L'abusivismo in Sicilia: effetti perversi del regionalismo egualitario

 

Roberto Bin

 

 

1. La sentenza in esame nasce dall'impugnazione in via diretta della legge regionale con cui la Sicilia ha cercato di risolvere il problema dell'abusivismo edilizio. Le censure mosse alla legge siciliana sono molteplici, alcune specifiche altre generali. Ma il punto centrale sta nella scelta del legislatore regionale di lasciare ai comuni la possibilità di non ordinare la demolizione delle opere abusive, ma di concedere per esse il diritto di abitazione ai proprietari, previo il pagamento di un'indennità ragguagliata agli oneri di urbanizzazione.

            I rilievi mossi dal Commissario del Governo non sono certo senza peso. La legge impugnata presenta molti sintomi che rivelano nel legislatore regionale un atteggiamento troppo accondiscendente nei confronti del fenomeno dell'abusivismo edilizio: si dà per scontato e per irrimediabile un abusivismo sempre più generalizzato e sistematico e ci si preoccupa, anziché di invertire la corrente, di cavalcarla, per trovare nell'ufficializzazione della violazione delle regole urbanistiche la risposta alla crisi, anch'essa dilagante, delle abitazioni. Esplicite norme di favore e, all'opposto, una costante vaghezza delle norme che dovrebbero provvedere a circoscrivere la sanatoria testimoniano questo atteggiamento: sono sanabili gli abusi compiuti sino al momento dell'approvazione finale della legge (mentre le regola dei condoni è che essi agiscono sino alla presentazione della proposta di legge e non oltre, per evitare l'abusivismo dell'ultima ora); la legge potrebbe permettere una sanatoria che va ben al di là del c.d. "abusivismo di necessità", perché non sembra vietare che di essa beneficino anche interi palazzi con abitazioni plurime; non sembrerebbe neppure che la sanatoria, e la conseguente concessione del diritto di abitazione, siano configurabili come attività discrezionale che richiedano al comune un'attenta considerazione degli interessi urbanistici ed ambientali; appaiono sanabili, con rilascio del certificato di abitabilità, anche manufatti non conformi alle disposizioni edilizie, come sottotetti e scantinati; sembrano fatti salvi i contratti di utenza dei servizi pubblici illegittimamente stipulati per immobili abusivi; l'indennità da corrispondersi al Comune non è determinata e rischia di essere irrisoria; ecc.

            Accanto a questi rilievi, il Commissario spezza anche una lancia contro la ricezione nell'ordinamento regionale, per le procedure di rilascio delle concessioni, del meccanismo del silenzio-assenso, introdotto dai decreti-legge che in quel periodo si succedevano (ma poi sostituito dalla legge di conversione con la figura del commissario ad acta). In considerazione della "situazione di assoluta fluidità degli strumenti urbanistici, in gran parte non ancora approvati dai comuni dell'Isola", tanto da costringere la Regione a minacciare lo scioglimento dei consigli comunali inadempienti, e della "condizione di inefficienza degli uffici tecnici comunali", paralizzati dalle pratiche della sanatoria edilizia del 1985, al ricorrente sembra che l'accoglimento acritico e incondizionato del silenzio-assenso da parte del legislatore locale urti contro il principio stesso ricavabile dalla legislazione statale, mosso dall'intento "di semplificare le procedure amministrative soltanto nelle ipotesi di assetto urbanistico del territorio definito e consolidato"[1].

 

2. Il senso del ricorso del Commissario del Governo è chiaro: la situazione di dissesto edilizio e urbanistico della Sicilia dovrebbe impedire, non solo gli interventi legislativi di "ammorbidimento" delle regole urbanistiche generali, che rischierebbero di annullare la difesa dei valori ambientali e urbanistici, ma la stessa ricezione dei meccanismi ordinari di snellimento procedurali previsti dalla legislazione statale. La "specialità" della Regione è vissuta non in termini di maggior favore per l'autonomia legislativa, ma come situazione di fatto così particolare - in negativo, s'intende - da imporre la non-applicazione di quei nuovi princìpi della legislazione statale che presuppongono una situazione amministrativa ordinaria.

            Anche la risposta della Corte ha un senso preciso: "la situazione dell'edilizia abusiva ha assunto in Sicilia i caratteri di ampiezza e gravità" tali che si assiste ad "una disapplicazione pressoché assoluta delle norme che prevedono la demolizione delle opere abusive"; mentre la gestione della precedente sanatoria edilizia appare spesso gestita dalle amministrazioni locali "in modo clientelare..., in alcuni casi favorendo movimenti ed aggregazioni di massa costituiti da occupanti di immobili abusivi, le quali, sotto il comune denominatore del diritto alla casa, si intrecciano spesso interessi speculativi e fenomeni malavitosi"; in questa cornice, "è evidente che una politica di corretta gestione del territorio non può realizzarsi senza una contemporanea valutazione dei problemi di ordine pubblico che lo strumento della demolizione può comportare e, più in generale, delle tensioni presenti in aree dove il fenomeno dell'abusivismo è pressoché generalizzato". La "specialità" della Regione è vissuta anche qui non come causa di maggior favore per l'autonomia legislativa, ma come situazione di fatto a tal punto anomala e allarmante da giustificare, in nome di esigenze di ordine pubblico, un regime derogatorio da quello ordinario. Però, mentre per il ricorrente l'eccezionalità della situazione impone semmai l'impiego di strumenti più rigidi per ottenere il ripristino dei "valori" e dei princìpi propri della materia urbanistica, per la Corte l'eccezionalità della situazione impone strumenti non ispirati a questi "valori" e princìpi, ma alle esigenze di ordine pubblico e di appagamento del "diritto alla abitazione".

 

3. Sotto il profilo del diritto regionale la situazione appare per alcuni versi singolare. La Regione ha, in materia, potestà esclusiva. La sua legge dovrebbe essere censurata se e solo se si accreditano princìpi generali dell'ordinamento o norme fondamentali di grande riforma economico-sociale con essa contrastanti: questa è infatti la linea seguita dal ricorrente, che si appella alla eccezionalità della situazione locale solo per sottolineare la necessità di una "presa" più salda di tali princìpi e norme.

            La Corte invece scansa ogni discorso impegnativo sul terreno della qualificazione dei princìpi: per tutta la motivazione, infatti, il discorso si sviluppa senza mai precisare di che tipo di princìpi si stia trattando. Si afferma che le norme sul silenzio-assenso contenute nella legge impugnata si conformano ai princìpi della legge 241/1990 e, esaminando nei particolari i congegni procedimentali, si conviene che "tutto ciò risulta conforme al principio di buon andamento della P.A., sotto il profilo della ragionevolezza delle previsioni, nonché adeguato ai generali princìpi di legislazione statale e regionale", perché assicura un meccanismo efficiente di bilanciamento tra gli interessi  dei cittadini e l'esigenza di controllo di conformità della richiesta alle norme. Si nega poi che dal mutamento di rotta della legge di conversione, che ha sostituito l'istituto del silenzio-assenso[2] con la figura del commissario ad acta, "possa trarsi quell'indicazione assiologica caratteristica di una norma principio", mancando nelle vicende legislative "quei caratteri di razionalità e coerenza d'insieme che la norma di principio dovrebbe offrire all'ordinamento". Sin qui si parla genericamente di 'princìpi', senza impegnarsi in alcuna ulteriore qualificazione.

            Passando al problema del regime delle opere abusive, la Corte dà per scontato che la legge 47/1985 ("Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie"), nei suoi "princìpi fondamentali", sia da includere fra le norme fondamentali di riforma economico-sociale (anche se tale legge si autoqualifica come "legge-quadro" e, anzi, fa salve "in ogni caso" le competenze delle regioni speciali). Ma, si noti, il principio che la Corte trae (facoltà del comune di non demolire le opere abusive acquisite al patrimonio quando, tenuto conto delle specifiche circostanze, ritenga prevalenti gli interessi alla conservazione, e sempreché l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici o ambientali) non serve a fissare il limite alla competenza legislativa della Regione, ma a fornire la guida interpretativa della legge regionale impugnata. Infatti, tutte le lacune, le ambiguità ed i dubbi interpretativi segnalati dal ricorrente vengono superati dalla Corte con un' interpretazione adeguatrice, in modo da integrare, precisare e correggere la legge impugnata alla luce della legge 47/1985. Il dispositivo è perciò in larga parte di rigetto "nei sensi di cui in motivazione": ma anche laddove la Corte accoglie le eccezioni, essendo impossibile superarle in via interpretativa, è la Corte stessa che, ancora in forza dell'interpretazione, adegua il testo della legge impugnata (fissando la scadenza del periodo beneficiato alla data di presentazione della prima proposta di legge e prescrivendo che l'indennità dovuta dall'abusivista al comune sia un "corrispettivo adeguato al valore del diritto di abitazione").

 

4. Dunque: la Corte si preoccupa di modificare tutti i congegni imperfetti della legge regionale per adeguarli alle norme statali, ma pratica sconti notevoli sul piano dei princìpi più generali. Perché non v'è dubbio che abbia ragione il Commissario del Governo quando sottolinea come la legittimazione dell'abusivismo rischi davvero di scardinare l'effettività della disciplina urbanistica e edilizia.

            Sono in gioco i valori stessi dell'unità dell'ordinamento giuridico e della vigenza generale delle leggi. Se davvero la legge 47/1985 è una grande riforma economico-sociale, uno dei suoi punti cardini è proprio la norma che dispone la demolizione delle opere abusive da parte del responsabile, ed in alternativa, in caso di inerzia di quest'ultimo, l'acquisto di diritto a titolo gratuito dell'opera abusiva al patrimonio comunale perché la si demolisca. Consentire al legislatore regionale di ampliare la eccezione alle regola - cioè la facoltà del comune di non demolire un'opera se la dichiara di prevalente interesse pubblico (art. 7, V c., della legge 47/1985) - sino a trasformarla nel principio opposto, per cui il comune può concedere ai proprietari degli immobili abusivi il diritto di abitazione in cambio di un'indennità, appare una sovversione dello stesso spirito della legge.

            E' vero che la Corte, in via di interpretazione, cerca di limitare l'impatto della automatica legittimazione degli abusi, per es. tenendo ferma la discrezionalità del comune nel concedere il beneficio, sia in relazione alla valutazione degli interessi urbanistico-ambientali, sia in relazione all'esigenza di assicurare un'abitazione all'interessato. Ma è anche vero che ben poca consolazione può trarsi da questo argomento dopo che è stata la Corte stessa a descriverci la situazione di inefficienza delle amministrazioni locali e la loro propensione a gestire gli affari urbanistici in modo clientelare, permeabile agli interessi speculativi e della malavita.

            In fondo, il perno argomentativo della Corte è che la legge impugnata prevede "un bilanciamento non irrazionale" (che in concreto sarà compiuto dal comune) "tra l'esigenza di disciplinare il grave problema dell'abusivismo edilizio" (alla quale sono ricollegati tutti i valori della disciplina urbanistica) e "l'esigenza... di assicurare un'abitazione ai bisognosi" (alla quale si ricollega, oltre al rilievo costituzionale riconosciuto in passato dalla giurisprudenza della Corte stessa al diritto di abitazione, la valutazione dei problemi di ordine pubblico legati alla tensione abitativa). L'ingresso dell' ordine pubblico negli elementi di valutazione delle leggi regionali è probabilmente una novità, è merita una riflessione.

 

5. Che la Sicilia possa presentare problemi particolari, tali da differenziarne l'ordinamento rispetto alle leggi valide in generale, è un presupposto stesso dell'autonomia regionale che si dice, appunto, "differenziata". Ma da qualche tempo la diversità dell' Isola appare rafforzata dallo stato di emergenza che presentano le "condizioni ambientali".

            Già la sent. 539/1990, affrontando il problema dell'ineleggibilità dei responsabili del collocamento, si fonda interamente sulla constatazione che la Sicilia presenta una "situazione peculiare" che ha richiesto "eccezionali misure legislative e amministrative da parte del legislatore statale, a dimostrazione della gravità del fenomeno di abusi di potere da parte di pubblici amministratori, a causa anche delle rilevate connessioni fra criminalità di tipo mafioso e ambiente politico". Ma in questo caso l'argomentazione della Corte mirava a giustificare "l' uso di un maggior rigore" nella disciplina della materia: trattandosi di una materia assai delicata, che tocca i fondamentali diritti politici, la Corte usa l'argomento dell'apprezzamento delle peculiari "condizioni ambientali" per cercare di giustificare una deroga dal principio dell'uniforme garanzia dei cittadini che muove (a dire della Corte) nella direzione di una più rigorosa tutela della libertà di voto[3].

            Nel nostro caso, invece, le stesse "peculiari condizioni ambientali" sono invocate per rendere più tenue il rigore della legge. L'ordine pubblico non giustifica (come avveniva nella giurisprudenza sulle libertà dei primi decenni) la prevalenza dell'interesse pubblico su quello privato, ma all'opposto, la prevalenza di questo (il diritto all'abitazione) su quello (gli interessi urbanistici e ambientali). Che sia dato alla regione di apprezzare le esigenze dell'ordine pubblico, bilanciandolo con il rigore con cui vanno applicati i princìpi della legislazione statale, sembra davvero una novità; così come è senz'altro una novità che l'attuazione di un tipico diritto di prestazione, come quello all'abitazione, possa realizzarsi, anziché nei limiti delle risorse pubbliche, a scapito di interessi pubblici primari quali l'ambiente. Come se le risorse ambientali e territoriali non fossero anch'esse, come quelle finanziarie, beni limitati, sottoposti a tutela rigorosa, costituzionalmente protetti, oggetto di quella "obbligazione naturale" che lega le generazioni tra loro. Ma in questo la legge siciliana altro non fa che anticipare lo spirito dei tempi: anche se la Corte espressamente non lo dice, forse per non anticipare quanto dovrà sostenere nell'ormai imminente giudizio sul nuovo "condono edilizio". Il segnale non è però positivo: la contingenza (che altro è l'emergenza?) ancora una volta prevale sulle valutazioni generali e di prospettiva, cioè sui princìpi.

 

6. Retrocedendo di un passo, per godere meglio di una vista d'insieme, la tendenza della Corte verso l'apprezzamento della particolare situazione in cui versano la società e le amministrazioni di alcune regioni non può che equivalere ad una rottura della vecchia regola, scritta in nessun'altra parte che nella stessa giurisprudenza costituzionale[4], dell'eguaglianza delle regioni tra loro. Un regionalismo paritario che è sempre equivalso ad una negazione in principio delle ragioni più intime dell'autonomia (che con altro non si giustifica se non in nome della diversità),  e a un grosso ostacolo per l'evoluzione dei rapporti tra lo Stato e le regioni, necessariamente appiattite al livello più basso.

            Altrove ho segnalato le vie per le quali un principio di differenziazione delle regioni sembra ormai farsi luce nella giurisprudenza costituzionale (le leggi cornice corredate da norme di dettaglio, derogabili dai legislatori regionali "attivi"; la difendibilità delle sole funzioni concretamente esercitate dalle regioni; l'annullamento degli atti invasivi pronunciato nei soli confronti delle regioni "attive")[5]. Ora se ne apre un'altra, di natura tutta diversa: essa non tende a premiare le regioni più attive, né a consentire allo Stato di trasferire loro maggiori poteri, nel mentre si surroga direttamente alle regioni in difficoltà. Qui si applica la logica dell' "Italia a due velocità", per cui si attenua l'applicazione del diritto comune (dei suoi princìpi di fondo, anche se non dei meccanismi di dettaglio) nelle regioni in cui l'amministrazione pubblica registra fallimento. E certo non si tratta della sola Sicilia[6].



[1] Tutte le citazioni sono tratte dal ricorso (n. 62 del 1993, pubblicato in G.U., I.a serie speciale, n. 47/1993)

 

[2] Merita ricordare che nella sent. 1033/1988 la Corte aveva invece qualificato come "grande riforma" l'introduzione del silenzio-assenso operata dal decreto-legge 9/1982, anch'esso mosso all'obiettivo di rimediare alla "situazione di emergenza" determinata dal blocco dell'edilizia residenziale.

 

[3] Cfr. il commento di Pinelli, Diritto di elettorato passivo e libertà di voto in "condizioni ambientali peculiari", in Giur.cost. 1990, 3109 ss.

 

[4] Per un caso di applicazione esplicita di tale principio, cfr. sent. 243/1974: cui adde la sent. 276/1991 (che dichiara illegit­timi i privilegi riconosciuti a Venezia), per la quale cfr. Co­cozza, L'uguaglianza fra Regioni ecc., in questa Rivista 1992, 775 ss. e Cassetti, L'eguaglianza fra le regioni ecc., in Il dir. della reg. 1992, 722 ss.

 

[5] Voce Legge Regionale, in Digesto delle discipline pubblicistiche, IX, Torino 1994, 27 (dell'estratto).

 

[6] Sulla estensibilità ad altre zone del Mezzogiorno (quanto meno!) delle caratteristiche descritte per la "situazione ambientale" siciliana, cfr. Pinelli, op.cit., 3114.