamente portare a concludere per una costruzione rigidamente dualistica dei rapporti tra Stato e Regioni: quasi che il legislatore del 2001 volesse portare antistoricamente a compimento il disegno, ancora imperfetto nella versione originale, di una netta separazione delle sfere di attribuzione del centro e della periferia.

Tutto all’opposto: si sono ridefinite le sfere di attribuzione, ma soprattutto si è rivoluzionato il criterio di fondo dell’ordinamento dei rapporti tra Stato e Regioni: non più enti disposti lungo una linea gerarchica, tale per cui all’ente generale era riconosciuto e riservato il potere-dovere di curare gli interessi generali, ma enti pari ordinati, tenuti a collaborare per tutto ciò che attiene agli interessi comuni, gli interessi della loro casa comune, la “Repubblica”.

Il legislatore della riforma costituzionale potrebbe quindi essere assolto dal rimprovero di aver dimenticato di risolvere i veri problemi che la riforma del Titolo V avrebbe dovuto affrontare. Sia pure implicitamente, la riforma ci dice dove e come le esigenze unitarie possono e devono trovare la loro tutela: nelle sedi e nelle forme paritarie della leale collaborazione, non in quelle di un intervento dello Stato ispirato a supremazia. Un cambiamento radicale di prospettiva, a cui non potrebbe non corrispondere un cambiamento radicale nella giurisprudenza della Corte costituzionale.

In passato la Corte costituzionale aveva assecondato la trasformazione sistematica del limite di merito in limiti di legittimità: l’interesse nazionale si era infiltrato in ogni singolo limite di legittimità, dalla definizione della “materia” al territorio, dai princìpi fondamentali agli obblighi internazionali, per poi rovesciarsi in limite positivo nella “funzione” di indirizzo e coordinamento. Tutto ciò è stato possibile in un sistema dominato, come si è detto, dal principio di supremazia, che riconosceva nel Governo il soggetto deputato ad assicurare d’autorità il rispetto degli interessi nazionali. Oggi, con il principio di sussidiarietà, è venuta meno la giustificazione giuridica che consentirebbe di continuare su questa strada.

La Corte avrebbe perciò l’occasione per segnare una netta cesura con la giurisprudenza del passato. Con il nuovo Titolo V, cessata la supremazia dello Stato come tutore “preventivo” dell’unità dell’ordinamento giuridico (mentre gli è rimasto per ciò il solo strumento dell’intervento sostitutivo, anch’esso vincolato ai canoni della sussidiarietà e, soprattutto, della leale collaborazione), l’intera strumentazione della sussidiarietà e, nel suo àmbito, della tutela dell’interesse nazionale e delle esigenze di coordinamento è demandata alla cooperazione tra i diversi livelli di governo. Spetta alla loro contrattazione individuare le misure necessarie. È vero, il nuovo Titolo V non individua le sedi della contrattazione, ma ciò può significare soltanto che essa non ha (ancora) regole precostituite, non anche che può non esserci. La collaborazione deve esserci e deve essere leale, deve corrispondere ai criteri che la stessa Corte ha fissato in passato e che dovrebbe continuare a produrre in futuro.

In conclusione, la Corte potrebbe finalmente uscire dall’infausta situazione in cui è stata spinta da anni di regionalismo dominato dalla supremazia dello Stato sulle Regioni e dalle sue conseguenze giuridiche. Potrebbe finalmente opporre un rigoroso self restraint di fronte a tutte le – prevedibilmente assai numerose – questioni che sorgeranno nell’ampia zona lasciata in ombra dalla riforma: rifiutare di tessere ancora una veste giuridica per tutte le decisioni che dipendono da valutazioni squisitamente politiche. Verranno prodotti ancora atti di indirizzo, schemi tipo, norme di coordinamento tecnico, piani e programmi: la Corte potrà rifiutarsi di verificare se ognuno di essi e ognuna delle loro disposizioni incarni l’interesse nazionale o risponda all’esigenza di tutelare gli interessi non frazionabili; potrà limitarsi a verificare se quegli atti e quelle disposizioni sono il frutto di un procedimento di contrattazione che risponda alle regole della leale cooperazione. L’unico intervento che dovrebbe ancora garantire, insomma, è quello rivolto a tutelare il rispetto delle regole di leale collaborazione. In ciò, oltretutto, non sarebbe lasciata senza strumenti, perché, oltre al ricco strumentario elaborato dalla giurisprudenza passata, vi sono le regole poste dalla legislazione “Bassanini”, a partire dalle norme sulle Conferenze, sugli atti di indirizzo e coordinamento, sulla sostituzione.

La Corte potrebbe finalmente tornare a fare il custode delle regole del gioco, anziché essere costretta a riscriverle di continuo. E con il taglio netto con la sua precedente giurisprudenza dimostrerebbe anche che le riforme costituzionali si possono e si devono prendere sul serio.

 



[1] Sent. 27/1996, a proposito dell’edilizia residenziale pubblica

[2] Nella sent. 1115/1988 la Corte, a proposito di una legge statale che riserva ai Comuni determinate funzioni amministrative (ancora in tema di alloggi di edilizia pubblica) in materia di competenza regionale, nega che ciò comporti una violazione della potestà legislativa regionale, dato che disciplina delle funzioni amministrative che la legge statale assegna ai Comuni potrà essere dettata solo da legge regionale.

[3] Per un esplicito collegamento tra principio di parallelismo e principio di legalità si veda la sent. 65/1982: “la Corte ha più volte riaffermato (da ultimo, nella sentenza n. 70 del 1981) la regola del parallelismo tra funzioni amministrative e legislative regionali, senza di che rimarrebbe insoddisfatta la stessa esigenza di legalità dell'amministrazione”.

[4] Sent. 408/1998.

[5] Si vedano le sentt. 157/1990, 61/1994, 408/1995, 26/1996.

[6] Sent. 276/1991.

[7] Così la Corte costituzionale nella sent. 29/1995 (punto 9.1 dell’ “in diritto”).

[8] Gli ultimi due paragrafi riassumono le tesi sostenute in un articolo, dal titolo L'interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, in corso di pubblicazione nel fascicolo monografico dedicato alla riforma dalla RivistaLe Regioni e già in parte anticipato nel Forum di Quaderni costituzionali