“Tono
costituzionale” del conflitto vs. “tono regionale” della Repubblica
Roberto Bin
1. La massima che si ricava da questa sentenza è che sono inammissibili i ricorsi per conflitto di attribuzione promossi dalle regioni: a) quando siano “dirett(i) a lamentare una lesione di competenza costituzionale discendente da un atto legislativo dello Stato”, attraverso l’impugnazione di “un atto di mera esecuzione di quest’ultimo”; b) oppure quando “la lesione lamentata si sostanzia e si esaurisce nella erronea applicazione della legge da parte dell’atto impugnato, senza che quest’ultimo, per il suo contenuto e i suoi presupposti, appaia idoneo ad arrecare di per sé - e non già in quanto pura esecuzione della legge - pregiudizio alla sfera di competenza costituzionale della ricorrente”.
La prima affermazione non costituisce certo una novità: è un punto fermo della giurisprudenza costituzionale – e gli stessi precedenti richiamati nella sentenza lo confermano – che il conflitto di attribuzione non può tramutarsi in una via surrettizia per contestare tardivamente la legittimità della legge su cui si basa l’atto impugnato. La novità sta invece tutta nella seconda affermazione.
Il ragionamento della Corte procede lungo il seguente itinerario: l’atto amministrativo dello Stato può essere impugnato in sede di conflitto soltanto quando attraverso di esso lo Stato lede le attribuzioni costituzionali delle Regioni; se invece le censure mosse all’atto impugnato riguardano l’interpretazione che esso dà alla legge su cui si basa, siamo nell’àmbito, del tutto diverso, degli ordinari vizi degli atti amministrativi, cioè nella violazione di legge; in questo secondo caso, dunque, il rimedio non va cercato nel conflitto di attribuzioni, che è inammissibile, ma nei strumenti ordinari di tutela giurisdizionale. La Regione (o la Provincia) che si ritenesse “lesa” dall’atto in questione dovrebbe, dunque, ricorrere al giudice amministrativo per contestare in quella sede la legittimità dell’atto stesso e, casomai, se la disposizione legislativa fosse tale da lasciare qualche margine di dubbio interpretativo, eccepirne in via subordinata l’illegittimità costituzionale, nella parte in cui consente di essere interpretata e applicata come ha fatto l’autorità amministrativa. “Infatti – continua la Corte - il pregiudizio, in questo caso, non sarebbe riconducibile ad una autonoma attitudine lesiva dell’atto impugnato, ma esclusivamente al modo erroneo in cui e stata applicata la legge: eliminata, con i rimedi ordinari, tale illegittimità, la lesione verrebbe necessariamente meno”.
2. Proprio questa era la situazione nel caso di specie. Le parti – osserva ancora la Corte – entrano in conflitto non tanto per quanto dispone il decreto ministeriale impugnato, ma per l’interpretazione della legge su cui esso si fonda: se fosse corretta l’interpretazione seguita dal ministero, l’esclusione delle Province autonome dai contributi statali sarebbe già disposta dalla legge, mentre il decreto avrebbe una funzione esclusivamente esecutiva della legge e, in quanto tale, non produrrebbe di per sé alcuna lesione delle attribuzioni provinciali; se invece fosse corretta l’interpretazione proposta dalle ricorrenti, nella locuzione “Regioni a statuto speciale” andrebbero già ricomprese le province autonome, sicché il decreto ministeriale, escludendole dal riparto, violerebbe la legge.
Che si trattasse essenzialmente di un problema di interpretazione della legge era perfettamente chiaro alla difesa delle ricorrenti, che infatti avevano cercato di stringere la Corte nella solita forbice argomentativa che usualmente si prospetta al giudice di merito: o mi dai ragione sulla base di un’interpretazione sistematica della legge, tale da ricondurla alla costituzione; oppure, se ritieni che l’interpretazione da me richiesta non sia sostenibile, ti chiedo di sollevare di fronte alla Corte costituzionale la questione di legittimità della legge stessa, non più conforme a costituzione. La Corte non ha fatto altro che impugnare la forbice argomentativa e invertirne la direzione di taglio. Forse proprio l’aver impiegato senza veli questa tecnica di fronte alla Corte è stato un errore tattico delle ricorrenti, perché ha fatto percepire con chiarezza alla Corte il rischio di “scivolare” verso un ruolo non proprio del giudice costituzionale, di essere “degradata” allo stesso rango del giudice di merito, sollecitato ad “innalzare” - appunto - la questione di legittimità di fronte al giudice delle leggi.
Non pare dubbio, infatti, che la pronuncia della Corte – che inverte una linea di tendenza che sembrava consolidata1 - sia ispirata ad un preciso obiettivo, quello di difendere il “tono costituzionale” del conflitto e liberarsi di conseguenza di una certa quota di ricorsi “minori”: dubbio è invece che lo strumento sia adeguato allo scopo.
3. Come è noto, la nozione di “tono costituzionale” è stata introdotta dalla dottrina a proposito dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, per stigmatizzare il ricorso a questo strumento al fine di difendere attribuzioni di scarso “pregio” costituzionale, “questioni minute, di ordinaria amministrazione”2. Appellarsi al “tono costituzionale” servirebbe dunque per inserire un filtro che trattenga un certo numero di ricorsi impedendone l’accesso alla Corte: ricorsi che, come ha detto la Corte proprio in un conflitto promosso dalle regioni contro lo Stato, non sarebbero “di livello costituzionale” (sent. 473/1992). In altra sede3 ho cercato di dimostrare, sempre in riferimento ai conflitti tra poteri dello Stato, la scarsa consistenza di questa nozione e della soggiacente pretesa teorica di difendere il “tono costituzionale” attraverso una più esatta, e quindi restrittiva, ridefinizione dei termini del conflitto stesso; suggerivo che la via da battere procedesse invece in senso opposto, che fosse conveniente cioè lasciar perdere l’opera di costruzione degli argini concettuali e di valorizzare la funzione residuale del conflitto, strumento utilizzabile in ogni caso in cui, essendo controverse attribuzioni in qualche modo riferibili alla costituzione, non fossero disponibili altri strumenti di difesa in sede giurisdizionale.
In effetti anche nei conflitti intersoggettivi la Corte costituzionale ha talvolta sottolineato il ruolo residuale del suo giudizio rispetto agli altri strumenti di difesa degli interessi delle ricorrenti. Lo ha fatto: a) quando il Governo ha cercato di bloccare la legge regionale sollevando il conflitto contro l’atto di promulgazione dopo aver perso i termini del rinvio della legge stessa (per es., nella sent. 357/1991); b) quando le regioni hanno cercato di utilizzare surrettiziamente il conflitto per contestare scelte contenute già nella legge su cui si fondava l’atto amministrativo impugnato (per es., nelle sentt. 472/1995 e 215/1996, citate nella decisione in commento, ma anche 517/1995); c) quando il conflitto è stato sollevato per questioni attinenti alla semplice illegittimità dell’atto amministrativo, senza che venissero in rilievo profili attinenti all’invasione delle competenze o all’interferenza (per es., sentt. 217/1991; 245/1992; 473/1992; 215/1993).
È proprio a quest’ultima ipotesi che sembra avvicinarsi la decisione in commento. Ma vi è un’evidente differenza dai precedenti: nel nostro caso la ricorrente lamenta un’indiscutibile invasione delle proprie attribuzioni. La Corte infatti non contesta che l’esclusione dal riparto dei finanziamenti costituisca materia di conflitto di attribuzione (né avrebbe potuto farlo senza smentire la propria copiosa giurisprudenza precedente). Sostiene invece che o la lesione delle attribuzioni provinciali è imputabile alla legge, e allora il conflitto di attribuzione contro l’atto amministrativo conseguente sarebbe uno strumento surrettizio per sollevare la questione di legittimità costituzionale della legge (ipotesi sub b); oppure la lesione delle attribuzioni provinciali sarebbe la mera conseguenza della violazione di legge, riparabile attraverso gli strumenti giurisdizionali ordinari apprestati per rimuovere questo tipo di vizi dell’atto amministrativo (ipotesi sub c).Ma il nostro caso non ricade né nella prima né nella seconda ipotesi: l’alternativa tra le due ipotesi è aperta, e dipende dall’interpretazione che si dà alla legge; è dall’interpretazione della legge che discende il vulnus per le attribuzioni della ricorrente. La Corte costituzionale, dichiarando inammissibile il ricorso, semplicemente rifiuta di occuparsi dell’interpretazione della legge, demandandola al giudice di merito.
A ben vedere, quindi, quanto la Corte predica in questo caso non è tanto la residualità del conflitto di attribuzioni rispetto agli ordinari strumenti di difesa delle attribuzioni, quanto la precedenza del vizio di legalità degli atti amministrativi rispetto alla violazione delle attribuzioni costituzionali. In questo sta, dunque, la novità della decisione. Vediamone dunque le conseguenze.
4. Sul piano operativo, la conseguenza più evidente è che, restringendo il filtro di ammissibilità dei conflitti di attribuzione, la Corte vedrà ulteriormente allargarsi il ricorso all’impugnazione diretta delle leggi statali in via cautelativa. Come più volte si è osservato4, è diventato costume assai diffuso per le Regioni impugnare le leggi dello Stato al solo fine di sentirsi dire dalla Corte che la legge impugnata va interpretata nel senso che essa non legittima gli organi statali a emanare atti amministrativi che potrebbero invadere le attribuzioni regionali: forti dell’autorità dell’interpretazione data “in astratto” e preventivamente dalla Corte costituzionale, le Regioni hanno poi avuto gioco facile a impugnare, in sede di conflitto di attribuzioni, gli eventuali atti amministrativi statali che esercitassero “in concreto” il potere che la legge, interpretata nel senso indicato dalla Corte, ad essi non conferiva. Questa strategia era, prima della sentenza qui in commento, suggerita solo da prudenza, poiché nulla sembrava impedire alle Regioni, anche in mancanza di una precedente impugnazione della legge, di sollevare il conflitto contro gli atti attuativi ogni qual volta essi sembrassero concretizzare un’interpretazione della legge lesiva delle attribuzioni regionali e non del tutto arbitraria. Da ora, invece, normale prudenza imporrà di impugnare tutte le leggi che lascino anche il pur minimo spazio interpretativo sfavorevole agli interessi delle Regioni: anche quando, come nel nostro caso, la legge dimentichi di citare espressamente le Province autonome (che la stessa Corte ha sempre detto – per altro - essere implicitamente comprese nella locuzione “Regioni speciali”). Solo così si eviterà di dover impugnare l’atto amministrativo conseguente davanti al TAR (al TAR Lazio, trattandosi di atti amministrativi avalenzaterritorialegenerale9einquella sede, proporre la forbice argomentativa descritta in precedenza: o mi interpreti la legge in senso favorevole e annulli di conseguenza l’atto amministrativo per violazione di legge, o impugni la legge stessa, in via incidentale, davanti alla Corte costituzionale.
Ragioni di economia hanno spinto la Corte costituzionale a sfoltire i ricorsi per conflitto di attribuzione introducendo la nuova “dottrina” enunciata nella sentenza in commento; ragioni di economia processuale spingeranno le Regioni a intensificare i ricorsi alla Corte costituzionale per impugnare in via principale le leggi dello Stato. L’interpretazione della legge, che la Corte rifiuta di fare in sede di conflitto, nel caso concreto, sarà chiesta alla Corte in sede di questione di legittimità costituzionale, mossa o in via diretta, preventiva (rispetto agli atti di esecuzione) e astratta (rispetto alla concretezza del vulnus), oppure in via incidentale, nel corso del giudizio di fronte al TAR. Sotto questo profilo, quindi, lo stratagemma escogitato dalla Corte non sembra affatto promettere i risultati che essa si riprometteva di ottenere: anzi, sotto il profilo dell’economia processuale, appare persino sconveniente.
5. Sotto il profilo teorico, invece, la sentenza in commento sembra gravida di conseguenze importanti e piuttosto negative per le Regioni.
Da un lato, aumenta la precarietà della difesa giudiziale degli interessi regionali. Se la Regione non impugna preventivamente la legge, per chiedere alla Corte di fissarne il significato e l’àmbito di applicazione, corre il rischio di vedersi dichiarare inammissibile il ricorso contro il provvedimento attuativo sia se agisce in sede di conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte costituzionale (con le motivazioni addotte nella sentenza de qua), sia se agisce di fronte al giudice amministrativo, proponendo la forbice argomentativa che conosciamo. Il giudice amministrativo può rispondere infatti, come già talvolta ha fatto5, che non è competente a risolvere questioni attinenti alle attribuzioni regionali, valendo la giurisdizione esclusiva della Corte costituzionale: un conflitto negativo di giurisdizione che lascerebbe la Regione senza difese. Le remore del giudice amministrativo non sono affatto ingiustificate, infatti. Si prenda il nostro caso: la questione non si riduce alla semplice interpretazione delle disposizioni legislative, ma implica la ricostruzione delle ben più complicate relazioni finanziarie tra lo Stato, le Regioni ordinarie e speciali, e le Province autonome, relazioni rette da un complesso di atti costituzionali e sub-costituzionali, di cui la legge in questione è solo l’ultimo tassello, della quale, tra l’altro, va verificata l’inseribilità nel mosaico. Si può ritenere che l’autonomia finanziaria delle Regioni sia riducibile ad un problema di violazione di legge e non abbia “tono costituzionale”?
La teoria del “tono costituzionale” del conflitto nasce all’interno dei conflitti interorganici come risposta (sbagliata, a mio avviso) ad un problema di innegabile serietà: la frantumazione soggettiva (i “poteri” dello Stato) e oggettiva (le “attribuzioni” costituzionali) dei conflitti, con la conseguente polverizzazione di essi: il che accade soprattutto quando il conflitto si prospetti non nei termini dell’usurpazione del potere, ma dell’interferenza, cioè dell’ostacolo che un “potere” produce, esercitando le proprie attribuzioni, al corretto esercizio delle attribuzioni di un altro potere. Un fenomeno non negabile né arrestabile, che è proprio di un assetto pluralistico dei “poteri” dello Stato e che investe la Corte costituzionale nel momento in cui i tradizionali canali della mediazione politica non tengono più e diviene necessario ripristinare il limite legale (rectius: costituzionale) al gioco della politica. Da qui la funzione residuale del conflitto di attribuzioni che, al di là di ogni costruzione concettuale, deve essere attivato ogni qual volta una delle parti del gioco politico lamenti una lesione delle regole del gioco stesso e non vi siano altri strumenti giurisdizionali per ripristinare la prevalenza della regola sulla politica. Vale lo stesso ragionamento per i conflitti intersoggettivi? Credo di no, e per almeno due ragioni.
La prima è che nei conflitti tra enti il conflitto “per interferenza” svolge un ruolo molto più limitato che nei conflitti tra poteri6: anche quando la Regione (o la Provincia autonoma) agisce contro l’esclusione dai finanziamenti dello Stato, è la lesione della propria autonomia finanziaria che lamenta. Qui, insomma, non assistiamo affatto ad una polverizzazione dei soggetti e delle attribuzioni: anzi, i soggetti sono chiaramente e tassativamente individuati e le loro attribuzioni, almeno in linea di principio, sono separate. È stata la stessa Corte costituzionale a ribadire che esiste separazione tra l’amministrazione statale e quella regionale, e lo ha fatto ogni qual volta la legislazione statale ha cercato di creare punti di saldatura tra le due amministrazioni: lo ha fatto negando, per esempio, che un regolamento statale possa togliere validità ai precedenti provvedimenti amministrativi regionali (sent. 53/1991), o individuare gli organi regionali da inserire in organi collegiali dello Stato (sent. 355/1992), o prevedere che si possa ricorrere al Ministro contro un parere reso dall’amministrazione regionale (sent. 135/1992).
L’idea che il conflitto di attribuzioni scatti soltanto quando riguarda controversie di “livello costituzionale”, o che sia uno strumento residuale rispetto al ricorso al giudice amministrativo, appare dunque – e questa è la seconda ragione di perplessità – riaccreditare una visione “monista” dell’amministrazione pubblica, in cui la Regione non ha un ruolo diverso da quello di qualsiasi altro soggetto, pubblico o privato. In fondo, quale ipotesi di conflitto di attribuzione sarebbe tale da non poter essere riportata alla figura della violazione di legge? Se prendessimo sul serio – forse troppo sul serio – il principio che appare ispirare questa sentenza, avremmo davanti, certo, la difesa del “tono costituzionale” del conflitto, ma vedremmo anche ulteriormente svilito l’assetto “regionale” che la Costituzione ha voluto assicurare alla forma dello Stato.
È vero che questo assetto è ormai minacciato da tutte le parti: una stagione iniziata sotto i vessilli del federalismo sta, infatti, portando le Regioni a retrocedere, sul piano legislativo e delle riforme costituzionali, al rango di ente sussidiario degli enti locali. La riforma costituzionale attualmente in discussione, per esempio, offre agli enti locali garanzie di difesa giurisdizionale, nei conflitti di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, pari a quelle delle Regioni. Se, dunque, questa sentenza annuncia una svolta nella giurisprudenza sui conflitti, qualche allarme deve suonare per le Regioni: forse la Corte sta semplicemente preparandosi alla riforma costituzionale, predisponendo gli strumenti necessari ad operare da subito una severa scrematura dei conflitti ammissibili, in modo da poter sopravvivere all’ondata di controversie che minaccia di investirla.
1 Per limitarsi ai soli precedenti più recenti e strettamente analoghi alla questione trattata nella sentenza in commento, si può ricordare che: nella sentenza 126/1990 (in questa Rivista 1991, 519 ss.), la Corte aveva ammesso, e risolto in senso favorevole alla ricorrente, il conflitto promosso contro il d. P.C.M. che escludeva il Presidente della Provincia di Trento dagli organi dell’autorità di bacino fluviale, contravvenendo l’interpretazione della legge che la stessa Corte costituzionale aveva accreditato nel precedente giudizio di legittimità costituzionale; nella sentenza 72/1993 (in questa Rivista 1993, 1635 ss.), la Corte aveva ammesso, e risolto in senso favorevole alla ricorrente, il conflitto, del tutto simile al presente, promosso dalla Regione Toscana, che impugnava un decreto ministeriale in cui si escludevano dai contributi previsti per l’impreditoria giovanile nel Mezzogiorno le isole toscane, incluse invece dalla legge; nella sentenza 165/1994 (in questa Rivista 1995, 356 ss.), la Corte aveva ammesso, e risolto in favore della ricorrente, il conflitto contro la delibera del CIPE che escludeva la Provincia di Trento dai contributi per l’iniziativa “un albero per ogni neonato”, in contrasto ancora con la legge che istituisce l’iniziativa; nella sentenza 293/1995 (in questa Rivista 1996, 103 – s.m.), la Corte aveva ammesso, e risolto in favore della ricorrente, il conflitto contro il decreto ministeriale che escludeva le province autonome dal riparto del fondo ordinario per gli investimenti delle comunità montane.
2 Cfr. C.MEZZANOTTE, Le nozioni di potere e di conflitto nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur.cost. 1979, I, 110 ss., 112 s.
3 Cfr. L’ultima fortezza. Teoria della costituzione e conflitti di attribuzione, Milano 1996, 125 ss.
4 Per tutti cfr. R. BIN, L’importanza di perdere la causa (nota a Corte cost. 462/1994), in questa Rivista 1995, 1012 ss.
5 Il Consiglio di Stato, sez. IV, sent. 17 luglio 1996, n. 868 (in Cons. St. 1996, 1113 s.) ha esplicitamente negato la giurisidizione del giudice amministrativo di fronte alla censura di lesione delle competenze regionali “per la funzione esclusiva di risolvere un tal genere di conflitti accordata alla Corte costituzionale, salvo il potere del medesimo giudice amministrativo di sindacare gli altri tipi di vizi di legittimità”.
6 Si veda, a qusto proposito, la sent. 731/1988, in questa Rivista 1989, 1068 ss..