FEDERALISMO E FORMA DI GOVERNO
Roberto Bin
1. L'introduzione di un sistema federale, anche accentuato, non ha ripercussioni sul (né subisce condizionamenti dal) "modello" di forma di governo (intesa come sistema dei rapporti tra gli organi costituzionali).
1.1. Questa affermazione è valida purché si ragioni con riferimento a quanto di solito viene inteso con la locuzione 'sistema federale', cioè all'ordinamento costituzionale di uno Stato sovrano, unico benché decentrato sulla base di regole poste dall'ordinamento stesso; perde di validità invece quando si abbia in mente un tipo di organizzazione "confederale" dei rapporti tra più stati sovrani, in cui, alle regole costituzionali di organizzazione di uno Stato unitario, tendano in qualche misura a sostituirsi regole e schemi di diritto internazionale, tipici delle organizzazione che si formano tra Stati sovrani. In secondo luogo, questa affermazione è valida purché si ragioni in riferimento a forme di governo che comunque "abbiano le caratteristiche abitualmente associate alla democrazia o al governo libero", condizioni senza le quali diviene impossibile qualsiasi discorso attorno al federalismo (K.C. Wheare). Se è vero che quasi metà del pianeta è organizzato in modo federale (MALER, AöR 1990, 213), è vero pure che i requisiti minimi di democrazia che costituiscono le condizioni ambientali necessarie allo sviluppo di un effettivo federalismo si verificano in una percentuale assai più ridotta di casi.
1.2. L'esame comparativo ci dimostra con evidenza che (a) il federalismo non richiede, come condizione "ambientale", una specifica forma di governo e che (b) né il grado di autonomia degli enti federati né il grado di efficienza del sistema centrale variano in funzione del tipo di forma di governo adottato.
In Europa, il federalismo si mostra oggi quasi esclusivamente associato a forme di governo di tipo parlamentare, nelle sue diverse varianti (Germania, Austria, Belgio e, sia pure nella forma più attenuata di un regionalismo avanzato, Spagna), con la sola (e irripetibile) eccezione del "governo direttoriale" della Svizzera (elezione del governo da parte dell'Assemblea nazionale; irrevocabilità del governo e sua collegialità, in assenza di figure "presidenziali" di rilievo costituzionale). Sistemi federali coniugati con il governo presidenziale si stanno affacciando però ora nell' Est europeo (Russia).
Fuori d'Europa, il federalismo ha attecchito nelle ex colonie inglesi, coabitando con le forme di governo più diverse, anche se tutte in qualche modo derivate dalla costituzione inglese, nei diversi stadi del suo sviluppo. In Canada e Australia il federalismo si sposa con un governo parlamentare del tipo "Westminster"; negli Stati Uniti d'America con il governo presidenziale. L'esempio americano è poi ripreso, anche nella struttura federale, da diverse costituzioni del mondo latino-americano (Argentina, Brasile, Messico, Venezuela).
1.3. Uno degli assunti correnti - un forte federalismo richiederebbe, per essere bilanciato, un rafforzamento dei poteri centrali, e quindi una forma di governo presidenziale a livello nazionale - è quindi smentito dai dati dell'esame comparato.
Esistono sistemi federali molto efficienti (Germania, per esempio) o molto accentuati nell'articolazione dei poteri decentrati (Belgio, per esempio, dopo la riforma del 1993), che si sviluppano nell'àmbito del governo parlamentare, così come sono esistiti (in Sud America e, in passato, nell'Est europeo, per esempio) sistemi federali "di carta" associati a forme di governo presidenziali; per converso, esistono numerosissimi esempi sia di sistemi parlamentari (gli stati scandinavi e il Giappone, per esempio, oltre al Regno Unito e all'Olanda), che di sistemi presidenziali o semi-presidenziali (Finlandia, Francia; Georgia), privi di qualsiasi elemento di federalismo. La stessa premessa, per cui il governo presidenziale di per sé valorizzerebbe la "forza" delle istituzioni centrali, è indebita, perché trascura il fondamentale dato che la forza e l'efficienza di una formula di organizzazione del potere pubblico sono garantite, non dall'astratto modello adottato, ma da un'insieme di variabili esterne ed interne all' organizzazione stessa.
Una di queste variabili è indubbiamente il sistema elettorale. Ma neppure per il sistema elettorale si può dire che vi sia una soluzione preferibile in presenza di un assetto federale. Come è noto, esistono Stati federali che adottano, almeno per le istituzioni centrali, sistemi proporzionali più o meno corretti (Germania, Spagna, Belgio, Austria, Svizzera), ed altri che sono invece legati al sistema maggioritario, anch'esso con varianti notevoli (USA, Canada, Australia). Il panorama comparativo ci libera dunque da qualsiasi pregiudizio.
2. L'introduzione di un sistema federale, anche minimo, ha, e deve avere, ripercussioni consistenti sulla struttura di (quasi) tutti gli organi costituzionali.
La validità di questa principio è ampliamente confermata dall'esame comparativo. Si può dire, anzi, che uno dei pochi indici che rivelano la presenza di un ordinamento federale è dato proprio dalla "federalizzazione" degli organi centrali: perché è proprio dello Stato federale basare la legittimazione dei propri centri di potere sul doppio fondamento della rappresentanza nazionale e del consenso degli enti federati. Tutti gli organi costituzionali rivelano questa doppia derivazione: a partire dal Parlamento, in cui la doppia legittimazione dà senso alla permanenza del bicameralismo, per proseguire con il Governo, la Corte costituzionale ecc.
I modi con cui si compie la "federalizzazione" degli organi centrali varia di molto da sistema a sistema, essendo legati alle particolarità della specifica esperienza storica ed al disegno complessivo di organizzazione dei poteri. L'esame comparativo ci rivela però alcune "linee di coerenza" che andrebbero tenute presenti in ogni ipotesi di revisione del Titolo V della Costituzione.
3. "Federalizzazione" del Parlamento.
3.1. Non solo i sistemi federali, tutti, ma anche gli Stati "regionali" avanzati, come la Spagna, riconoscono la necessità di inserire nel Parlamento la rappresentanza degli interessi delle comunità locali. Le ragioni sono evidenti, e si richiamano ad esigenze di efficienza e di garanzia.
E' a tutti noto che lo stato sociale e l'interventismo economico hanno messo in crisi concezioni e assetti "dualistici" dei rapporti tra centro e periferia (tale sicuramente era anche il disegno dei rapporti Stato-regioni tracciato dalla Costituzione italiana). Con il risultato più evidente di allargare le competenze dello stato centrale, sino al punto di formalizzare questo rafforzamento del centro in apposite norme costituzionali[1].
Questi fenomeni hanno spostato l'attenzione dalle linee di separazione delle competenze ai sistemi di coordinamento e di cooperazione: aspetto questo, come è noto, del tutto trascurato invece dal costituente italiano, e organizzatosi tutto perciò, nel nostro ordinamento, attraverso la legislazione ordinaria e l'elaborazione giurisprudenziale. I sistemi in cui gli interessi degli stati-membri erano meglio rappresentati in Parlamento hanno potuto evolvere con minore conflittualità e maggiore equilibrio tra centro e periferia. Lo stesso adeguamento degli elenchi costituzionali delle materie di competenza centrale è stato reso possibile esclusivamente dall'accordo degli enti federati, espresso tramite la loro rappresentanza parlamentare. La presenza dei Länder, Cantoni ecc. nel Parlamento ha perciò garantito (a) il loro assenso all'emendamento costituzionale e (b) la loro presenza nei procedimenti decisionali attraverso i quali le nuove competenze assegnate sarebbero state esercitate a livello centrale; in prospettiva, quindi, ha assicurato anche (c) il bilanciamento della "centralizzazione oggettiva" delle competenze con un incremento di importanza della "camera federale" (K.Hesse, Der unitarische Bundesstaat, 1962).
Come si vede, la "federalizzazione" del Parlamento rende meno drammatico il problema di adattare la ripartizione costituzionale delle competenze all'evoluzione storica. Ma - va aggiunto - la presenza delle regioni o degli stati-membri nel Parlamento nazionale rende meno drammatico il problema stesso della ripartizione costituzionale delle funzioni. Laddove, come in tutte le esperienze federali e regionali europee (e non solo europee), il compito di tracciare la linea di ripartizione delle competenze sia per ampi tratti affidato alla legge ordinaria dello stato centrale (la legge cornice, la legge quadro, la legge organica, la legge di riforma economico-sociale, la legge di indirizzo o di programmazione ecc.) o a concetti generali non definibili a priori, ma che devono essere "riempiti" dalla legislazione statale ("principio", poteri "impliciti", interesse nazionale, "necessità" di una regolazione federale, sussidiarietà, leale cooperazione ecc.), nessuna stabilità del quadro costituzionale può essere assicurata se non introducendo a pieno titolo gli stati-membri o le regioni nella sede, il Parlamento, in cui si producono tali decisioni.
Le incertezze che minano tutti i tentativi di pre-definire una volta per tutte la ripartizione delle competenze si rimediano soltanto attraverso lo strumento dinamico della co-decisione: sono incertezze inevitabili, perché quelle definizioni rimandano tutte a decisioni squisitamente politiche. Lo dimostra la difficoltà che ha incontrato sin qui la Corte costituzionale italiana a svolgere il compito, indebitamente assegnatole, di dire cosa sia "principio fondamentale" e cosa "interesse nazionale". Possiamo allora immaginarci con facilità cosa accadrebbe se alla sola Corte costituzionale fosse ancora affidato il compito di misurare le competenze con il criterio della sussidiarietà: criterio che rinvia necessariamente a valutazioni condotte in termini di efficienza dell'intervento, che a loro volta rinviano a valori e a obiettivi politici (cose del tutto diverse essendo, per esempio, l'efficienza rispetto alla liberalizzazione del mercato, rispetto alla garanzia di livelli accettabili di prestazione dei servizi, rispetto all'economicità di gestione del servizio ecc.). Introdurre criteri di ripartizione delle competenze basati su concetti esplicitamente elastici e valutativi, anziché su criteri apparentemente giuridici come quelli fissati dall'art. 117, serve proprio a chiarire definitivamente che della loro determinazione si deve dare carico l'apparato politico, e che la principale garanzia di chi si contende le competenze sta in un procedimento di codecisione: "il principio di sussidiarietà trova attuazione attraverso la predisposizione di adeguati meccanismi procedurali e il procedimento, allora, rappresenta il metodo per applicare, con le adeguate garanzie, il principio stesso" (CNR-IDG, Per un nuovo regionalismo, 1994, 32).
3.2. Quando si parla di "federalizzazione" del Parlamento, ci riferisce all'introduzione, accanto ad una Camera eletta direttamente dai cittadini e rappresentativa dell'intera nazione, di una seconda Camera, rappresentativa delle comunità locali. I modi di organizzare questa seconda Camera e, conseguentemente, di disegnarne i poteri possono essere molto diversi. Ecco una rappresentazione grafica delle diverse possibilità che si porrebbero in Italia:
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a delle autonomie
³
Senato´
³ Ú‑‑> b1
elezione
³ ³ diretta
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b delle regioni´
³ Ú‑‑>
b2.1 da parte
À‑‑> b2 rappr.
³ dei Consigli
indiretta ´
³
À‑‑>
b2.2 da parte
delle Giunte
Le diverse soluzioni non sono affatto equivalenti:
a) Senato delle autonomie. Questa ipotesi, che richiama l'attuale
assetto del Comitato delle regioni nella CE e, per altri versi, il Senato
francese (paese, quindi, di proverbiale tradizione centralistica, in cui le
regioni non hanno neppure rilevanza costituzionale), appare sostanzialmente
incompatibile con l'assetto federale ed anche con un regionalismo avanzato. La
sua filosofia muove dalla premessa che le "autonomie" regionali,
provinciali e comunali siano sostanzialmente parificate ed egualmente
garantite: una filosofia, dunque, da sempre riaffiorante in Italia e che è
stata tra i principali fattori "ideali" che hanno impedito alle
regioni di affermarsi. In un'ottica federale, che può ben essere rappresentata
dalla versione tedesca, le autonomie locali sono sì costituzionalmente
garantite, ma la loro organizzazione (in termini di strutture e di competenze,
quantomeno) è riservata all'entità federata. E' questa l'unico interlocutore
dello Stato centrale, non essendo ammissibili fili diretti e legami
concorrenziali tra l'amministrazione centrale e quella locale. La scelta di un
Senato rappresentativo delle sole regioni costituisce, dunque, un'opzione
necessaria e strategica per una riforma dello Stato in senso federale.
b1) Senato eletto direttamente. Nell'àmbito di questa opzione, appare
ben poco convincente l'ipotesi di un Senato eletto direttamente dal corpo
elettorale regionale. La stessa esperienza italiana, passata e presente,
dell'elezione del senato "a base regionale" (art. 57, 1 Cost.) mostra
con chiarezza come questa via concorre a costruire un'assemblea
"politica" che non ha motivi di differenziarsi dalla "Camera
bassa", né come competenze né come comportamenti. Lo dimostra anche la
storia americana: la riforma del 1913 - che ha segnato il passaggio
dall'iniziale elezione indiretta dei senatori, da parte della assemblee
elettive degli stati-membri all'elezione diretta, ha anche definitivamente
rafforzato un ruolo politico generale del Senato, ed ha fatto anzi del
Senatore la figura eminente del sistema politico dello Stato-membro, il punto
culminante della carriera politica locale. Ma si è persa così la funzione,
originariamente assegnata al sistema indiretto di nomina, di "fornire ai
governi statali il controllo su un organo del governo federale, tale da garantire
l'autorità dei primi, costituendo nel contempo, un ottimo punto di incontro tra
i due sistemi" (Il Federalista,
LXII). E, giunti a questo punto, resta ingiustificabile la rappresentanza
paritaria degli Stati, residuo dell'origine confederale, che però ormai
contrasta con l'attuale ruolo di rappresentanza del popolo assunto dal Senato -
rappresentanza distorta dalla rilevante disparità di abitanti esistente tra i diversi
stati-membri.
b2.1) Senato eletto dalle Assemblee legislative regionali. L'elezione dei senatori da parte delle Assemblee elettive delle Regioni ripeterebbe un modello già conosciuto, per esempio, dalla Costituzione americana (prima del XVII emendamento) e da quella austriaca. In entrambi i casi la formula si è rilevata poco soddisfacente, perché l'elezione da parte di un'assemblea "politica" e rappresentativa perpetua in capo ai senatori le appartenenze politiche di cui sono espressione: il Senato si ricomporrebbe dunque non sulla base degli interessi espressi dalle singole Regioni, ma sulla base delle divisioni politiche e partitiche presenti nelle assemblee locali. Il Senato, perciò, ambirebbe a svolgere un ruolo politico concorrenziale con quello della Camera e, eventualmente, anche in opposizione alla Camera (dato che potrebbe esprimere una maggioranza diversa). In America questa formula si è dimostrata instabile, essendo logico l'approdo ad una elezione diretta dei senatori, quale espressione della loro piena legittimazione politico-rappresentativa; in Austria questa formula si è dimostrata inefficiente, restando il Bundesrat una camera organizzata secondo le forti strutture politiche nazionali, sostanzialmente incapace di garantire gli interessi "soggettivi" dei Länder: tanto è vero che si è dovuto introdurre (dicembre 1984), a garanzia degli interessi dei Länder, un emendamento costituzionale che porta a 2/3 la maggioranza per l'approvazione, nel Bundesrat stesso, delle leggi costituzionali che incidono restrittivamente sui poteri federali.
b2.2) Senato nominato dagli esecutivi regionali. Questa soluzione, che è adottata - per tradizione storica, si potrebbe dire - dalla costituzione federale tedesca, è indubbiamente quella che meglio serve l'obiettivo di costruire una camera in cui siano rappresentati gli interessi delle regioni, non in quanto comunità, ma in quanto ente. Se dalla "federalizzazione" del Senato ci si attende il risultato di inserire le regioni nei processi decisionali nazionali che investono il riparto delle competenze stato-regioni (leggi cornice, leggi organiche, grandi riforme, programmi e atti di indirizzo, riparto finanziario), è proprio l'ente che deve esservi rappresentato, non la comunità (che già si esprime nella Camera dei deputati). La costituzione tedesca è estremamente coerente nel disegnare composizione e funzioni del Bundesrat: i Länder non vi hanno seggi, ma voti (un unico rappresentante può far pesare tutti i voti del Land; i voti possono essere dati solo unitariamente), e sono rappresentati da membri del loro Governo, "che li nominano e le revocano" (§ 51,1 GG).
E' chiaro che un Senato formato secondo questo modello sarebbe del tutto differenziato, quanto a competenze, dalla Camera dei deputati. Gli sarebbe negato qualsiasi potere per ciò che attiene al rapporto fiduciario e al controllo politico del Governo, per esempio. Si occuperebbe delle sole decisioni che attengono ai rapporti Stato-regioni, siano esse assunte in sede legislativa (leggi cornice, leggi organiche, grandi riforme economico-sociali ecc.), siano esse atti amministrativi, generali (atti di indirizzo e coordinamento, programmi di settore, piani di intervento, scelte di ridistribuzione finanziaria, livelli minimi dei servizi, ecc.) o rivolti alla singola regione (interventi speciali, atti di sostituzione). Non siamo più sul piano di un bicameralismo più o meno paritario, ma in presenza di un bicameralismo fortemente spaiato (se di bicameralismo si può ancora parlare), in cui alle regioni è concesso di occupare quello che oggi è un ramo del Parlamento, al solo scopo di controllare ciò che viene fatto dall'altro ramo, e garantire che tutto quello che la Camera (e il Governo) fa, e che riguarda le regioni, abbia i contenuti conformi all'assetto costituzionale dei poteri (assetto che sarebbe dominato, in fondo, non più da una definizione reticolare delle funzioni, ma dal principio cooperativo del mutuo consenso).
Anche questa soluzione, però, non è del tutto priva di controindicazioni. Il "Consiglio delle regioni" potrebbe rischiare di trasformarsi in un'assemblea di funzionari delegati, che opera decentrata in organi di tipo burocratico, diversificati per materia. Il rischio, insomma, è che si riduca a poco più dell'attuale Conferenza Stato-Regioni. E' chiaro che non più di un "Senato", inteso come ramo del Parlamento bicamerale, si tratterebbe, ma di un organo del tutto diverso, che ha "statura" parlamentare per il solo motivo di partecipare al procedimento di formazione di una determinata categoria di leggi nazionali. A conferma della distanza da una vera e propria Camera parlamentare, questo organo si dovrebbe occupare del coordinamento amministrativo centro-periferia (nonché di quello periferia-periferia), estendendo quindi la garanzia degli interessi regionali ben al di là del solo livello legislativo: questo modello è immaginato proprio per "integrare sistemi amministrativi autonomi" (C.J. Friedrich, Governo costituzionale e democrazia, 1950, 293). Il rischio, insomma, e di avere un Parlamento monocamerale affiancato da un organo rappresentativo delle regioni, che si riunisce o in composizione politica (i Presidenti e/o assessori regionali delegati[2]), o in commissioni "tecniche": esso dovrebbe esprimere il suo assenso per tutte le decisioni di interesse regionale, dalla revisione delle norme costituzionali, ai trattati e alle scelte di politica comunitaria, alle leggi, agli atti di amministrazione, alle nomine, ecc.
Tuttavia, a dispetto dei rischi prospettati, la soluzione "tedesca" rimane quella che meglio può garantire le Regioni dalla naturale erosione del proprio ruolo causata dalla legislazione ordinaria e dall'amministrazione centrale. Molto importante divengono però i singoli meccanismi con cui si articolerebbe la disciplina dell'organo, ed in particolare il metodo di quantificazione della rappresentanza[3], la qualificazione della rappresentanza[4], l'organizzazione tecnico-amministrativo[5].
3.3. Vengono spesso proposte soluzioni ibride, che hanno ovviamente il vantaggio di mediare tra più esigenze ed interessi. Tuttavia l'innesto di quote di senatori elettivi su un modello di tipo tedesco sembra far esplodere il modello stesso, paralizzandone l'efficienza e compromettendone la coerenza. Il Senato diverrebbe la sede della mediazione, non già tra interessi "geografici" ricollegabili alle diverse regioni, ma tra gli interessi "corporativi" delle regioni ed interessi "politici" generali, o che tali si presumono. I gruppi parlamentari si costituirebbero in forza della topografia delle regioni o di quella dei partiti? In che modo il Senato potrebbe svolgere la sua funzione di contrappeso alle spinte centralizzanti della maggioranza parlamentare e del "suo" Governo, se si ritrova la stessa maggioranza schierata al proprio interno? E come si potrebbe imporre a politici debitamente eletti dal corpo elettorale di non occuparsi della politica generale del Paese, ma di dedicarsi esclusivamente alle questioni del riparto di competenze Stato-Regioni? Ancora una volta la comparazione ci illumina: in Spagna, dove il Senato è la camera "di rappresentanza territoriale", ma la sua composizione è "mista" (in parte elettiva, in parte su designazione delle assemblee elettive), è proprio dalla "territorializzazione" del Senato (incominciando dalle norme regolamentari sulla costituzione dei gruppi) che si vuol far partire il processo di riforma del sistema delle autonomie, poiché è solo un funzionamento realmente "federale" del Senato che può garantire la tenuta dell'impalcatura che struttura i rapporti centro-periferia.
4. "Federalizzazione" della Corte costituzionale
4.1. In tutti i sistemi federali, la ripartizione costituzionale dei poteri è garantita da un controllo giurisdizionale. Persino in paesi come il Belgio, dove la tradizione è avversa all'ipotesi di un sindacato di costituzionalità generalizzato sulle leggi, l'introduzione del federalismo ha comportato l'istituzione di un organo apposito - la Corte d'arbitrato - con la specifica funzione di giudicare dei conflitti e degli eventuali straripamenti di potere. La natura arbitrale di questa giurisdizione comporta che la nomina dei giudici che compongono la corte costituzionale avvenga attraverso il compromesso tra gli opposti interessi del centro e della periferia. Le formule con cui si realizza questo compromesso sono diverse: nei sistemi derivati dalla tradizione del "federalismo dualistico" (Stati Uniti d'America e Argentina, per esempio), le nomine sono decise attraverso l'accordo tra la massima espressione dell'unità - il Presidente - e la massima espressione del principio federale - il Senato; in Germania i componenti della Corte sono eletti in parti eguali dalle due camere, rappresentative, ancora, l'una dell'unità nazionale e l'altra degli interessi degli stati-membri; anche in Spagna i membri del Tribunale costituzionale sono, per due terzi, designati dai due rami delle Cortes, con maggioranze qualificate, ma il terzo restante è designato in parti eguali dal Governo e dall'organo di autogoverno dei giudici; invece in Svizzera l'elezione del Tribunale federale è effettuata dalle due camere riunite in Assemblea.
Variano le formule, insomma, ma l'esigenza di fondo resta costante. Tanto più avvertita quanto più il sistema di ripartizione delle funzioni tra stato ed entità periferica sia affidato ad un'interpretazione dinamica delle "materie" di competenza e a concetti indeterminati come "principio fondamentale", "interesse unitario", "sussidiarietà", "leale cooperazione" o "lealtà federale", ecc. Il compito di attribuire un significato a questi concetti è assegnato al giudice costituzionale, che sarà perciò chiamato a ricercare un ragionevole bilanciamento, nel caso concreto, tra le opposte esigenze di centralismo e di autonomia. Va da sé che una congrua presenza delle ragioni dell'autonomia nella Corte costituzionale è vitale per il mantenimento dell' "equilibrio federale": tanto più che è un dato chiarissimo ed univoco di tutte le esperienze federali che le corti costituzionali, anche per la loro prevalente attenzione per i diritti degli individui rispetto a quella degli interessi degli enti periferici, operano in prevalenza in senso centripeto (cfr. i contributi raccolti da E. ORBAN in Fédéralisme et Cours supremes, Bruxelles 1991).
4.2. Come risolvere in Italia il problema della presenza di membri di designazione regionale nella Corte costituzionale è problema difficile. E' vero che un terzo dei giudici è eletto dal Parlamento in seduta comune: ma questo organo sparirebbe dal sistema costituzionale se si introducesse un Senato modellato secondo il Bundesrat tedesco, perché troppo diverse sarebbero le due camere per numero e per composizione. In Germania certe funzioni attribuite dalla nostra Costituzione al Parlamento in seduta comune (l'elezione del Presidente della Repubblica) sono affidate ad un organo apposito, l'Assemblea federale, composto dalla camera elettiva e da un eguale numero di membri eletti dalle assemblee legislative: ma, se una simile complicazione può aver senso per l'elezione della figura-simbolo dell'unità nazionale, poco funzionale appare per l'elezione dei giudici (anche perché essi scadono in epoche diverse, uno alla volta).
Sembrando poco opportuno eliminare la quota di giudici costituzionali eletti dalle magistrature[6], la soluzione più semplice potrebbe essere di ripartire la designazione dei 10 giudici restanti tra Camera e Senato (eliminando quindi la quota attualmente di designazione presidenziale), magari introducendo una clausola di gradimento reciproca (il Senato può opporsi alle designazioni della Camera, e viceversa; oppure il Senato può scegliere in una rosa proposta dalla Camera, e viceversa).
Infine, per quanto riguarda la legittimazione ad agire di fronte alla Corte, sarebbe opportuno estenderla ai Comuni e alle Province, in modo da consentire ad essi di far valere le proprie prerogative costituzionali di autonomia amministrativa contro le tentazioni centralistiche delle regioni, e di far applicare sino in fondo il principio di sussidiarietà.
5. Riduzione dei Ministeri e "federalismo d'esecuzione"
5.1 Il Governo, come organo dello Stato federale, non può certo essere "federalizzato"[7]. Tuttavia una riforma dello Stato in senso federale deve prevedere un massiccio trasferimento di funzioni e di strutture amministrative alle regioni. Non che questa sia l'unica soluzione possibile: nello schema del "federalismo dualista" stato federale e stati membri sviluppano entrambi una propria amministrazione, competente all'esecuzione delle leggi rispettive. Ma l'esperienza sia tedesca che svizzera ci mostra che è soprattutto nella dimensione ridotta della burocrazia federale che risiedono le garanzie sostanziali e più efficaci dei poteri periferici: mentre in entrambi i Paesi la legislazione ha subìto - soprattutto nelle materie tipiche dello stato sociale, della politica economica e energetica, dell'ambiente ecc. - un processo di centralizzazione, l'amministrazione si è concentrata sempre più nelle strutture periferiche. E' questo uno schema che si rivela capace di far funzionare a dovere il "federalismo cooperativo": si basa sul principio che alle entità regionali spetta l'esecuzione amministrativa non solo delle proprie leggi, ma anche di quelle federali. Lo schema federale si sovrappone così alla tradizionale divisione dei poteri, "verticalizzando" la distinzione tra legislativo (prevalenza del centro) ed esecutivo (prevalenza della periferia).
5.2. In un sistema a burocrazia centralizzata come quello italiano, non si può immaginare che la costruzione di un "federalismo d'esecuzione" si sviluppi spontaneamente, in forza solo al decentramento dei poteri legislativi; né si può credere che la riforma federale possa compiersi mantenendo in vita la burocrazia ministeriale. Occorre perciò introdurre norme costituzionali apposite che, da un lato, impongano la perdita del "portafoglio" ai Ministeri le cui competenze siano trasferite alle regioni; dall'altro, consentano ai Ministeri senza portafoglio di sviluppare solo le strutture strettamente necessarie al coordinamento e agli interventi sostitutivi.
Importante è che la Costituzione disciplini con attenzione l'intervento sostitutivo dello Stato nei confronti delle regioni "paralizzate" da eventi "esterni" (stati di emergenza o di calamità) o "interni" (perdurante crisi politica): sia per quanto riguarda le strutture organizzative che lo Stato può o deve a tal fine creare ex novo (quando non fosse possibile utilizzare in modo coordinato quelle delle altre regioni), sia per i procedimenti che deve seguire (l'emergenza, anche politica, che si crea in una regione va intesa come questione "nazionale", non come problema del solo Stato centrale: per cui è il Parlamento che deve deciderla).
Va però tenuto presente che un assetto federale "forte" è sostenibile solo se allo Stato centrale sono assicurati poteri "forti" di intervento quando sorgano situazioni di crisi o di grave inadempimento. La paralisi di una regione può comportare infatti lesioni gravi ai diritti fondamentali (per es., il diritto alla salute leso dall'inefficienza della sanità; i rischi ambientali o il pericolo di distruzione delle risorse artistico-culturali), ai rapporti tra le regioni (la "migrazione sanitaria", per esempio), alla responsabilità internazionale o comunitaria dello Stato. La mancanza di una esplicita previsione di questi poteri, o una disciplina troppo limitativa del loro impiego, comporterebbe sicuramente l'affermarsi di una prassi extracostituzionale, non regolata nelle procedure e nelle garanzie, con tutte le conseguenze immaginabili. "I politici saggi ... dovrebbero essere molto cauti nell'imporre ad un governo restrizioni che non possono essere osservate, perché essi sanno bene che ogni violazione delle leggi fondamentali, sia pur dettata dalla necessità, finisce per intaccare quella sacra riverenza che i governanti dovrebbero avere nei riguardi della Costituzione del paese, e forma un precedente per altre violazioni in casi nei quali l'urgenza non esiste affatto, o è meno evidente e concreta" (Il Federalista, XXV). D'altra parte, sarebbe vano prevedere con apposite leggi i livelli minimi di prestazione (come era negli intendimenti della Bicamerale) se poi non vi sono gli strumenti legali e organizzativi per assicurare il concreto rispetto di essi.
6. "Federalizzare" gli organi giudiziari?
In che misura la riforma in senso federale incida sull'ordinamento giudiziario è una questione che non può trovare una risposta univoca. E' il modo specifico in cui si compie il processo di riforma che può suggerire una risposta specifica: per esempio, se lo Stato trattiene per sé l'intera "materia" penale e civile (soluzione non affatto obbligata, sia chiaro), non ha senso pensare ad un decentramento della disciplina degli organi che quel diritto devono applicare (se non per aspetti puramente accessori, come le dotazioni strumentali).
Ma se il processo di riforma mira ad una piena attuazione del "federalismo d'esecuzione", e quindi ad uno trasferimento davvero consistente dell'amministrazione attiva verso il livello regionale, qualche precisa conseguenza può derivarne per ciò che attiene alla giustizia amministrativa. Infatti, la netta separazione che verrebbe a compiersi tra la amministrazione regionale (e locale) e l'amministrazione (residuale) centrale dovrebbe avere un chiaro riflesso anche nella separazione delle giurisdizioni, e quindi sulla competenza a disciplinarle. Le Regioni, cioè, dovrebbero essere competenti a disciplinare (ovviamente all'interno di un quadro normativo "di principio") l'organizzazione, le competenze e le procedure dei Tribunali amministrativi, di primo e di secondo grado, competenti a giudicare di tutti gli atti amministrativi compiuti dall'amministrazione regionale e sub-regionale. Una diversa giurisdizione andrebbe invece prevista per gli atti amministrativi di competenza delle amministrazioni centrali. Una simile suddivisione sarebbe resa possibile, se il modello del federalismo d'esecuzione fosse applicato con coerenza, dalla quasi completa eliminazione della burocrazia periferica dello Stato centrale (che è invece tipica, non solo dello stato accentrato, ma anche del federalismo "dualistico"). Essa porterebbe, oltretutto, ad un apprezzabile risultato: renderebbe visibile, anche in termini di contenzioso, l'efficienza dell'azione amministrativa del singolo ente, riversando su di esso i costi di gestione dell'apparato giudiziario chiamato ad affrontare quel contenzioso. Un'amministrazione inefficiente e non corretta ingolfa le aule dei suoi tribunali: anche questa può essere una strada per innescare il circolo virtuoso della responsabilità politica.
7. "Federalizzazione" della Corte dei conti
Se, come a tutti è evidente, l'aspetto finanziario è fondamentale per la permanenza di un equilibrato assetto federale, appare necessario introdurre un serio strumento di controllo dei flussi finanziari e di efficienza della spesa. La presenza di un Senato "federalizzato" potrebbe rilanciare il ruolo originario della Corte dei conti come organo ausiliare del Parlamento (continuo ad impiegare il termine come inclusivo, accanto all Camera dei deputati, anche della "Camera delle regioni") per tutta la gestione finanziaria. Ovviamente si dovrebbe riformare la Corte dei conti, rendendola totalmente indipendente dal Governo, ma anche dalle Regioni: in campo finanziario, infatti, i conflitti tra regioni non saranno certo meno frequenti che i contrasti tra regioni e Stato. Anche qui può essere interessante l'esempio tedesco: è prevista l'istituzione una Corte finanziaria federale (Bundesfinanzhof), i cui membri sono designati (come tutti quelli delle altre giurisdizioni federali) da un organo misto composto dai ministri competenti dei Länder ed un eguale numero di membri eletti dalla Camera elettiva.
E' evidente che la riformata Corte dei conti dovrebbe rappresentare il vertice di un complesso sistema di audit esteso alla gestione finanziaria di tutte le regioni. In un sistema federale, in cui necessariamente anche il prelievo fiscale è, almeno in parte, regolato in periferia, e in cui valgono i principi di solidarietà che sono impliciti nel concetto stesso di federalismo (per cui una certa quota di prelievo nelle regioni più ricche è "girato" alle regioni più povere), quanto avviene in periferia circa la regolarità di bilancio, la congruità del prelievo fiscale, l'efficienza della spesa, il raggiungimento dei livelli minimi di prestazione per i "diritti sociali", sono tipici problemi che interessano, non già lo Stato-centrale soltanto, ma l'intera nazione, regioni incluse. Proprio per questo motivo va riscoperto l'ancestrale rapporto tra Corte dei conti e Parlamento, luogo, il secondo, di sintesi della rappresentanza nazionale e della rappresentanza "federale" delle regioni.
[1] Così, per esempio: in Svizzera, con gli emendamenti in materia di politica sociale ed economica del 1947 e del 1980 e con quelli per l'ambiente del 1992; in Austria, con gli emendamenti del 1983 e del 1988 per la politica ambientale; in Germania, con gli emendamenti del 1959 sull'energia nucleare, del 1969 sulla ricerca scientifica e, soprattutto, per gli strumenti di intervento cooperativo e di pianificazione, del 1972 in materia di ambiente, ecc.
[7] Ciò non avviene neppure in Svizzera, dove vige soltanto una regola scritta per cui i membri del Consiglio federale - alla cui elezione partecipa anche il "Consiglio degli Stati", cioè la camera federale - devono provenire da Cantoni diversi, ed una convenzione non scritta per cui i Cantoni maggiori sono sempre rappresentati nel Governo; fenomeni di "federalizzazione" del Governo appaiono anche in Canada, anche per riequilibrare la mancanza di una vera e propria federalizzazione del Senato, i cui membri sono nominati proprio dal Governo