Le deboli istituzioni della leale
cooperazione
(nota a Corte cost. 507/2002)
Roberto Bin
1. Che il “sistema delle Conferenze” sia divenuto centrale nell’architettura istituzionale dei rapporti tra Stato e regioni è dimostrato anche dalla frequenza con cui il contenzioso costituzionale più recente richiama ciò che avviene nella Conferenza Stato-regione e nella Conferenza “unificata”[1]. Tuttavia la natura ambigua delle Conferenze e l’estrema informalità delle procedure decisionali in esse seguite pregiudicano l’affermazione di un ruolo preciso di questi organi e la piena efficacia delle loro deliberazioni.
La Conferenza Stato-regioni, come evidenziato dagli studi più recenti[2], adotta ormai mediamente circa 250 atti all’anno; è sempre più spesso richiamata dalla legislazione di settore, che affida ad essa compiti specifici di cooperazione tra livelli di governo; è assai frequentemente investita dal Governo di questioni particolarmente importanti sotto il profilo politico, anche quando non sono le norme vigenti ad imporlo. A fronte di un peso politico che appare in via di consolidamento, sta il fatto che la Conferenza per lo più “delibera” senza votare. In effetti il d.lgs. 281/1997 prevede delle procedure di voto: l’art. 2 stabilisce che, “ferma la necessità dell'assenso del Governo, l'assenso delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano… è espresso, quando non è raggiunta l'unanimità, dalla maggioranza dei Presidenti delle regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, componenti la Conferenza Stato - regioni, o da assessori da essi delegati a rappresentarli nella singola seduta”. Ciò vale per una serie di delibere importanti (fissazione dei criteri di ripartizione delle risorse finanziarie, adozione dei provvedimenti che sono ad attribuiti alla Conferenza dalla legge, nomine, ecc.), ma non per le “intese” e gli “accordi”, per i quali non è previsto nulla di più specifico dell’indicazione che essi “si perfezionano con l'espressione dell'assenso del Governo e dei Presidenti delle regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano” (artt. 3 e 4 del citato decreto delegato).
Di fatto però rarissime risultano le votazioni a maggioranza[3], mentre per il resto tutto sembra svolgersi all’unanimità. I verbali delle riunioni si limitano a registrare “l’acquisito consenso” del Governo e dei Presidenti sul documento approvato. Come è stato opportunamente sottolineato[4], la supposta unanimità che risulta dalla verbalizzazione nasconde spesso conflitti tra le regioni già mediati in sede di Conferenza dei Presidenti - l’organismo di coordinamento interregionale che si riunisce sistematicamente prima della Conferenza proprio al fine di ricercare una “posizione comune” delle regioni sui punti dell’ordine del giorno della Conferenza. La tecnica di verbalizzazione delle sedute della Conferenza fotografa perciò o questioni su cui la posizione delle regioni si è già formata o questioni su cui le regioni stesse chiedono il rinvio; quando la posizione delle regioni è chiara, l’espressione di assenso del Governo sulle proposte regionali (che spesso esprimono osservazioni integrative o fanno riferimento ad emendamenti già concordati in sede tecnica con i rappresentanti del Governo) o del “Presidente dei Presidenti” su quelle del Governo “fissa” la decisione.
Per le deliberazioni della Conferenza “unificata” vi è un problema in più. L’art. 9, comma 4, del decreto 281 prevede che, “ferma restando la necessità dell'assenso del Governo… l'assenso delle regioni, delle province, dei comuni e delle comunità montane è assunto con il consenso distinto dei membri dei due gruppi delle autonomie che compongono, rispettivamente, la Conferenza Stato - regioni e la Conferenza Stato - città ed autonomie locali”, aggiungendo che “l'assenso è espresso di regola all'unanimità dei membri dei due predetti gruppi”, o, in subordine, “dalla maggioranza dei rappresentanti di ciascuno dei due gruppi”. Come ha osservato la Corte nella sent. 337/2001, “nell’organismo unificato non vi è la totale compenetrazione fra la Conferenza Stato-regioni e quella Stato-città, che, anzi, rimangono organismi fra loro ben distinti”: i due “corpi” restano separati, ognuno esprimendo distintamente il consenso (unanime o maggioritario).
Anche in questo caso il verbale rende conto delle posizioni espresse dai due corpi. Nei rari casi in cui si è proceduto ad una votazione (che si svolge anch’essa in un modo assai particolare, venendo richiesto ad ogni soggetto presente di esprimersi sull’oggetto in questione), il verbale registra le singole posizioni, non sommando rispettivamente i favorevoli e i contrari, ma riportando le più sfumate posizioni espresse da ogni presente: così, per esempio, a conclusione della delicata discussione del 14 febbraio 2002 sulla bozza di “devolution” proposta dal ministro Bossi, si legge nel verbale[5] che “la Conferenza unificata esprime parere… nei termini delle considerazioni e della proposta emendativa indicate nelle premesse e in quanto contenuto nei documenti che, allegati al presente atto, ne costituiscono parte integrante”.
2. Un elevato tasso di informalità domina dunque il funzionamento delle due Conferenze: ma ciò non deve affatto sorprendere, perché è perfettamente coerente con ogni altro tratto che le caratterizza. Sono organi essenzialmente politici sia come composizione che come modalità di funzionamento ed “efficacia” dei propri atti.
Guardiamo in primo luogo alla composizione della Stato-regioni. Il Presidente del Consiglio dei ministri e i Presidenti di regione possono tutti farsi sostituire da un membro del rispettivo esecutivo: anzi di fatto le riunioni sono presiedute dal ministro degli affari regionali, che può invitare alle sedute i ministri o i rappresentanti politici delle amministrazioni interessate all’oggetto in discussione. La Conferenza Stato-regioni ha una propria struttura amministrativa, posta alle dipendenze del Presidente, e composta da personale proveniente in pari misura dallo Stato e dalle regioni: essa svolge anche le funzioni di segreteria della Conferenza unificata. In applicazione dell’art. 7del d.lgs. 281 si è istituita una dozzina di gruppi di lavoro o tavoli tecnici, composti da funzionari delle amministrazioni statali e regionali, che svolgono “funzioni istruttorie, di raccordo, collaborazione o concorso alla attività della Conferenza stessa”, e a cui spesso i lavori della Conferenza fanno rinvio. Le riunioni della Conferenza, come già si è detto, sono precedute dalla riunione di un organismo quasi informale, la Conferenza dei Presidenti, il cui Presidente funge poi da portavoce delle regioni nella Stato-regioni.
Nella “unificata”, i Presidenti di regione (o i loro delegati) incontrano 23 “rappresentanti” delle autonomie locali che sono però designati non attraverso procedure “pubbliche”, ma dalle organizzazioni associative dei Comuni, delle Province e delle Comunità montane. Non è senza significato che il sito del Governo, nelle pagine dedicate alla Conferenza unificata[6], faccia costantemente riferimento alle posizioni “delle regioni, dell'ANCI, dell'UPI e dell'UNCEM”, quasi che esse fossero soggetti equiparabili: mentre non lo sono, non solo per l’evidente ragione che le prime sono enti pubblici territoriali e le altre mere associazioni private, ma soprattutto perché le prime sono enti politici che rappresentano gli interessi collettivi delle comunità regionali, mentre le seconde – per citare dallo Statuto dell’ANCI – “rappresenta(no) gli interessi degli associati”, cioè gli interessi de-territorializzati di un determinato livello di governo locale.
3. Particolare attenzione meritano poi le modalità di funzionamento delle Conferenze, anche perché è proprio su questo aspetto che verte la sentenza in commento.
Poco ci dice a proposito la disciplina legislativa, a cui già si è accennato. Innanzitutto nulla viene detto sul quorum strutturale. Per quanto riguarda la Conferenza Stato-regioni, la Corte (sent. 206/2001) ha avuto modo di smentire l’idea che, laddove la legge richiede la maggioranza assoluta o l’unanimità, questa previsione si traduca nella prescrizione di un quorum strutturale e si rifletta perciò sulla validità delle deliberazioni della Conferenza. Le argomentazioni della Corte – forse non inattaccabili da chi ha fede nella purezza dei concetti[7] - sembrano riflettere l’informalità delle procedure decisionali della Conferenza: la Corte registra il fatto che la Conferenza dei Presidenti ha preventivamente concordato all’unanimità il parere, alla presenza della maggioranza dei suoi componenti; constata che in sede di Conferenza Stato-regioni, pur non essendo presente la maggioranza dei Presidenti regionali ma risultando tutti regolarmente invitati, il parere è stato espresso all’unanimità dei presenti; registra infine il fatto che “nessuna posizione di dissenso rispetto al testo definitivo dell’intesa risulta essere stata espressa da rappresentanti regionali, in particolare della regione ricorrente, nell’ambito della Conferenza, né, peraltro, al di fuori di essa nei rapporti fra le regioni ed il Governo”; conclude perciò per la regolarità della procedura. Infatti, la disposizione del decreto legislativo, “conformemente alla sua ratio e ad una interpretazione congruente con il principio di leale collaborazione”, non può essere intesa “nel senso che l’assenza di alcune regioni, al limite anche di una sola, pur regolarmente convocate, alla riunione della Conferenza, non accompagnata da alcuna espressione di dissenso, eventualmente manifestata anche fuori della sede della conferenza, possa inficiare l’assenso delle regioni e dunque impedire il perfezionamento dell’intesa”.
La sentenza 507/2002, in commento, tocca il problema delle procedure nella Conferenza unificata, e si muove in perfetta sintonia con il precedente appena riassunto. Però, come è stato opportunamente messo in rilievo[8], la lettera dell’art. 9, comma 4, del d. lgs. 281, facendo riferimento ai “membri” dei due gruppi di rappresentanti delle autonomie, potrebbe indurre a ritenere che non sia in riferimento ai “presenti”, ma agli “aventi diritto” che si debba calcolare la maggioranza o si riscontrare l’unanimità di consensi. Ma non è così: dai verbali ottenuti in ottemperanza all’ordinanza istruttoria, la Corte verifica che la regione ricorrente non era presente alla seduta in cui si deliberava sull’intesa in questione, ma sembra dare per scontato che anche per la Conferenza unificata non si possa pretendere che l’unanimità implichi il consenso di tutti gli aventi diritto. Anche in questo caso alla Corte è sufficiente constatare che la ricorrente non ha espresso il proprio dissenso né – essendo assente – in sede di Conferenza, “né… ha allegato un suo dissenso, manifestato in una qualche forma, in data interiore”.
Quest’ultimo inciso – perfettamente collimante con l’analoga osservazione contenuta nella sent. 206/2001, riportata sopra – apre una prospettiva interessante, perché lascia intendere che per la Corte potrebbe avere significato il dissenso espresso da una regione non solo se formalizzato nei verbali della seduta della Conferenza, ma anche in qualsiasi altra forma, anche fuori della Conferenza, purché prima della seduta della stessa. È il massimo riconoscimento dell’informalità delle procedure delle Conferenze, che però lascia indefinito un aspetto assai importante: che significato potrebbe avere l’espressione di dissenso da parte di una Regione?
4. Per rispondere a questo quesito bisogna affrontare un problema più generale: quale efficacia abbiano in generale le deliberazioni delle Conferenze. Ovviamente il problema si pone per le delibere politicamente più importanti, ossia per le intese, gli accordi e i pareri sugli schemi di atto normativo adottati dal Governo. Il problema della loro efficacia ha un doppio versante, perché è necessario chiedersi quali effetti eserciti la deliberazione che si perfezione con l’assenso del rappresentante del Governo e dei Presidenti delle regioni, nei confronti, rispettivamente, dello Stato e delle regioni.
Del primo versante, cioè degli effetti nei confronti degli organi dello Stato, si è già occupata la sent. 437/2001. Raggelando le aspettative di quanti avevano scorto nel sistema delle conferenze un elemento significativo della stessa forma di governo[9], la Corte ha affermato quello che non poteva non affermare[10]: che, in assenza di una precisa prescrizione costituzionale, gli accordi che si raggiungono in Conferenza non hanno, per forza propria, la capacità di imporsi sui circuiti decisionali degli organi costituzionali. Non potrebbe essere diversamente: come potrebbe “una manifestazione politica di intento” (sono parole della sentenza), cui si perviene tramite procedure del tutto informali, cui oltretutto il Governo potrebbe sottrarsi per motivi di urgenza, condizionare giuridicamente i successivi procedimenti decisionali degli organi costituzionali. In uno stato di diritto la volontà politica può produrre effetti giuridici solo attraverso le procedure formali e tipiche che la Costituzione prescrive per la produzione di norme.
Fuori di questo schema, neppure lo stesso Governo potrebbe essere giuridicamente costretto a rispettare intese e accordi conclusi nelle Conferenze grazie all’assenso del suo rappresentante. Quando invece si rientra nello schema della disciplina delle fonti normative, il Governo è giuridicamente tenuto ad acquisire il parere o l’intesa con le regioni perché è la legge ad imporlo come vincolo all’esercizio di poterei normativi delegati o autorizzati. Tuttavia, come è spiegato nella sentenza 206/2001, in cui si verte appunto della regolarità di un’intesa prescritta dalla legge di delega come condizione di validità del decreto delegato, “la Conferenza non opera qui come collegio deliberante, ma come sede di concertazione e di confronto, anzitutto politico, fra Governo e regioni - queste ultime considerate quale componente complessiva e unitaria”. Essendo il confronto “volto a raggiungere, ove possibile, una posizione comune”, è decisivo “che esso si svolga, in conformità al principio di leale collaborazione, con modalità idonee a consentire a ciascuna delle due componenti di esprimere le proprie posizioni, di valutare le posizioni dell’altra parte e di elaborare e proporre soluzioni su cui concordare”, sicché “nell’assenza – giustificabile d’altra parte alla luce dei sopra descritti caratteri dell’intesa – di ulteriori regole formali che disciplinino il modus procedendi della Conferenza e pongano requisiti di numero legale e di maggioranza, l’intesa non può dirsi mancata una volta che (…) tutte le regioni siano state messe in grado di partecipare effettivamente alla ricerca e alla definizione dell’accordo e di concorrere al raggiungimento del medesimo, o invece di impedirlo, e non siano stati manifestati dissensi sulla posizione comune raggiunta, come formalmente sancita nella Conferenza”. Al contrario, non può sfuggire a censura il fatto che il Governo, raggiunta l’intesa su uno schema di provvedimento, come prescritto dalla legge, ne modifichi il testo senza aver “motivato specificamente tale difformità dal testo dell’intesa”[11]; così come non sfugge a censura l’atto del Governo che ritenga assolti con un “passaggio” in Conferenza gli obblighi di cooperazione che la legge vuole invece assolti solo attraverso contatti diretti con la singola regione interessata al provvedimento stesso[12].
5. E per le regioni, che efficacia hanno le deliberazioni delle Conferenze? Per le regioni valgono le stesse considerazioni appena svolte. In quale modo la volontà espressa dal Presidente della regione potrebbe tradursi in un vincolo giuridico, per esempio, per la formazione della volontà dell’assemblea legislativa? Ciò potrebbe accadere solo se quanto viene concordato in sede di conferenza si traduce in un preciso schema normativo, per esempio in un decreto legislativo o in un atto di indirizzo e coordinamento (ammettendo che essi siano ancora ammessi dopo la riforma del Titolo V). Altrimenti gli impegni assunti possono valere solo sul piano politico, ossia sul piano della leale cooperazione: “né il principio di leale collaborazione fra Stato e regioni può esser dilatato fino a trarne condizionamenti, non altrimenti riconducibili alla Costituzione, rispetto alla formazione e al contenuto delle leggi” (sent. 437/2001), siano esse leggi statali o regionali.
Proprio sul piano della leale cooperazione, però, ciò che accade nelle Conferenze può assumere rilevanza giuridica: nel senso che la sottoposizione alla discussione in Conferenza di un determinato argomento costituisce una delle forme più intense ed apprezzabili con cui si realizza il principio di cooperazione. Attraverso il rafforzamento del ruolo delle Conferenze e il trasferimento ad esse di larga parte delle procedure di intesa, di accordo e di espressione di parere, il decreto legislativo 281/1997 ha dotato la cooperazione tra i livelli di governo di sedi istituzionali e di forme procedurali più precise che in passato, benché ancora lontane da una completa formalizzazione. Per questo motivo le regioni (come pure lo Stato) devono ritenere rispettato il principio di collaborazione quando un argomento sia trattato in sede di conferenza; con la conseguenza che poi non possono denunciare l’atto per la presunta violazione di quel principio[13]; né possono considerare violate le proprie prerogative se non hanno partecipato alla seduta della Conferenza, regolarmente convocata, o in quella sede non hanno fatto rilevare il proprio dissenso.
Non è affatto chiaro, invece, quale conseguenza la Corte ritenga di poter ricollegare all’ipotesi in cui la regione manifesti il suo dissenso, non nel corso della Conferenza, ma “al di fuori di essa nei rapporti fra regioni e Governo”[14], un dissenso “manifestato in una qualche forma, in data anteriore”[15]. Questo tipo di manifestazione del dissenso potrebbe avere rilevanza infatti soltanto se si concepisse l’unanimità o la maggioranza assoluta prescritte dal decreto legislativo 281 come requisiti che non si riferiscono alle posizioni espresse in Conferenza dai rappresentanti delle regioni presenti (rispetto alle quali i dissensi manifestati in altre sedi, prima o dopo la seduta della Conferenza, non avrebbero alcun rilievo giuridicamente apprezzabile), ma all’unanimità (o alla maggioranza assoluta) dei consensi di tutte le regioni: tesi che, come si è ricordato, la Corte ha chiaramente respinto sia nella sent. 206/2001 che in questa che stiamo commentando.
6. Aver tenuto le Conferenze ad un basso grado di definizione delle procedure formali di deliberazione è stata forse una scelta saggia, in passato. È stato possibile infatti, per questa via, che le uniche sedi istituzionali di collaborazione introdotte nel nostro sistema si radicassero nella prassi e acquisissero un ruolo politico di tutto rilievo, senza rischiare che i formalismi procedurali soffocassero organismi che già tanta difficoltà incontrano nel sopravvivere alla polarizzazione degli schieramenti e alla radicalizzazione della lotta politica. Il nostro sistema istituzionale da tempo viaggia sui binari della sussidiarietà e della cooperazione senza avere, oltre alle Conferenze, altre istituzioni predisposte a svolgere la indispensabile funzione di concertazione e di coordinamento decisionale. La stessa riforma del Titolo V è, per questo profilo, del tutto deludente, non essendo riuscita a introdurre nulla di più del palliativo costituito dall’integrazione, per il resto solo eventuale, della Commissione bicamerale per gli affari costituzionali con una rappresentanza delle autonomie.
Tuttavia è ormai evidente che il sistema delineato dalla riforma costituzionale non può funzionare senza forti istituzioni di coordinamento. Benché la sussidiarietà sia stata richiamata a principio di distribuzione delle sole funzioni amministrative, mentre le competenze legislative continuano ad essere ripartite per cataloghi di “materie” – e ciò ha spinto la dottrina a decretare un po’ affettatamente il tramonto del principio del c.d. “parallelismo delle funzioni” – già la prima giurisprudenza costituzionale ci richiama con forza a riconsiderare le “materie” in termini di “interessi”, e quindi di sussidiarietà.
Infatti, la modifica della tecnica di distribuzioni delle competenze operata dalla riforma, attraverso l’individuazione delle “materie” rimaste in mano dello Stato, sembra rafforzare ancora di più il legame tra le “materie” e gli “interessi”. Nell’ordinamento passato il trasferimento di funzioni dallo Stato alle regioni avveniva partendo da precise strutture burocratiche ministeriali che svolgevano specifiche funzioni; sicché, trasferendo le funzioni insieme con le strutture amministrative e – almeno in principio – il personale, le “materie” assumevano una consistenza abbastanza precisa, quasi fisica. Oggi, nel nuovo ordinamento, le cose non sono più così: le materie elencate nell’art. 117, co. 2, come competenza “esclusiva” dello Stato (e, in qualche misura, anche quelle “concorrenti” dell’art. 117, co. 3,) molto spesso non hanno una consistenza determinabile, non sono supportate da una precisa struttura ministeriale né sono organizzate in uno specifico corpo normativo.
È insomma divenuto ancora più difficile trattare le “materie” se non si affronta l’esame del “quadro degli interessi sottostanti” e di quale sia la “incidenza su una il pluralità di interessi e di oggetti” provocata dalla disciplina impugnata[16]. Ma se la considerazione degli interessi coinvolti da una determinata tematica e del livello di legislazione più adeguato a disciplinarla è del tutto coerente con l’assunzione della sussidiarietà come criterio di assegnazione delle funzioni, è anche evidente che la decisione circa la ripartizione delle funzioni (e delle relative risorse) non può che avvenire attraverso metodi di concertazione e di codecisione: l’alternativa è affidarla ancora, come in passato, al contenzioso di fronte alla Corte costituzionale.
In conclusione, la riforma costituzionale aggrava i compiti cui sono chiamate le Conferenze e rende inevitabile che se ne delineino con maggior precisione il ruolo e le procedure. Sinora la Corte ha evitato di operare anche su questo versante in supplenza del legislatore. Lo ha potuto fare aggirando i profili giuridici dei problemi che le sono stati prospettati, affrontati invece sul piano della mera ricostruzione dei fatti (come certificati dai verbali della Conferenza). Ma le questioni giuridiche restano tutte in piedi e sono ben riassunte nella tesi posta dall’Avvocatura dello Stato nella sua memoria conclusionale: “un’intesa multilaterale regolarmente raggiunta in seno alla Conferenza Stato-regioni o alla Conferenza unificata non potrebbe essere oggetto di un conflitto di attribuzione da parte di una soltanto delle regioni partecipanti alla Conferenza”, perché tale atto “sarebbe solo formalmente riferibile allo Stato” in quanto “espressione di una convenzione, della quale – se multilaterale - sarebbero parti stipulanti anche le altre regioni”; perciò “agli accordi ed alle intese andrebbe riconosciuta… la capacità di produrre impegni e vincoli giuridici e non soltanto una valenza politica, sicché nel caso in cui una Regione, dopo avere partecipato alla Conferenza unificata, rimanendo in quella sede isolata, non accetti la volontà ivi collegialmente espressa e proponga un individuale ricorso per conflitto di attribuzione tendente a demolire quella volontà, tale ricorso dovrebbe essere dichiarato inammissibile”.
Questa tesi implica però che siano riconsiderate le procedure con cui le Conferenze operano e decidono, assicurando un livello di formalità adeguato. Il che è senz’altro auspicabile, ma è un compito che non spetta di certo alla Corte costituzionale.
[1] Dopo la disciplina introdotta dalla legge 59/1997 e dal d.lgs. 281/1997 (sulla cui legittimità è intervenuta la Corte costituzionale con la sent. 408/1998, a cui si sono aggiunte altre pronunce in merito a singole previsioni normative di competenze delle Conferenze, di cui merita ricordare in particolare la sent. 337/2001, perché riguarda le modalità con cui si delibera nella Conferenza unificata), in diverse decisioni di fa riferimento a quanto si è svolto in esse: si vedano le sentt. 110/2001 (in cui la Regione Veneto lamenta che il Governo non ha informato la Conferenza Stato-regioni dell’intenzione di intervenire in via sostitutiva per la ripartizione di funzioni amministrative tra regioni ed enti locali), 206/2001 (in cui sempre la Regione Veneto contesta il d.lgs. 112/1998, in quanto avrebbe fissato i compiti di rilievo nazionale, di competenza dello Stato, senza aver raggiunto in Conferenza l’intesa con le regioni, ritenendo che per essa sia necessario il consenso almeno della maggioranza assoluta delle regioni stesse), 437/2001 (che nega carattere vincolante per il legislatore statale alle intese che non abbiamo una “copertura” costituzionale), 315/2001 (l’intesa in Conferenza unificata è impiegata dalla Corte costituzionale per comprovare l’interpretazione dell’atto impugnato dalle Province autonome), nonché l’ord. 476/2000 (l’accordo raggiunto in Conferenza unificata è richiamato dalla regione ricorrente per motivare la rinuncia al ricorso). Del resto anche prima che la “riforma Bassanini” facesse sentire i suoi effetti qualche riferimento agli atti della Conferenza Stato-regioni compare nella giurisprudenza costituzionale: si veda per esempio la famosa sentenza 398/1998 sulle “quote-latte”
[2] Cfr. I.RUGGIU, La Conferenza Stato-regioni nella XIII e XIV legislatura, in Le regioni 2003, 1 (in corso di stampa).
[3] Cfr. F. PIZZETTI, Il sistema delle conferenze e la forma di Governo italiana, in Le regioni, 2000, 481 ss.
[4] I. RUGGIU, op. cit.
[5] Che può essere consultato all’indirizzo http://www.governo.it/backoffice/allegati/15928-792.pdf
[7] Cfr. F. S. MARINI, Il “plusvalore” dei termini di impugnazione e la degradazione (ad “inviti”) delle intese Stato-Regioni, in questa Rivista 2001, 1596 ss., 1602.
[8] G. DI COSIMO, Procedure di decisione della Conferenza unificata fra previsione legislativa e prassi difforme, in Le Regioni 2003 (in corso di stampa).
[9] Cfr. F. PIZZETTI, op. cit.
[10] Cfr. la nota adesiva di P. CARETTI, Gli “accordi” tra Stato, regioni e autonomie locali: una doccia fredda sul mito del “sistema delle conferenze”?, in Le regioni 2002, 1169 ss.
[11] Sent. 206/2001, punto 16 della motivazione “in diritto”; cfr. anche la sent. 179/2001.
[12] Cfr. sent. 110/2001.
[13] Cfr. sent. 171/1999.
[14] Sent. 206/2001, punto 12.
[15] Sent. 507/2002, punto 2.
[16] Cfr. sent. 407/2002.