Un tentativo assai poco convinto di essere propositivo

 

Roberto Bin

 

1. È difficile evitare la tentazione di liquidare il testo licenziato dalla Bicamerale con poche e dure parole di commento. Non esistono costituzioni perfette, lo sappiamo bene: sono tutte frutto di un compromesso politico e funzionano bene se sono aderenti a quel compromesso, cioè se le forze politiche che le hanno create le prendono sul serio come regola compromissoria dei loro rapporti. C’è chi ha scritto riflessioni interessantissime attorno alla funzione che ambiguità e silenzi hanno svolto per il successo di alcune “costituzioni” nobili, come quella inglese e quella nordamericana. Nessuna nuova costituzione, probabilmente, passerà perciò indenne il vaglio della critica scientifica, più attenta alla coerenza architettonica dell’edificio che alle esigenze abitative degli inquilini. Il problema è però che non tutti i compromessi producono risultati utili: e i risultati che ha generato il compromesso nella Bicamerale sono quantomeno discutibili sotto il profilo dell’utilità.

Utilità rispetto a cosa? Questo è un punto che va chiarito preliminarmente. L’utilità può essere valutata da prospettive diverse, per esempio quella di un partito o di un gruppo di interesse, quella del ceto politico nel suo complesso, quella della funzionalità delle istituzioni. Sono prospettive molto diverse, è evidente: ciò spiega le valutazioni opposte con cui il lavoro della Bicamerale è stato accolto.

Il ceto politico, nel suo complesso, ostenta grande soddisfazione, perché ha dimostrato di riuscire a stringere un accordo su quello che tutti i partiti avevano indicato come l’obiettivo prioritario: riformare la costituzione. Dalla sua prospettiva, dunque, il fatto stesso di essere riuscito a generare un’ipotesi di riforma che trova un largo consenso politico non può che essere visto come un grande successo, una prova di efficienza e maturità.

Fortemente critici sono invece i tecnici, i “professori”, che in larga maggiornaza giudicano la proposta della Bicamerale come un guazzabuglio senza capo né coda, un compromesso che rinuncia a qualsiasi coerenza, mischia e corrompe tutti i possibili modelli. La loro prospettiva è quella della funzionalità delle istituzioni, del tutto diversa, dunque, dal punto di vista del ceto politico “trionfante”. Subito si è acceso perciò un vivace scambio di accuse tra i “professori” saccenti, indignati dal cinismo di una classe politica capace di vantarsi per aver raggiunto un accordo che minaccia di generare un mostro istituzionale, e i politici “trionfanti”, indignati dalla saccenteria dei tecnici e della loro incapacità di ragionare in termini di realismo politico.

Chi ha ragione? Tutti, ognuno dal suo punto di vista. Se questo ceto politico, che già sente di non riscuotere, nel suo complesso, un entusiastico consenso popolare, avesse dovuto riconoscere apertamente di non essere capace - nel suo complesso, ancora - di assicurare all’Italia quella riforma della costituzione che tutte le sue componenti indicano con insistenza come l’obiettivo prioritario, avrebbe dovuto dichiarare fallimento. Il programma della Bicamerale era tanto ambizioso quanto disperato: si trattava di mettere d’accordo tutte le forze politiche, quelle stesse forze politiche che si litigano ogni giorno il potere, attorno a un progetto di riscrittura delle regole dello stesso gioco che stanno giocando. E’ il solito paradosso del barone di Münchhausen. Ma inaspettatamente il barone sembra riuscito nel miracolo di cavarsi dalla palude tirandosi per i capelli grazie a uno straordinario sforzo di coordinamento: come può ora sopportare le critiche dei “professori” e degli altri grilli parlanti, scontenti del modo in cui se l’è cavata? Non può che risultargli estranea, fastidiosa e persino ingenerosa la critica di chi, invece di apprezzare il sublime sforzo di mediazione politica che ha consentito il miracolo, si metta a fare la critica, pura e astratta, del testo concordato, ignorando le difficoltà politiche in cui ogni soluzione chiara e coerente è inesorabilmente incappata.

Ma anche i “professori” e le frange degli scontenti non hanno affatto torto. Il progetto uscito dalla Bicamerale è, per chi ragiona nella prospettiva della funzionalità delle istituzioni, un pastrocchio, una creatura abominevole che appare assai peggiore del testo del 1948. Si è introdotto un presidenzialismo da operetta, perché la forte carica di legittimazione che al Presidente della Repubblica deriva dal fatto di essere l’unico organo monocratico eletto direttamente dal popolo, si scontra con un quadro tanto debole quanto indefinito dei poteri presidenziali. Situazione ovviamente pericolosissima, sicura generatrice di tensioni e conflitti: ma l’obiettivo non era invece la “governabilità”? Il parlamento continuerà a decidere della morte (se non della vita) dei governi, anche perché l’accordo politico sul sistema elettorale minaccia di rendere ancora più debole la posizione del governo nei confronti dei partiti.

Ci si immagina un bicameralismo old America, in cui il Senato “delle garanzie” dovrebbe fare la rilettura delle decisioni della Camera per tutte le questioni che possono incidere sui diritti fondamentali o che non si vogliono assunte dalla sola maggioranza. Ma quanta diffidenza per il sistema elettorale maggioritario! ci si promette di attenuarlo nelle elezioni della Camera, espandendo il potere di controllo dei partiti, e per di più si pensa di mettere un Senato, eletto con il sistema proporzionale, a controllare l’operato di una Camera blandamente maggioritaria. E il Senato delle Regioni? Naturalmente scomparso: il “camerino”, giustamente beffeggiato da Indro Montanelli, è stato sostituito dallo “strappuntino”: un Senato che sarà ad “assetto variabile”, ma ancora indefinito, perché il compromesso politico ha rinviato il completamento del quadro normativo ad un compromesso successivo. Così la nuova costituzione nascerebbe monca della disciplina di uno dei due rami del Parlamento!

Il partito dei senatori ha vinto, ma tutta la riforma dei rapporti tra stato e periferia ne rimane compromessa. Di sussidiarietà si parla in ogni dove, nel testo proposto dalla Bicamerale, ma resta una parola vuota, sprovvista degli strumenti necessari: è lo Stato centrale, alla fine, a decidere di tutto; è la legge votata dalla Camera a delimitare unilateralmente i poteri del centro e della periferia, e a distribuire quel che vuole e come vuole tra le regioni e gli enti locali. Insomma, nulla è destinato a cambiare, se non in peggio: perché tutto ciò che è rimasto non chiarito, per poter raggiungere un accordo tra posizioni e interessi tanto diversi, si traduce ovviamente in altrettanti cause di tensioni e conflitti futuri. Il ceto politico - concludono i “professori” - si è costruito una costituzione brutta e sfacciata, fatta sulla misura della sua arrogante volontà di occupare la società civile, senza alcuna considerazione per l’efficienza delle istituzioni. Insomma, il barone di Münchhausen non si è affatto salvato da sé: anzi, strappandosi i capelli e agitandosi scompostamente, è ulteriormente sprofondato nella palude dell’inefficienza e della ingovernabilità da cui si riprometteva di uscire.

 

2. Sarà certo perché sono anch’io un professore, ma non riesco a trovare, nel testo licenziato dalla Bicamerale, quel tanto di base d’appoggio su cui cercare di costruire una critica propositiva. Lasciamo stare le cose più eclatanti, come l’ “ordinamento federale della Repubblica” - il termine ‘federale’ era stato, per giusto pudore, pretermesso dal testo licenziato in giugno - che si basa su quattro livelli concentrici di governo, cosa mai vista prima al mondo (se non negli ordinamenti blandamente “decentrati”, e certo non “federali”); oppure come il Senato integrato, dove l’iter approvativo delle leggi sarà incrociato dall’iter ferroviario dei senatori che vengono dalla provincia, cumulando i ritardi dell’uno con i ritardi dell’altro. Vorrei fissare l’attenzione invece su due punti più specifici ma che mi sembrano essenziali e in qualche modo rimediabili:

a) la prima questione è il funzionamento del meccanismo con cui si deroga al principio per cui spetta ai Comuni “la generalità delle funzioni regolamentari ed amministrative anche nelle materie di competenza legislativa dello Stato e delle Regioni”, cioè la questione di come funzionerebbe la “sussidiarietà”. Lascio di proposito perdere i commenti di merito su questa scelta - ma i comuni funzionano? quanti hanno dimostrato di avere una dimensione amministrativa adeguata ai loro attuali  compiti? quanti hanno dimostrato di avere una dimensione politica adeguata agli interessi che attualmente governano (il problema del traffico nei centri storici o quello di tenere a freno lo scempio urbanistico, per esempio)? - e quelli di stile o terminologici. Il problema vero è chi fa la “legge” che attribuisce ai livelli superiori di governo le funzioni per le quali la dimensione comunale non è adeguata, e come la fa. Il testo attuale è ambiguo, perché aperto alla doppia lettura: quella “ancista” (neologismo derivato dall’ Anci) - sicuramente dominante nella Bicamerale - che riserva questo potere alla legge dello Stato, e quella “regionalista” che ammetterebbe anche l’intervento della legge regionale. Questa è una scelta fondamentale, perché se passasse la prima interpretazione avremmo un ordinamento della repubblica che non solo non è federale, ma neppure regionale: un netto passo indietro rispetto alla costituzione attuale.

Siccome non è chiarito chi fa la legge, non è precisato neppure come essa venga fatta: lo “scombinato” disposto degli artt. 89.2, lett. a) e 90.2, lett. h) sembrerebbe voler dire che, mentre sulle altre questioni rilevanti (come, per es., la “tutela di imprescindibili interessi nazionali nelle materie attribuite alla competenza delle Regioni”: art. 89.2, lett. c, o l’autonomia finanziaria: art. 89.2, lett. d) il Senato “integrato” partecipa all’approvazione della legge, ma in via definitiva delibera comunque la Camera,  invece per la disciplina delle “funzioni fondamentali di Comuni e Province” è necessario sempre il consenso di entrambe le Camere. Ma il problema non è comunque risolto, perché qui si fa riferimento esclusivamente alle “funzioni fondamentali” ed è probabile che questa espressione alluda alle grandi leggi di ordinamento delle autonomie (tipo la 142: non a caso si elencano insieme, oltre alle funzioni fondamentali, la “legislazione elettorale” e gli “organi di governo”) e non a tutte le leggi di settore che individuano singole funzioni o complessi di funzioni allocandole ad un livello diverso da quello comunale.

Per cui, così come l’astratto titolo delle competenze regionali è scritto in Costituzione, l’astratto titolo delle competenze comunali e provinciali è fissato da una legge cui il Senato integrato partecipa a pieno titolo. Ma è poi con legge di settore monocamerale che si può plasmare, ridefinire, e svuotare la competenza assegnata, attraverso le tecniche ben note alle Regioni. Così non si risolve il principale problema attuale: differenziare le fonti in modo che la legislazione “corrente” non eroda ciò che viene fissato nelle grandi leggi di ordinamento dei poteri. Non risolvere questo problema significare alimentare il contenzioso giudiziale: la legittimazione degli enti locali ad agire difronte alla Corte è esattamente la strumentazione coerente a questo dissennato disegno istituzionale.

Vi è un’alternativa? Naturalmente sì: basta stabilire che qualsiasi legge (statale o regionale) che modifichi l’assetto delle competenze (e quindi, inevitabilmente, qualsiasi legge che tocchi la disciplina dei procedimenti amministrativi complessi) debba essere “rafforzata” da un particolare procedimento consensuale (perché questo è la sussidiarietà) e non derogabile dalle leggi ordinarie che di quel procedimento non sono espressione. Ma si può immaginare che questo procedimento sia attuato dal Senato integrato? Ci si può immaginare un procedimento di votazione sul collegato alla finziaria in cui ad ogni piè sospinto si debbano sospendere i lavori e convocare i senatori ferroviari perché si discute dei loro interessi? E così si torna inevitabilmente al problema del Senato.

 

b) Visto che una riforma del Senato in senso federale non è voluta dalla maggioranza delle forze politiche, credo sia preferibile non insistere su formule di compromesso che non porterebbero progressi nella soluzione del problema della partecipazione delle regioni alla legislazione regionale e minerebbero viceversa l’efficienza del Parlamento. Date le premesse sarebbe molto meglio ripulire il Senato da ogni traccia di rappresentanza territoriale, lasciandolo al suo (poco attuale) destino di “camera delle garanzie”.

In cambio si dovrebbe potenziare il ruolo della Conferenza di cui all’art. 76 del testo licenziato dalla Bicamerale. È abbastanza normale che nei sistemi federali (in senso ampio) in cui non vi sia una rappresentanza territoriale efficiente nel Parlamento, questa si costituisca presso l’esecutivo. Ma è evidente che deve trattarsi di un congegno istituzionale efficiente, cosa che ancora non è quello attualmente disegnato dal decreto delegato 281/1997 per la “conferenza unificata”, che il testo della Bicamerale vorrebbe costituzionalizzare. Se invece si introducesse una Conferenza modellata sull’attuale “conferenza dei Presidenti”, un organismo cioè totalmente regionale, prevendo che esprima un parere obbligatorio su tutti i disegni di legge e su tutte le leggi approvate dalla Camera dei deputati che interessano il riparto delle competenze tra Stato e Regioni, e che l’eventuale parere negativo comporti necessariamente l’approvazione della legge da parte del Senato “delle garanzie”, avremmo raggiunto almeno un risultato: quello di differenziare le leggi, “rafforzando” il procedimento di formazione di quelle che incidono sulle funzioni regionali in ragione di una partecipazione efficiente (anche se non molto efficace) delle Regioni al procedimento legislativo.

Non si tratterebbe di istituzionalizzare un terza Camera; nessuno potrebbe obiettare sul carattere non direttamente rappresentativo della Conferenza; si rafforzerebbe il ruolo “di garanzia” del Senato; non diverremmo famosi nel mondo per la nostra mostruosa fantasia costituzionale. Poi potremmo ragionare su come costruire un sistema elettorale per il Senato che accentui nei Senatori la sensibilità per il sistema delle autonomie, in modo da rendere effettivo il ruolo di “garanzia” che il Senato dovrebbe svolgere anche nei confronti delle autonomie, ergendosi ad arbitro nelle vertenze centro-periferia.

 

c) Mi sembra che il passo ulteriore sia chiarire che la legge che attribuisce funzioni amministrative a livelli diversi dal Comune possa essere sia regionale che statale (restando chiaro che mi rassegno a considerare vincente lo spirito “ancista”, perché a me continua a sembrare un’aberrazione che sia lo Stato centrale a distribuire le funzioni direttamente agli enti locali, trattandoli come “sue” articolazioni: ma l’Anci è un sindacato nazionale e segue la logica centralistica tipica di tutte le organizzazioni nazionali di categoria). È inevitabile pensare perciò che, se la legge statale resta competente a interferire nelle funzioni degli enti locali, venga costituzionalizzata anche la Conferenza degli enti locali, con composizione e attribuzioni del tutto simmetriche a  quella della Conferenza delle regioni (ben diverse dunque dall’attuale Conferenza Stato-città). Eppoi c’è il versante della legge regionale: siccome la differenziazione delle fonti è un problema che si pone anche per la legislazione regionale (il fenomeno dell’erosione delle leggi “organiche” da parte della legislazione minuta di settore è lì altrettanto grave che nello Stato), è necessario prevedere anche per questa un’ articolazione procedurale tale da garantire il rafforzamento delle leggi che incidono sulle attribuzioni locali attraverso la partecipazione degli enti interessati.

 

         Con queste modifiche continueremmo ad avere una costituzione molto brutta: ma forse potrebbe funzionare e innescare dinamiche virtuose nelle relazioni istituzionali tra i diversi livelli di governo