"COORDINAMENTO TECNICO" E POTERI REGOLAMENTARI DEL GOVERNO: SPUNTI PER UN'IMPOSTAZIONE "POST-EUCLIDEA" DELLA DIFESA GIUDIZIALE DELLE REGIONI.
1. Questo fascicolo de "Le Regioni" riporta alcune sentenze che sono collegate da un filo comune: il potere regolamentare dello Stato in materie di competenza regionale.
Nella sent. 482/1991, la Corte schiva, con argomentazioni non prive di un certo formalismo[1], l'impugnazione della norma della legge 9/1991 che prevede l'emanazione di un regolamento "delegato" per il riordino delle procedure di concessione e autorizzazione per la lavorazione o il deposito di oli minerali e le opere minori: in questo caso la contestazione era mossa contro l'autorizzazione a fissare con il regolamento anche i "termini perentori entro i quali ciascuna autorità, compresa la Regione interessata, dovrà adottare gli atti procedimentali di propria competenza, trascorsi i quali gli atti stessi si intendono adottati in senso favorevole".
Nella sent. 483/1991, invece, sempre in materia di energia, ma con riferimento alla legge 10/1991, la Corte fa salva la previsione (art. 4) di un potere regolamentare del governo e dei singoli ministri relativo alla definizione di prescrizioni tecniche tese al risparmio energetico.
Nella sentenza 507/1991, con una motivazione la cui evasività potrebbe sconcertare se non rientrasse perfettamente nello "stile" consueto di quel giudice redattore, viene risolto a favore del ricorrente un conflitto di attribuzioni promosso dalla Provincia di Bolzano, con l'annullamento parziale del decreto 26 marzo 1992, emanato dal Ministro della sanità in attuazione della direttiva 80/778/CEE sulle acque destinate all'uso umano, perché non si limita alla disciplina dei soli "profili tecnici della materia di competenza esclusiva", ma si prevedono anche attività ispettive, di vigilanza e di controllo.
Infine, nella sent. 517/1991, che riguarda il DPCM 1 marzo 1991, con cui vengono fissati i limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell'ambiente esterno, pur facendo salvo l'impianto generale del decreto, perché esercizio legittimo (e conforme al principio di "legalità sostanziale" che da tempo la Corte ha individuato come condizione necessaria di legittimità di atti amministrativi di indirizzo e coordinamento[2]) del potere dello Stato di stabilire condizioni uniformi di salute sul territorio nazionale, la Corte però lo annulla nella parte in cui si dettano "principi organizzativi e indirizzi nei confronti delle funzioni legislative e amministrative delle regioni e province autonome, nonché oneri alle imprese, i quali sono posti nell'esercizio di poteri statali incidenti su potestà regionali o provinciali in totale mancanza del richiesto fondamento legislativo".
2. Le radici di queste problematiche affondano nella stessa giurisprudenza della Corte: in primo luogo nella distinzione che essa ha elaborato tra l'indirizzo-coordinamento "politico-amministrativo" e l'indirizzo-coordinamento c.d. "tecnico"[3]. Questa seconda categoria è servita a giustificare una serie alquanto eterogenea di relazioni tra le amministrazioni di settore dello Stato (centrali e periferiche) e delle Regioni. Eterogenea sia per contenuti che per intensità del vincolo derivante dagli atti espressione di questi poteri di direzione e di coordinamento.
In certi casi si è trattato di esigenze di coordinamento delle strutture periferiche dell' amministrazione statale, con riflessi solo debolmente obbligatori nei confronti delle amministrazioni locali interessate[4]. In altri, invece, la forza obbligatoria del vincolo è stata imputata alla stessa legge che legittimava l'atto di coordinamento, questo essendo ricollegabile a quella attraverso l'esercizio di una discrezionalità definibile come "meramente tecnica"[5]. Talvolta, infine, il "coordinamento tecnico" si è ridotto ad esprimere poco più che un obbligo di collaborazione delle regioni nella formazione dei piani statali di settore[6].
Non risulta affatto chiaro in cosa consista l'aspetto "tecnico" che segnerebbe il discrimine tra questa forma di coordinamento e quella esprimibile con l'altro strumento, l'indirizzo e coordinamento in senso proprio: viceversa, i due strumenti sono soggetti a regimi completamente diversi per ciò che attiene alle garanzie di tipo procedimentale[7]. La Corte ci fornisce un criterio distintivo molto generale: il coordinamento tecnico mirerebbe ad ottenere una omogeneità delle metodologie ("tecniche", appunto) con cui operano amministrazioni diverse, e non potrebbe perciò incidere sul merito delle scelte politico-amministrative delle regioni, né sulle soluzioni organizzative o procedurali attraverso cui quelle scelte si esprimono o si producono. Tant'è vero che anche di recente ha dichiarato che "non è ammissibile che norme dirette a limitare l'esercizio delle competenze regionali o provinciali ... siano poste attraverso una fonte qualificabile come regolamento ministeriale"[8].
E' del tutto evidente la vaghezza del criterio distintivo e la difficoltà di una netta separazione tra aspetti tecnici e aspetti politico-amministrativi di qualsiasi azione dell'amministrazione[9]. Ma va poi aggiunto che il coordinamento si qualifica come "tecnico" per ragioni che mutano notevolmente da caso a caso. In riferimento al ruolo dell'ISTAT, per esempio, ove si ammette accanto al coordinamento anche l'indirizzo tecnico, la Corte ha in mente il tipo di organizzazione del lavoro statistico[10]; in riferimento alle direttive CIP, il cui coordinamento si è tradotto in un vero e proprio blocco delle tariffe, "tecnica" è invece la qualifica della discrezionalità impiegata nell'attuare le previsioni legislative; in riferimento all'ENIT, "tecnica" è solo l'esigenza che giustifica l'obbligo delle regioni di trasmettere i propri programmi promozionali; in riferimento al Consiglio dei direttori dei servizi tecnici nazionali per la difesa del suolo, "tecnico" è l'organo cui compete il coordinamento dei servizi provinciali; in riferimento all'Istituto superiore di sanità, "tecnica" è la normativa ministeriale sulla base della quale l'Istituto deve svolgere i compiti di coordinamento; ecc. Invece, per fermarsi ad un solo esempio, la Corte non invoca il coordinamento "tecnico" per giustificare le attribuzioni del Ministero della sanità di definire le modalità per il convenzionamento degli enti ed il personale autorizzati a svolgere il servizio di trattamento domiciliare dei malati di AIDS, nonostante ritenga che questa attività si risolva nel dettare "requisiti d'idoneità e standards tecnici, peraltro strettamente commisurati alle finalità e caratteristiche del servizio" indicate dalla stessa legge impugnata[11].
3. L'unica conclusione che sembrerebbe lecito trarre è che il "coordinamento tecnico" sia solo un'etichetta molto malleabile (grazie proprio all'impalpabilità dei suoi margini), a cui la Corte ricorre per riservarsi un giudizio "caso per caso" sull'assetto specifico dei rapporti tra Stato e regioni. Una volta di più, perché alla medesima conclusione si perviene immancabilmente quando si esamini qualsiasi altro dei grandi pilastri elaborati dalla Corte in questa materia, come i test di legittimità degli atti di indirizzo e coordinamento, la leale collaborazione, l'interesse nazionale o il potere sostitutivo dello Stato.
Come ha detto molto bene Caretti, parlando in generale della funzione di indirizzo e coordinamento (e del suo "doppio", il potere sostitutivo), sono tutte espressioni di un' unica funzione, "una funzione che potremmo definire di scopo o di risultato, diretta a colmare una lacuna del disegno costituzionale nei rapporti Stato-Regioni. Tale risultato è rappresentato dalla garanzia che il sistema costituzionale, complessivamente considerato, funzioni secondo standards minimi di coerenza e di efficienza"[12]. Sullo sfondo vi sono sempre esigenze ed istanze che vanno ad ascriversi all'"interesse nazionale", e questo incide fortemente sulle tecniche di giudizio della Corte: "l'esistenza e la consistenza dell'interesse nazionale in gioco non può non richiedere verifiche puntuali, caso per caso, da parte della Corte. Il metro di giudizio allora diventa sempre più il criterio della ragionevolezza"[13].
Il coordinamento "tecnico" non è dunque che un aspetto minore di un fenomeno assai complesso: ciò consente di avanzare alcune considerazioni sull' at-teggiamento generale della giurisprudenza costituzionale in materia regionale, che però trovano conferma - e forse in modo più evidente che altrove, mi sembra - proprio nelle pronuncie in tema di coordinamento tecnico.
Da quest'ultime si può trarre il dato da cui prendere le mosse e di cui vorrei approfondire il significato. Parte delle sentenze in materia riguardano la legittimità della previsione legislativa dei poteri di coordinamento (e sono in larghissima maggioranza decisioni di rigetto), parte invece risolvono conflitti di attribuzione relativi al concreto esercizio di quei poteri (e qui si registra un buon numero di ricorsi favorevoli alle regioni ricorrenti). Questo sdoppiamento dei giudizi, che possono riguardare (e, nel caso dell'ISTAT, per esempio, hanno riguardato[14]), in successione, la previsione astratta e l'esercizio concreto dello stesso potere, è deliberatamente perseguito dalla Corte: lo si può vedere nella stessa sentenza 482/1991, qui in commento, laddove indica alla ricorrente, cui nega la legittimazione ad agire in astratto contro la legge, la possibilità di difendere le proprie attribuzioni qualora fossero violate in concreto dal singolo atto di esercizio del potere contestato.
Questo sdoppiamento dei giudizi caratterizza anche altri settori della giurisprudenza costituzionale, apparentemente molto lontani dal contenzioso Stato-Regio-ni, e vi svolge esattamente la stessa funzione. Tipico è l'atteggiamento in materia di diritti costituzionali: la Corte assai spesso non riesce a compiere un bilanciamento degli interessi in gioco ragionando in astratto sulla fattispecie normativa definita dalla legge, e perciò "delega" al giudice di merito (o ai soggetti dell'applicazione amministrativa della legge) il compito di bilanciarli "in concreto", in considerazione della situazione specifica del caso. Ma non è che così sia denegata giustizia: vi è una effettiva difficoltà a colpire, attraverso la dichiarazione di illegittimità della disposizione legislativa "astratta", i soli casi concreti possibili di cattiva applicazione della norma contestata. Quello che la Corte può fare invece, e assai spesso fa, è di garantire che la formulazione astratta della norma in questione non sia tale da pregiudicare, già di per sé, la possibilità di una corretta concorrenza degli interessi rilevanti; se tale pregiudizio fosse accertato, la Corte potrebbe porvi rimedio impiegando i suoi strumenti più raffinati, come le pronuncie interpretative di rigetto (laddove per questa via si possa incidere sull' interpretazione che verrà data alla disposizione nella sua applicazione) e le pronuncie "manipolative" di accoglimento (laddove si vogli garantire l'inclusione di interessi che, in base al tenore letterale della disposizione o del "diritto vivente", risulterebbero invece illegittimamente esclusi)[15].
Anche in tema di "coordinamento tecnico" - e più in generale, a proposito della funzione di indirizzo e coordinamento[16] - la Corte segue questo schema di giudizio. Lo sta a dimostrare la frequenza con cui ricorre a pronuncie interpretative di rigetto[17]: servono anche qui a restringere l'estensione dei poteri assegnati all'autorità statale, in modo da evitare che nel loro esercizio si superi la linea di un corretto bilanciamento degli interessi unitari con quelli della regione. Ecco che allora lo sdoppiamento dei giudizi acquista una sua funzione precisa. In materia di diritti costituzionali lo sdoppiamento comporta che il giudizio "in concreto" sia delegato al giudice di merito, mentre nei rapporti Stato-Regioni il conflitto di attribuzioni può far sì che "delegata" sia la stessa Corte costituzionale[18]. Questa particolarità non è affatto priva di conseguenze, perché è chiaro che più forte sarà la ricaduta prescrittiva delle regole che la Corte ha elaborato in sede di giudizio di legittimità (attraverso pronuncie interpretative di rigetto o di accoglimento), se sarà la Corte stessa a doverle applicare al caso concreto[19] (anche se può valere il contrario, perché la Corte potrebbe non sentirsi troppo intimorita dall'autorità del suo stesso precedente, di cui, tra l'altro, è l'unica interprete autentica).
4. Il bilanciamento degli interessi - disse Felix Frankfurter, in una sua famosa "opinione concorrente"[20] - è fatto per risolvere "problemi non-euclidei". E certo in nessun altro settore del diritto pubblico si è visto con altrettanta chiarezza il crollo dell' impalcatura euclidea del sistema come nell' inquadramento dei rapporti Stato-Regione[21], tracciato originariamente dalla dottrina e in buona parte condizionato anche, per una volta, dalla Carta costituzionale. Già diec'anni fa Robert Putnam indicava l'evoluzione del sistema - che stava accadendo "con una certa costernazione dei giuristi" - verso il modello complesso e confuso della "torta marmorizzata"[22]. La crisi del modello della "torta a strati" (che altro non è che l'ortogonalità euclidea applicata alla pasticceria) è il cedimento di un sistema fatto di "sfere" di competenza separate, di linee di demarcazione verticali (materie, territorio) e orizzontali (princìpi - dettaglio, legittimità - merito), di convinta applicazione del principio del terzo escluso (negazione di ambiti di competenza "misti" o indistinti). Non è dunque un caso che il bilanciamento degli interessi, con le tecniche di controllo di ragionevolezza che si porta dietro, abbia occupato la scena della giurisprudenza costituzionale.
Naturalmente sarebbe importante cogliere le cause storiche e strutturali di questo crollo, e ancora più importante sarebbe progettare la sostituzione del vecchio edificio con un'architettura più adeguata alla complessità attuale dei rapporti (il che sembra richiedere qualcosa di assai diverso, innanzitutto quanto a filosofia, dalla modifica del diametro delle sfere di attribuzione o dal riposizionamento delle linee ortogonali di divisione delle competenze, che è invece quanto circola nelle bozze di revisione costituzionale).
Con tutta evidenza, questo è un compito che nessuno può aspettarsi venga svolto dalla giurisprudenza costituzionale. Ma ciò non toglie che il ricorso alla Corte sia ancora l'unico strumento che le Regioni hanno per evitare di restare stritolate nel crollo del sistema originario di ripartizione delle competenze. Il problema è allora come adeguare la difesa giudiziale delle Regioni alla situazione che si è creata, e che non pare reversibile né rimediabile a colpi di sentenza. Ma dove trovare i punti fermi a cui agganciare la difesa delle Regioni, se non tengono più i criteri tradizionali di ripartizione delle competenze?
Se la Corte impiega tecniche di giudizio tipiche del controllo di ragionevolezza e del bilanciamento degli interessi, è proprio nelle regole di questi modelli di giudizio che vanno ricercati gli appigli. L'ovvio presupposto è che si compia un passo convinto nella "tendenza all'omologazione dei due tipi di giudizio, incidentale e principale"[23], cercando gli schemi di comportamento nelle tecniche di giudizio che la Corte ha elaborato al di fuori delle controversie Stato-Regioni.
Un esempio. Se dal giudizio sul bilanciamento degli interessi la Corte importa - come sembra seriamente intenzionata - la tecnica dello sdoppiamento dei giudizi che si è descritta in precedenza, ne possono conseguire alcune implicazioni "tecnologiche" di notevole portata per i modi di costruire la difesa giudiziale delle Regioni: la quale dovrà anch'essa essere concepita come qualcosa che si svolge in due fasi fortemente correlate. Ciò significa che il ricorso contro la legge "invasiva", invece di essere concepito come l'unica occasione in cui è possibile ottenere la dichiarazione dell'astratta competenza della Regione - i cui interessi, invece, la Corte ritiene così spesso di poter bilanciare con le esigenze che si richiamano all' interesse nazionale, secondo una varietà flessibile di soluzioni di compromesso - potrebbe essere più utilmente congegnato come strumento per stimolare pronuncie interpretative della Corte che integrino la norma impugnata e fissino i punti fermi di delimitazione dello spazio consentito ai poteri d'intervento delle autorità statali, e le forme garantite di "leale cooperazione". La questione di legittimità della legge servirebbe dunque a provocare l'elaborazione, da parte della Corte costituzionale, della "regola" specifica delle relazioni Stato-Regione, da difendere poi, contro il singolo atto di applicazione, in sede di conflitto di attribuzione.
Esattamente come avviene nei giudizi principali quando si invoca il controllo di ragionevolezza e si adopera il principio di eguaglianza per consentire alla Corte di dichiarare l'illegittimità della legge in relazione alle sole ristrette fattispecie, accuratamente ritagliate e delimitate, anche nel giudizio in via principale può essere assai vantaggioso per la Regione che il ricorso sia impostato in modo da provocare la pronuncia della Corte su singoli aspetti e sugli specifici meccanismi, così da ottenere una "regola" del bilanciamento degli interessi che sia il più possibile precisa e circostanziata. Il che si può ottenere adducendo tutti gli elementi di fatto che consentano alla Corte di ragionare, non sulla base dell'astratta distribuzione delle competenze, ma sul concreto atteggiarsi dei rapporti (organizzativi, procedurali, finanziari ecc.) nel settore specifico.
Ottenere nel giudizio preliminare sulla legittimità della previsione legislativa elementi utili di delimitazione della "regola", che fissa per la materia in questione il punto di bilanciamento degli interessi in concorso, facilita ovviamente la difesa degli interessi della Regione nella seconda fase del giudizio "sdoppiato", cioè nell'eventuale conflitto insorto sull'atto amministrativo che applica la disposizione legislativa "interpretata" dalla Corte. In fondo si tratta soltanto di far valere il rispetto della "regola" di fronte a chi l'ha elaborata.
E' chiaro che in questo modo si finisce con rinunciare alla difesa dei confini che segnano la sfera delle attribuzioni regionali in senso proprio, perché quello che per lo più si difende è, in fondo, non la competenza legislativa o amministrativa, ma il ruolo delle Regioni in procedimenti decisionali complessi. Ma è sicuramente una tattica più produttiva della caparbia e puntuale difesa di confini che sono ormai poco più che un segno sulla carta.
[1] La Corte si è liberata dalla questione dichiarando la carenza d'interesse della ricorrente, dato che la dizione "Regione interessata" (il testo della disposizione contestata è riprodotto nella nota successiva) escluderebbe le province autonome dall'ambito di applicazione della disposizione (salva ovviamente la facoltà della provincia di agire contro il regolamento d'attuazione, nell'eventualità che questo pretenda di essere applicato anche nel suo territorio). Come è noto la Corte ha sempre sostenuto che "la semplice locuzione 'Regioni'" non consente di "inferire che il legislatore non abbia inteso alludere anche alle Province autonome o alle Regioni a Statuto speciale, dovendosi piuttosto analizzare quell' espressione senza ulteriori qualificazioni nell'ambito dell' intero contesto legislativo e nel significato che ad essa si può dare sulla base delle comuni regole di interpretazione della 'volontà' del legislatore" (sent. 49/1991, in questa Rivista 1992, 231 ss., 243). Nella sent. 482/1991, però, la scelta del significato da attribuire alla locuzione impiegata dal legislatore sembra guidata, più che da un'analisi attenta del contesto legislativo, dalla semplice circostanza che ad impugnare la disposizione fosse solo la Provincia autonoma, e non anche una Regione ad autonomia differenziata.
[2] V. già la ben nota sent. 150/1982 e, più di recente, con funzione riassuntiva degli orientamenti espressi dalla Corte, la sent. 242/1989 (in questa Rivista 1990, 1237 ss., 1265).
[3]
Nelle osservazioni che seguono farò riferimento ad un catalogo, certamente
incompleto, di pronuncie della Corte che ruotano attorno al problema del
coordinamento tecnico: sent. 214/1988 (in questa Rivista 1988, 787 ss.),
in materia di coordinamento degli uffici sanitari nelle zone di confine; sent.
474/1988 (in questa Rivista 1988, 1658 ss.), sulle
"direttive" del CIP che bloccano le tariffe dei servizi pubblici di
trasporto; sent. 924/1988 (in questa Rivista 1989, 1705 ss.), in merito
al "coordinamento" dei programmi promozionali regionali da parte
dell'Enit; sent. 242/1989 (in
questa Rivista 1990, 1237 ss.), in riferimento alle norme della legge
400 sull'esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento e, in
particolare, ai poteri di dell'ISTAT; sent. 452/1989 (in questa Rivista
1990, 1749 ss.), a proposito delle misure ministeriali volte a razionalizzare
l'utilizzazione delle strutture pubbliche di diagnostica; sent. 85/1990 (in questa
Rivista, 1991, 290 ss.) in riferimento ai compiti di coordinamento
dell'attività dei servizi tecnici provinciali affidata, dalla legge sulla
difesa del suolo, al Consiglio dei direttori; sent. 139/1990 (in questa Rivista,
1991, 543 ss.), ancora sul "coordinamento tecnico" dell'Istat; sent. 49/1991 (in questa Rivista
1992, 231 ss.), a proposito del coordinamento dei centri provinciali di
coordinamento e compensazione in materia di raccolta del sangue, svolto
dall'Istituto superiore di sanità.
[4] E' questo il caso, per esempio, delle direttive per il coordinamento degli uffici sanitari periferiche dello Stato con le strutture regionali nel "microsistema" di frontiera (motivate dall'efficienza e buon andamento dei primi, rispetto ai quali sono pienamente obbligatorie, e dalla mancanza di effetti obbligatori per le seconde, nei cui confronti "non possono produrre, neppure indirettamente, effetti del medesimo tipo"): sent. 214/1988. Si noti che in questa sentenza la Corte opera una distinzione radicale e "ontologica" tra la funzione di indirizzo e coordinamento e il coordinamento "debole" e paritario che discende dagli atti di questo tipo, i quali in realtà non incidono neppure su materie regionali (tutto all'opposto degli atti di indirizzo e coordinamento): cfr. L.TORCHIA, Regionalismo cooperativo e direttive ministeriali: un caso di specie, in questa Rivista 1988, 788 ss.
Anche nel caso del coordinamento degli uffici statistici, in cui più compiutamente viene elaborata la figura del "coordinamento tecnico" (sent. 242/1989), la Corte mantiene ferma la distinzione tra questo fenomeno e la funzione di indirizzo e coordinamento in senso proprio, ma qui non ci si basa più sulla mancanza di forza obbligatoria dell'atto statale nei confronti delle regioni, ma su un argomento assai diverso, e cioè che il coordinamento dell'Istat avrebbe solo "lo scopo di rendere omogenee le metodologie statistiche utilizzate dai vari centri pubblici di informazione statistica" e, come tale, non inciderebbe sul potere "di programmare, dirigere e gestire l'attività dei propri uffici statistici secondo i propri bisogni" (punto 11 "in diritto").
[5] In questi termini si è espressa la Corte, per esempio, nella sent. 474/1988, a proposito delle "direttive" del CIP che disponevano il blocco delle tariffe dei trasporti urbani: "un atto amministrativo che, sulla base dell'esercizio di una discrezionalità meramente tecnica, appare rivolto all'applicazione puntuale di una direttiva già presente, in tutti i suoi elementi prescrittivi" nella legge, per la cui implementazione applica "esclusivamente criteri tecnici di determinazione" (punto 2.2. "in diritto")
[6] Come nel caso del rapporto tra Regione ed Enit ai fini delle attività promozionali all'estero, in cui la Corte riduce il "coordinamento" operato dall'ente statale al mero obbligo di informazione a carico delle regioni in merito ai propri programmi: sent. 924/1988
[7] L'attività di coordinamento tecnico, infatti, "non è disciplinata dalle regole proprie della funzione di indirizzo e coordinamento politico-amministrativo e, in particolare, non esige il rispetto delle norme procedurali attinenti allo svolgimento della predetta funzione": sent. 85/1990 (punto 11 "in diritto")
[8] Sent. 204/1991 (in questa Rivista 1992, 584 ss., 592), sulla quale cfr. F.TRIMARCHI, Osservazioni sull'uso dei regolamenti nel raccordo tra ordinamento statale e ordinamento regionale, ivi.
[9]
Cfr., con riferimento al coordinamento dei servizi statistici, G.ENDRICI, La
riorganizzazione della statistica pubblica: il governo del sistema, in Riv.trim.dir.pubbl.
1990, 1092 ss., 1112.
[11]
Sent. 37/1991, in questa Rivista 1992, 159 ss. (punto 6 "in
diritto").
[12] Indirizzo e
coordinamento e potere sostitutivo nella più recente giurisprudenza della Corte
costituzionale, in questa Rivista 1992, 337 ss., spec. 340 s.
[15]
Per questi temi, sia consentito rinviare a R.BIN, Diritti e argomenti,
Milano 1992, 90-93, 127-131, e, per qualche applicazione più specifica, Giudizio
"in astratto" e delega di bilanciamento "in concreto",
in Giur.cost. 1991, 3574 ss.
[16] Si vedano le osservazioni,
assai perspicaci, di F.DIMORA, Le sentenze interpretative di rigetto nei
giudizi in via d'azione: qualche considerazione, in questa Rivista
1987, 749 ss.
[17] Sul fenomeno, in generale, cfr. V.ONIDA, I giudizi sulle leggi nei rapporti fra Stato e Regione: profili processuali, in questa Rivista 1986, 986 ss., 1002 s.; F.DIMORA, op.cit. Quanto al coordinamento tecnico, dei giudizi di legittimità qui considerati (sei in tutto: vedi la nota 3) ben tre si chiudono con pronuncie che sono formalmente interpretative di rigetto, e una quarta (la sent. 924/1988) lo è almeno informalmente (v. la nota di G.Conetti, in questa Rivista 1989, 1705 ss.
[18] "Ed è inutile dire - è ricordato nella sentenza 294/1986 (in questa Rivista 1987, 463 ss., 490 s.) - che è riservato a questa Corte, in sede di conflitto di attribuzione, il sindacato sul rispetto dei limiti così disegnati".
[19] Cfr. ancora F.DIMORA, op.cit., 758 s.
[20] Dennis v. U.S., 1951
[21] Una riprova si può avere, se pare necessario, dalle difficoltà di ritessere la trama dei princìpi generali in materia di fonti, sottolineata da F.TRIMARCHI BANFI, Questioni formali in tema di indirizzo e coordinamento, in questa Rivista 1990, 1711 ss.
[22]
R.PUTNAM, R.LEONARDI, R.NANETTI, L' istituzionalizzazione delle regioni in
Italia, in questa Rivista 1982, 1078 ss., 1094.